Jessy dalla Nigeria, passando dal Marocco all’Italia

Jessy donna, nazionalità nigeriana, età 33 anni, viveva con i genitori e con il fratello maggiore di tre anni. La madre morì, probabilmente per una malattia, quando aveva 2 anni. Lei rimase con la nonna insieme al fratello in un villaggio in Nigeria, ma quando aveva cinque anni, anche la nonna morì. Dopo andò a vivere in un altro villaggio con il padre. Il padre di era proprietario di un piccolo negozio che vendeva generi alimentari (riso, fagioli.); un giorno scoppiò un incendio dal vicino distributore di benzina del villaggio e tutti quelli che erano li vicino morirono, compreso il padre di J.E. che rimase bruciato nel market. J.E. non mi ricorda il periodo in cui successe, ero ancora piccola (si salvò perché la loro casa era un po’ fuori dal villaggio. Insieme al fratello J.E. tornò quindi al villaggio,
dove avevo vissuto con la nonna e lì furono accolti dalla sorella maggiore della madre, zia J.. Lì J.E. visse diversi anni, ma quando diventò più grande (11-15 anni non mi ricordo) dovette scappare via: nel villaggio la tradizione vuole che le ragazze debbano subire l’infibulazione. E’ il capo del villaggio, eletto dalla gente
stessa del villaggio, che decide quando chiamarti per l’infibulazione. Nel villaggio ci sono musulmani, cristiani e atei che fanno il vodoo (Juju in nigeriano), il capo del villaggio chiamato C.O., faceva il juju e quando la zia di J.E. si rifiutò di farle fare l’infibulazione, loro erano cristiani, cominciarono le perseguitazioni. La cosa stava creando conflitti troppo grossi fra la zia e il capo del villaggio: quando venne
il turno di J.E. per essere infibulata, il capo del villaggio venne a casa della zia con altre persone e minacciò di morte J.E. e la mia famiglia. La zia pensò che allontanandola si sarebbero tutti calmati, così’ le dette i soldi per scappare a Lagos.

Percorso migratorio 

A Lagos, dove J.E. fu accolta in una casa di un amico del fratello, il quale poi le raccontò che il fratello, rimasto nel villaggio, fu ripetutamente picchiato alla testa e che queste botte l’hanno reso matto, adesso J.E. ha perso qualsiasi traccia del fratello. J.E aveva molta paura, perché sapeva che la stavano cercando e che
facilmente sarebbero arrivati a Lagos, così l’amico del fratello, che non voleva avere problemi, le dette un po’ di soldi per viaggiare verso il Senegal insieme a altre donne. Arrivata in Senegal, conobbe A. un ragazzo senegalese di religione musulmana, che la presentò alla sua famiglia la quale non la accettò perché cristiana. Lui decise di non lasciala e quindi, trovando piccoli lavori giornalieri,
riuscirono a mettere da parte un po’ di soldi e alla fine del 2000 partirono per il Marocco, anche perché la ragazza aveva paura che dal suo villaggio arrivassero a minacciare l’amico del fratello per sapere dove fosse andata.
Con A. J.E. è stata in Marocco per due settimane, viveva in un bosco per paura che le persone del posto li facessero tornare in Senegal , per sopravvivere mangiavamo pane secco che un signore nigeriano portava loro. Questo nigeriano, propose loro di arrivare in Spagna con la barca. J.E. crede che A. abbia dato circa 800,00€ per il trasporto di entrambi. Dopo una camminata di tre ore arrivarono alla barca e la traversata durò due giorni, su una barca carica con altre persone. Quando arrivammo nelle vicinanze di un porto, lo scafi sta ci disse di scendere, perché la città è un campo e se li avessero presi i poliziotti, li avrebbero rimpatriati. Così hanno raggiunto la riva da un punto in cui si toccava. Con A. si sono nascosti nel bosco per una settimana , poi lui andò a cercare qualcosa da mangiare e non è più tornato. J.E. uscì dal bosco e cominciò a camminare, incontrò una signora nigeriana, che ascoltando la sua situazione decise di aiutarla, ospitandola nella sua casa in Spagna. In Spagna J.E. è rimasta circa tre settimane, poi la signora, essendo J.E.
clandestina, la aiutò ad andare via, non voleva avere problemi, comprandole un biglietto bus per l’Italia.

