Lettera sull’obbedienza (Sant’Ignazio di Loyola, 29 luglio 1547)

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IHS La grazia e l’amore di Gesù Cristo N.S. vivano sempre e aumentino nelle nostre anime. Amen. L’obbligo in cui mi pone l’ufficio tanto pesante che mi è stato affidato, l’amore e i desideri che Dio nostro Creatore e Signore si degna darmi, conformi a tale obbligo, per desiderare sempre più e, conseguentemente, considerare quanto potrebbe far progredire maggiormente il bene della Compagnia e dei suoi membri per l’onore e la gloria di Dio, sono il motivo che m’inclina e mi spinge a provvedere effettivamente, quanto mi possibile, a quelle cose che io giudico nel Signor nostro utili per il maggior bene della Compagnia. Una di esse che io sento molto importante è che, dovunque si troverà un certo numero di persone della Compagnia destinate a vivere insieme per qualche tempo, ci sia tra loro un superiore, da cui siano dirette e governate come lo sarebbero mediante il preposito generale, se presente. E siccome tale provvedimento è stato attuato nel Portogallo e a Padova e ora si sta per attuare a Lovanio, così mi pare debba attuarsi a Gandia e a Valenza e in altre parti dove si trovassero studenti della Compagnia. Dirò dunque anzitutto in questa lettera ciò che mi muove nel Signor nostro a ritenere come cosa certa di farmi sostituire costì da un superiore, per il suo maggior onore e la sua lode per il maggior bene dei singoli e della comunità ivi residenti e in generale di tutto il corpo della Compagnia. Indicherò poi il modo di eleggerlo e ubbidirgli, come nello stesso S.N. mi pare più conveniente.

Quanto alla prima parte, che è di dare qualcuna delle ragioni che mi muovono a farmi sostituire da un superiore, penso veramente di dilungarmi più di quanto potrebbe bastare per persuadere di una cosa sì santa e necessaria. La mia intenzione però è solo di provare che sia ben ordinato quanto ora si ordina, ma molto più di esortarvi ad accettare tale obbedienza e quindi a perseverare in essa con allegrezza e devozione. Venendo dunque al mio punto, uno dei numerosi motivi che mi spingono è l’esempio universale offertoci da tutti gli uomini che vivono in comunità con un certo governo. Così, nei regni come nelle città e nei particolari Istituti e le loro case, sia nei tempi passati sia nei presenti, comunemente si suole ridurre il governo alla unità di un superiore per eliminare la confusione e il disordine e per dirigere bene i molti insieme. E’ certo difatti che se tutti gli uomini di giudizio ragionevole concordano su un punto, quello deve essere ritenuto più giusto, più vero e più conveniente. Ma molto più efficace è il vivo esempio di Cristo N.S. il quale, vivendo in compagnia dei suoi genitori, «era loro sottomesso» (Lc 2,51); e tra loro due la nostra comune Signora, la Vergine Maria, lo era a Giuseppe, cui come a capo così parla l’angelo: « Prendi il figlio e sua madre» (Mt 2,13). Lo stesso Cristo N.S., vivendo in compagnia dei suoi discepoli, si degnò essere loro capo e, dovendosi allontanare fisicamente, lasciò S. Pietro capo degli altri e di tutta la Chiesa, raccomandandogli di governarli: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,17). E così fu anche dopo che gli apostoli furono ripieni dello Spirito Santo. Ora se essi ebbero bisogno di un superiore, quanto più ogni altra comunità? Sappiamo pure che la primitiva Chiesa di Gerusalemme ebbe come superiore Giacomo il Minore; e che nelle sette Chiese di Asia si ebbero i sette capi che S. Giovanni nell’Apocalisse chiama angeli; e che nelle altre comunità similmente venivano posti dei capi dagli apostoli, e ad ubbidirli esorta S. Paolo: «Ubbidite ai vostri capi e siate loro sottomessi» (Eb 13, 17). E l’uso è stato mantenuto dai loro successori fino ad oggi. Ma in modo specialissimo presso i religiosi, dagli anacoreti e dai primi fondatori di Istituti sino ai nostri giorni, si troverà sempre osservato questo che, dove gente viveva insieme, c’era tra loro un capo che reggeva con autorità e governava gli altri membri.

