Grazie per quella “felix culpa” che ci fa incontrare Gesù

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Caro padre, sento spesso dire sia dai preti sia dai laici: «Nonostante i miei limiti Dio continua ad amarmi», quasi come se il limite costituisse per Dio un ostacolo per amarmi. Non solo questo, ma a volte a causa delle mie frequenti fragilità mi sento stanca di continuare a confessare sempre le stesse miserie e per questo cambio spesso confessore, per non sentir pronunciare l’avverbio «ancora». Non sopporto la mia umanità, la sento come un ostacolo alla mia relazione con Cristo. Ciò nonostante alcuni giorni fa in una sua omelia lei ha affermato che «Dio ci ama grazie alla nostra fragilità, ai nostri limiti, alla nostra umanità». Vorrei che mi aiutasse a capire meglio questa sua affermazione, perché sono uscita dalla chiesa con una contentezza mai sperimentata prima. È stato come sentire una corrispondenza tra le sue parole e quello che il mio cuore voleva capire.
Lettera firmata

Il moralismo nel quale siamo stati educati ci ha minato il cuore e l’intelligenza con una visione manichea della vita che considera il limite umano, la fragilità umana, un’obiezione allo sviluppo di una personalità autenticamente cristiana.
Questo influsso, che si ritrova anche nel pensiero protestante e in particolare nelle sette, è stato e continua a essere una delle difficoltà più grandi per comprendere il mistero stesso dell’Incarnazione. L’umano, non come condizione per incontrare Cristo, ma come obiezione. L’affermazione: «Dio mi ama nonostante i miei limiti» è un ritornello che si ascolta quotidianamente. Ancor peggio la testimonianza di alcuni preti brasiliani durante un ritiro spirituale a San Paolo che, in riferimento all’educazione ricevuta in seminario, hanno detto: «Ci siamo formati guardando la nostra umanità come qualcosa di negativo e mai come la possibilità per incontrare Cristo». Alcune suore, ancora giovani, mi raccontavano che durante il noviziato la Madre Maestra proibiva loro di abbracciare o prendere in braccio i bambini per non risvegliare in loro il senso di maternità, che è il punto più bello di una vita verginale. Se la verginità non fosse la pienezza della femminilità e della maternità, sarebbe una cosa disumana.

Un giorno è venuta a confessarsi una ragazzina piangendo. Le ho chiesto cosa stava succedendo e lei mi ha risposto: «Padre sono molto cattiva, non riesco a essere buona e cado continuamente nel peccato. Non so cosa fare, non mi sopporto più». È una mentalità che si riflette in tutti gli ambiti e in tutte le persone, qualsiasi siano le condizioni o lo stato sociale. «Padre la mia bimba è buona, ma ha i suoi difetti» , «Padre mia moglie è ottima, ma ha un carattere insopportabile», «Padre i miei figli sono eccellenti, ma sono ribelli», «Padre non mando mio figlio alle vacanze della parrocchia perché è stato rimandato in una materia, ma la cosa che mi provoca più dolore è che dice di aver incontrato Cristo», «Padre, mia moglie, che va a Messa tutti i giorni, a volte è insopportabile, quindi a che cosa le serve l’Eucarestia quotidiana?». Durante i miei quarant’anni di sacerdozio questi lamenti sono quelli che mi hanno accompagnato tutti i giorni. Nonostante questo, Cristo si è fatto carne solo ed esclusivamente per i nostri peccati. Se non esistesse l’uomo peccatore, se tutti fossimo onesti, buoni e senza difetti a che cosa sarebbe servito o a che cosa servirebbe il cristianesimo? Ciò che per noi è uno scandalo, moralisti come siamo, per Dio è stata l’unica ragione per la quale Lui si è fatto carne. Per questo durante il Preconio pasquale cantiamo: «Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato distrutto con la morte del Cristo… Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!».

L’umano è l’unica strada verso Cristo. E chi si scandalizza dell’umano, non riuscirà mai ad assaporare la bellezza dell’amore di Cristo. Se imparassimo a leggere i Vangeli e quindi tutta la storia della Chiesa, sarebbe molto semplice verificare questa verità. Cosa ha permesso a Cristo di incontrare, perdonare, abbracciare la Maddalena, se non la sua umanità fragile, miserabile, il suo adulterio? Cosa ha permesso a Zaccheo di lasciarsi guardare dagli occhi umanissimi di Cristo, che passando sotto l’albero su cui si era arrampicato gli disse: «Zaccheo, questa sera voglio cenare con te», se non la sua umanità peccatrice e aperta al Mistero? Se Zaccheo non fosse stato un peccatore, se non fosse stato serio con la sua umanità, non avrebbe mai gustato una convivenza come quella che ebbe con Gesù e non avrebbe mai sperimentato un cambiamento nella sua vita. Ciò che ha permesso a Zaccheo di lasciarsi amare, abbracciare da Gesù, è stata la serietà con la sua umanità.

E la stessa cosa è successa alla Samaritana, una donna che collezionava uomini. Quando quel giorno si incrociò con Cristo, la sua umanità sporca, da prostituta per noi ma non per Gesù, fu ciò che le permise di incontrare quell’uomo che le ha detto chi era, come poi ha riferito ai suoi compaesani. I suoi peccati, le sue miserie, non solo non sono stati un’obiezione, ma anzi la condizione per lasciarsi abbracciare da Cristo.