Arrivo in Italia e modalità di permanenza

J.E. arrivò in Italia, in Lombardia, agli inizi del 2001. Al suo arrivo J.E. chiamò il cellulare che la signora in Spagna le dette, ma non rispondeva nessuno, così alla stazione dei pullman, incontrò un’altra signora Nigeriana, alla quale raccontai la sua storia e la signora accettò di aiutarla e la portò a casa sua in un’altra città della Lombardia. J.E. era clandestina e se l’avessero fermata l’avrebbero espulsa  dall’Italia e fatta tornare in Nigeria. La signora nigeriana l’avrebbe aiutata lei, nell’unico modo sicuro: la portò in un appartamento, dove viveva con altre tre ragazze nigeriane, le disse che avrebbe dovuto cominciare a lavorare per strada e fare la prostituta e che, nel frattempo, avrebbe fatto sistemare i documenti
da qualcuno una volta che fosse riuscita a mettere un po’ di soldi da parte. J.E. non sapeva cosa fare, nessuno le aveva spiegato della possibilità di richiedere protezione internazionale, così cominciò a lavorare: di notte usciva dalla casa e andava a fare la prostituta per strada, spesso era picchiata e derubata dai clienti, la signora diceva che era normale che succedessero tali cose con quel tipo di lavoro;
in casa la situazione era tranquilla, si viveva senza discussioni. Una notte per strada mentre stava lavorando arrivò la polizia che la portò in caserma, le prese le impronte digitali, J.E. non mi ricorda il nome che dette, poi la rilasciarono. Una seconda volta è stata fermata dalla polizia mentre scendeva da un treno, la polizia la trasferì in un campo nel Lazio nel quale è stata per due settimane e verso la fine
del 2003 fu rimpatriata, ma ancora nessuno le aveva detto della possibilità della richiesta di asilo. Quando arrivò in Nigeria, tornò a Lagos dall’amico del fratello, il quale le raccontò che ancora il capo del villaggio la cercava, che la casa della zia era stata distrutta:
è un dovere del capo del villaggio quello di dover trovare chi si rifiuta di essere infibulata. Dopo poco tempo (agli inizi del 2004) decise di lasciare la Nigeria, perché la situazione era sempre pericolosa. Scappò ancora in Marocco, aveva un po’ di soldi e sapeva come fare, chiamai di nuovo l’uomo nigeriano che li aveva organizzato il loro viaggio la prima volta e lui organizzò il viaggio da Lagos alla Spagna, transitando dal Marocco senza fermarsi. Arrivata in Spagna, i poliziotti la presero e le fecero le impronte digitali, dopodiché
fu rilasciata con un nome diverso dal suo. Tra le persone rilasciate e con la quale aveva anche viaggiato, J.E. ha conosciuto una ragazza che aveva una parente in un’altra grande città della Spagna, dalla quale sono andate insieme e hanno soggiornato tre giorni. Dopodiché ha chiamato una signora, che conobbe quando stava in Lombardia e che viveva in Veneto e che a quel tempo faceva la prostituta. Le ha spiegato la situazione e lei le spedì un po’ di soldi per raggiungerla in Veneto.
Arrivata là, è andata a vivere in casa della signora. Lei non si prostituiva più e abitava insieme al marito e al fi glio di quattro anni, J.E. ha ricominciato a prostituirsi per qualche anno: andava su una strada, finché un giorno è stata sorpresa insieme a un cliente dalla polizia. J.E. è stata trasferita in un campo ed è stata trattenuta
lì per due settimane; dopo é stata trasferita in un campo nel Lazio, nel quale è rimasta per due mesi. Qui la polizia le prese le impronte e J.E. dichiarò un altro nome perché era spaventata e aveva paura che la rimandassero in Nigeria. Durante la permanenza al campo, la polizia la informò circa la possibilità di richiedere asilo, e una ragazza che stava nel campo con me si offrì di scrivere una storia che J.E. consegnò ai poliziotti. Con un foglio rilasciato da portare alla Questura in Veneto le è stato rilasciato un Permesso di soggiorno di tre mesi. Era il gennaio del 2008. Nessuno le aveva detto di andare in commissione, in un CARA.
Nel frattempo la signora che l’aveva ospitata in Veneto, la buttò fuori di casa, non voleva avere problemi e perse il permesso di soggiorno, così impaurita nel 2008 comprò un biglietto dell’autobus e tornò in Spagna. Li è stata accolta in un centro della CARITAS, in cui incontrò una signora nigeriana che andava lì a prendere della roba. Questa signora decise di aiutarla facendola stare a casa sua: J.E, pagava l’affitto e cominciò a lavorare a nero in una fabbrica di peperoni. Dopo l’occupazione in fabbrica, cominciò a fare la baby sitter, ma quando anche questo lavoro finì, J.E. non avevo più soldi e decisi di trasferirsi in Svizzera nel 2012 perché le consigliarono di andare là. In quel momento ero in gravidanza e le dissero che in Svizzera aiutavano le donne incinte. Arrivata là la gravidanza, non andò bene e fu costretta a fare un raschiamento. In Svizzera presero nuovamente le impronte digitali e videro che erano già state prese in Italia, e che sarei dovuta tornare là.
Ha comprato il biglietto con i soldi che la polizia svizzera le ha dato ed è tornata in Italia nel 2013, in Friuli Venezia Giulia. J.E, è rimasta una settimana alla stazione dei treni del capoluogo, perché non aveva niente e nessuno, fino a che un signore bianco le ha indicato un posto dove mi avrebbero aiutata. J.E. è andata quindi ai servizi sociali e l’assistente sociale l’ha accompagnata alla polizia, che ha fatto delle ricerche e alla quale non risulta la sua presenza poiché in precedenza aveva dato un nome falso Dal Friuli è poi stata spostata allo SPRAR in Toscana nel mese di giugno 2013.

Situazione attuale e percorso legale

La ragazza nel periodo successivo alla presentazione della domanda di protezione internazionale è stata ed è ancora accolta in un progetto SPRAR in Toscana.

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