Il solo direttore: Gesù Cristo (dal Diario di Elisabetta Canori Mora)

Lunedì 21 novembre 1774 nacque una figlia di Tommaso Canori all’ora una e mezzo di notte e fu battezzata il 22 alla Parrocchia di Campo Carleo alle ore 13 e un quarto, il compare fu il P. Giovanni Battista di Roma, Minore Osservante in Aracoeli, e gli furono posti i seguenti nomi: Maria Elisabetta Cecilia Geltrude.

Il 3 luglio 1782 cresimata Maria Elisabetta da Monsignor Lasceris a San Pietro in Vaticano, e la comare fu la Priora di S. Eufemia, la Suora Geltrude Riggoli.

All’età di undici anni, racconta la povera Giovanna Felice di sé, fui condotta in monastero; stetti in questo due anni e otto mesi. Fu un tratto della misericordia di Dio, che in questo sacro chiostro mi condusse, per liberarmi dalla vanità del mondo, che già serpeggiava nel mio seno.

Entrata un questo sacro luogo, dedicai tutta al Signore, con orazioni continue, con mortificazioni, con esercizi di virtù, ma particolarmente con il raccoglimento interno, e questo lo procuravo con la solitudine, con la mortificazione dei sentimenti del corpo; ero favorita da Dio bene spesso, tanto nella santa Comunione quanto nelle orazioni.

A dodici anni una mattina, dopo la santa Comunione, ebbi ordine dal mio Signore di fare il voto di carità, con molta consolazione mi consacrai al Signore, ma senza che il confessore ne sapesse niente, mentre la povera anima mia non aveva altro direttore che Gesù crocifisso, con lui mi consigliavo circa le penitenze che praticavo, come ancora in tutto il resto. Non mancarono alla povera Giovanna Felice né travagli né persecuzioni, in questo tempo; ma particolarmente dovetti soffrire una calunnia dal confessore, che il demonio stesso ne fu l’autore, ma con somma tranquillità del mio cuore, anzi si aumentavano viepiù il raccoglimento interiore, in mezzo alle persecuzioni andava crescendo il mio spirito nel Signore, quando il mio padre a viva forza mi trasse fuori da questo monastero e mi ricondusse alla casa paterna.

Si sposa

Mi fa orrore proseguire il racconto; tornata che fui alla casa paterna mi dimenticai del voto fatto, mi dimenticai del mio Dio; disprezzando il suo amore,mi diedi in preda alla vanità del mondo, ma non per questo fui abbandonata dall’amoroso Signore; in mezzo a tanti pericoli, a cui incautamente mi esponevo, veniva la povera anima mia assistita dalla grazia di Dio, mentre non comprendevo la malizia del peccato. Da quanti pericoli mi ha sottratto, senza che io ne conoscessi la rovina che mi poteva venire, mi donava in certi casi una semplicità soprannaturale, e così la povera anima mia restava immune da tante colpe, che mi farebbero assai più rea di quello che sono avanti al cospetto di Dio.
Finalmente passai allo stato matrimoniale; e così vengo a compiere il cumulo della mia nefandità. Mio Dio, mio Signore, e come puoi soffrire tanta audacia senza punirla? Terra come non mi inghiottisti! aria, come non mi soffocasti! Ah, mio Gesù, mio amore, il tuo prezioso sangue fu quello che mi liberò dal meritato castigo: in anima e in corpo dovevo piombare nell’inferno! Nonostante sì temerario attentato non fui abbandonata dal mio Dio, ma anzi con somma premura fui assistita da grazie molto grandi. La divina provvidenza, per liberarmi da molti pericoli peccaminosi, in cui sicuramente sarei incorsa, si servì di un mezzo molto efficace, e questo fu la gelosia del mio consorte, che non mi permetteva neppure di trattare i miei genitori, pena per me molto sensibile.
In questo stato ricorrevo al mio Dio con lacrime e con orazioni, ma buon per me che il mio Signore mi teneva lontana affatto da ogni peccato. Dieci mesi passai in questa situazione.

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