La stessa cosa che è successa a Matteo o al buon ladrone che sulla croce “rubò” a Cristo il Paradiso pochi minuti prima di morire. E tutto il Vangelo è un racconto di come l’umano, questa fragilità che tutti conosciamo, è l’unica strada verso Cristo. Gli unici che non hanno voluto riconoscere questa verità e si sono opposti, sono stati i moralisti, i “malati” della legge: i farisei, che usarono il loro moralismo per mettere Cristo in croce.

La rabbia dei farisei – dal momento che il moralista vive rabbioso e scandalizzato del male altrui, censurando il suo – è stata evidente fin dal primo momento in cui denominarono Gesù «il figlio del falegname». Non potevano nemmeno ipotizzare che quell’uomo tanto uguale a qualsiasi altro uomo, perfino nella sua professione di falegname, potesse affermare di essere il figlio di Dio. E ciò che scandalizzava e scandalizza oggigiorno è che il divino viva nell’umano, che la perla preziosa che è Gesù viva nel fango della Chiesa e che uno per incontrarla debba sporcarsi le mani nello sterco per tirarla fuori e pulirla.

Le grandi accuse contro la Chiesa non sono tanto contro i valori che afferma, ma contro il fatto che pretenda, lei così peccatrice, lei “casta meretrix” (casta prostituta come è stata definita nella storia), di essere il sacramento visibile della presenza di Cristo nel mondo. In questi giorni, senza alcun rispetto e con un odio diabolico, una setta perversa che si autodefinisce la chiesa biblica missionaria di Ñemby ha distribuito un orribile volantino definendo la Chiesa cattolica «la grande prostituta». È evidente che ciò che non sopportano è che una realtà storica, umana, pretenda di essere il veicolo attraverso cui il divino vive ed è presente nella storia.

Il Mistero è presente proprio nel fango che tra le tante cose caratterizza la Chiesa, come si è reso presente 2.000 anni fa in quell’uomo definito «il figlio del falegname» e accusato di essere un mangione e un ubriaco perché frequentava i pubblicani e le prostitute. Il corpo di Cristo è la Chiesa, dentro la sua fragilità, la sua miseria, che sono le mie miserie, i miei peccati. La Chiesa, la presenza di Cristo oggi, non può prescindere, se è il corpo vivo di Cristo come lo è, dalla materia umana che la costituisce. Se Dio avesse voluto permanere nel tempo e nello spazio senza passare attraverso l’umano, avrebbe scelto gli angeli. Tuttavia Cristo, pienezza umana, volle farsi peccatore, come afferma san Paolo, per salvarci dal peccato. Cristo per compiere la salvezza tua e di tutti gli uomini, ha bisogno della tua umanità, passa attraverso le tue miserie e i tuoi peccati. L’unica strada verso Cristo è l’uomo, l’umano, quel tuo e mio temperamento, questo umano così fragile e così bello, perché senza questo umano non potresti dire: «Tu o mio Cristo». Senza questo umano, senza questa natura fragile, senza la quotidiana esperienza di essere peccatore, non gusterei l’abbraccio del Mistero fatto carne in Cristo.

Senza la mia umanità, il mio temperamento, brutto per molti, ma nonostante ciò un dono meraviglioso di Dio, non avrei bisogno di avvicinarmi ogni settimana alla confessione, non riuscirei ad abbracciare l’umanità dei miei ammalati di Aids, non sarei felice quando uno o molti di loro che hanno vissuto nella strada, spesso prostituendosi, si lasciano abbracciare, attraverso la mia umanità, attraverso il Sacramento della Confessione da Cristo. Gesù ha bisogno di questo “sterco” per fare le sue buone torte, di questo umano per fare di un peccatore uno strumento della sua misericordia.

In questi giorni ho letto un’affermazione del grande scrittore inglese Lewis, convertito dall’anglicanesimo al cattolicesimo e che propongo ai lettori perché non abbiano paura delle loro miserie, ma si lascino abbracciare da Cristo. Leggiamo nel suo libro I quattro amori: «Sono convinto che il più sregolato e smodato degli affetti contrasta meno la volontà di Dio di una mancanza d’amore volontariamente ricercata per autoproteggerci… Non è cercando di evitare le sofferenze inevitabili dell’amore che ci avvicineremo di più a Dio, ma accettandole e offrendole a lui: gettando lontano l’armatura di protezione. Se è stabilito che il nostro cuore debba spezzarsi, e se Egli ha scelto questa via per farlo, così sia».

Infine, non dimentichiamo quanto affermava san Francesco di Sales: «Che meraviglia se la debolezza è debole!». Alzarsi ogni mattina con questa coscienza di se stessi è il modo più bello, più attraente per cominciare dicendo: «Tu o mio Cristo». E così la giornata si trasforma in una grande allegria, anche per i depressi e gli ammalati, come lo testimoniano la mia storia e quella dei miei figli che soffrono dolori atroci. L’umano ha bisogno di Cristo e Cristo dell’umano, della tua umanità così come sei, con i tuoi limiti, con il tuo temperamento, con le tue debolezze.

Aldo Trento – Tempi

Articolo tratto da www.tempi.it per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

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