A parte gli esempi, anche le ragioni muovono. Perché se dobbiamo considerare come migliore quel modo di vivere con cui si rende servizio maggiormente accetto a Dio, riterremmo tale quello nel quale si fa da tutti l’oblazione dell’ubbidienza che è accetta più di tutti i sacrifici: « L’ubbidienza vale più delle vittime e la docilità più dell’offerta del grasso degli arieti » (1 Sam 15,22). E giustamente, poiché gli si offre di più, offrendo il giudizio e la volontà e la libertà, e cioè la parte principale dell’uomo. Inoltre tal genere di vita aiuta pure a conseguire ogni virtù, perché, come dice S. Gregorio, «l’ubbidienza non è tanto una virtù, quanto madre di virtù » (1). Nessuna meraviglia quindi se fa ottenere da Dio quanto si domanda, come dice lo stesso santo: «Se noi siamo ubbidienti ai nostri superiori, Dio ubbidirà alle nostre preghiere» (2). E di lui lo dice la Scrittura, parlando di Giosuè che aveva ubbidito molto bene a Mosè suo superiore: non solo ubbidì a lui il sole fermandosi alla sua voce – «Fermati, o sole, su Gabaon» -, ma anche Dio onnipotente, creatore del sole e di tutte le cose – «Il Signore ubbidì alla voce di un uomo» (Gs 10, 12-14). Ne risulta così un bene sempre maggiore che permette ai sudditi di crescere nelle virtù, poiché fanno ubbidiente alla propria preghiera l’autore stesso delle virtù. E anche perché, secondo il detto del saggio, «aggiungerai alla virtù ciò che toglierai alla tua volontà». Questa forma di vita fa pure evitare a chi segue la volontà del superiore molti errori del giudizio proprio e peccati e difetti della propria volontà; e questo non solo in cose particolari, bensì in tutto lo stato di vita, obbligando ognuno – secondo il nostro modo di parlare – la divina provvidenza a reggerlo e indirizzarlo tanto più quanto più si affiderà alle mani di Dio mediante l’ubbidienza che presta al suo ministro, che è qualsiasi superiore cui si sottomette per amore. Si aggiunga a quanto detto l’utilità di resistere e vincere tutte le tentazioni e debolezze da parte di quelli che hanno vicino il superiore al cui parere si conformano e da cui sono retti: «L’ubbidiente canterà vittoria» (Pr 21, 28), trionfando su se stesso con il più nobile dei trionfi. Certo è una via direttissima esercitarsi a sottomettere il proprio giudizio e volere per mezzo dell’ubbidienza: esercizio che cesserebbe se il superiore fosse lontano.

E ancora questo modo di vivere è di un merito singolare per quelli che ne sanno profittare: E’ come un martirio che continuamente taglia la testa del proprio giudizio e della volontà, mettendo al suo posto quella di Cristo N.S. manifestata mediante il suo ministro; né‚ viene fatta fuori la sola volontà di vivere, come avviene al martire, ma tutte le volontà insieme. Va pure crescendo il merito, in quanto si va aggiungendo a tutte le opere buone molto valore per via dell’ubbidienza. Bisogna anche considerare che l’ubbidienza fa marciare senza fatica e avanzare più rapidamente sulla via del cielo, come chi camminasse con i piedi altrui e non già con i piedi del suo intelletto e della sua volontà. E in tutte le cose, come dormire, mangiare, ecc., vi capiterà di camminare per la detta via con meriti continui, come avviene a quelli che navigano i quali, pur riposando, camminano. E rispetto alla meta del viaggio, che è la cosa più importante, fa guadagnare e possedere più sicuramente la chiave con cui entrare nel cielo. Questo fa l’ubbidienza, mentre la disobbedienza fece e fa perdere la chiave del cielo. Ma anche, finché‚ durano il penoso pellegrinaggio e l’esilio presente, tale forma di vita fa pregustare il riposo della patria, non solo liberando da perplessità e dubbi, ma anche alleviando dal peso gravissimo della propria volontà e dalla sollecitudine di se stessi, che viene addossata al superiore con la conseguenza di tanta pace e tranquillità.

Chi non la sentisse in se stesso, pur vivendo sotto l’ubbidienza e col superiore vicino, esamini bene che non sia colpa sua per esser tornato a ingerirsi nelle cose proprie, dopo essersi abbandonato nelle mani del superiore. Ascolti quanto S. Bernardo dice a lui e ai suoi simili: «Voi che ci avete affidato una buona volta la cura di voi stessi, perché‚ vi intromettete di nuovo in ciò che vi riguarda?» (3). E’ dunque un grande sollievo e riposo, per chi conosce il beneficio accordatogli da Dio, aver vicino qualcuno cui questo non solo costituisce un riposo, ma nobilita ed eleva grandemente l’uomo al di sopra del suo stato, spogliandolo e rivestendolo di Dio, sommo bene, che riempie la nostra anima tanto quanto la trova vuota della propria volontà. Costoro se sono ubbidienti di cuore, possono dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Qualcuno potrebbe dire che a tutto questo potrebbe partecipare chi ubbidisse in Cristo al preposito generale della Compagnia; ma io sono certo che non vi parteciperebbe tanto quanto quelli che, vivendo in comunità, hanno vicino qualcuno cui ubbidire nello stesso S.N. Prescindendo dai vantaggi spirituali detti, che riguardano maggiormente i singoli, questa forma di vita ha la sua importanza per la conservazione di tutto il corpo della vostra comunità. Infatti nessuna moltitudine può conservarsi come corpo se non è unita, né‚ si può unire se non c’è ordine, né‚ ci può essere ordine se non c’è un capo cui siano subordinati per ubbidienza gli altri membri.

Se quindi si desidera che si conservi l’essere del nostro Istituto, bisogna desiderare di avere qualcuno che vi sia capo. Oltre la conservazione, importa molto, per il buon governo di codesta comunità di Gandia, che ci sia vicino qualcuno che conosca bene tutti gli affari e vi provveda come lo farei io se fossi presente. L’esperienza infatti ci dimostra che da qui è impossibile provvedere a molte cose importanti: in parte perché non si può scrivere tutto e farcelo sapere qui, non essendo possibile affidare tutte le cose alle lettere; in parte perché‚ per molte questioni si perderebbe l’occasione mentre si domanda e s’invia il parere da qui. Pure per chiunque dovesse prendere il mio incarico tanto pesante, sarà un gran sollievo che gli spetta, anzi gli è necessario. Essendo obbligato, ma non potendo attendere da sé a tutti i singoli, lo può fare almeno per mezzo di altri. Non poca utilità, indipendentemente da quella già detta, risulterà a tutto il corpo della Compagnia: a questa sarà molto utile che gli studenti e gli altri che la seguono siano molto esercitati nell’ubbidienza, senza badare alla persona di colui che governa, ma riconoscendo in lui Cristo N.S., coscienti di ubbidire a lui nel suo vicario. Ecco la ragione di questa utilità: la virtù dell’ubbidienza, essendo molto necessaria in ogni Istituto, lo è in modo specialissimo in questo, perché‚ i suoi membri sono persone istruite, inviate dal Papa e da prelati, disperse in luoghi molto lontani dalla residenza del superiore, a contatto con persone importanti, e per molti altri motivi ancora, per cui, se l’ubbidienza non fosse eccellente, forse sarebbe impossibile governare tale gente. E quindi nessun esercizio ritengo come più opportuno e necessario, per il bene comune della Compagnia, che questo dell’ubbidire molto bene (4). Così pure, per sapere presiedere agli altri e reggerli, è necessario anzitutto essere buoni maestri nell’ubbidire. E come è assai utile alla Compagnia avere uomini capaci di dirigere, lo è pure avere un mezzo per imparare a ubbidire. Per tale motivo qui in casa abbiamo abitualmente due ministri, l’uno subordinato all’altro e, a chiunque dei due, anche se laico, devono ubbidire quanti sono in casa come a me e a chi facesse le mie veci.

Finalmente, se gli errori e i successi degli altri ci devono essere di ammaestramento per quanto dobbiamo imitare e seguire, vediamo che in molte comunità la mancanza di capi con autorità sufficiente per reggere gli altri ha provocato sbagli numerosi e rilevanti. Al contrario si vede il vantaggio del governo là dove tutti ubbidiscono a un capo. Essendo stati sufficientemente esposti, rispetto alla prima parte, i motivi profondi per cui si deve molto utilmente e necessariamente provvedere a un superiore, ed essendo stato messo in luce con quanta volontà e devozione dobbiate accettare ciò, resta da parlare dell’altra parte, del modo cioè di eleggere un capo e di ubbidire a chi fosse eletto. Per l’elezione, voi tutti che risiedete a Gandia riunitevi per tre giorni senza comunicare gli uni gli altri sulla questione dell’elezione. I sacerdoti celebrerete con speciale intenzione per il suo buon esito, gli altri pure la raccomanderete molto a Dio N.S. nelle vostre preghiere. Tutti durante questo tempo rifletterete chi potrebbe essere più idoneo a tale incarico, non mirando ad altro che al miglior governo e al maggior bene di questa vostra comunità di Gandia, a gloria e onore divino, come se doveste prendere sulla vostra coscienza tale elezione e darne conto a Dio N.S. nel gran giorno del giudizio. Ognuno personalmente scriva e firmi il suo voto nel terzo giorno; si depongano i voti insieme in un urna o in un luogo, dove nessuno li tocchi sino al giorno dopo. In presenza di tutti poi si faccia lo spoglio e chi avesse più voti, quello sia superiore o rettore vostro, e io fin d’ora l’approvo fin tanto che non apprendiate da me il contrario. E potrete adottare questo modo di elezione finché‚ non si troverà costì alcun professo e finché‚ le Costituzioni non saranno promulgate.

E ora quanto al modo di ubbidirgli, dopo averlo eletto, mi pare debba essere lo stesso che usereste con me, se fossi presente o con chiunque avesse il mio incarico. Tutta l’autorità che io presente, vorrei avere per meglio aiutarvi a maggior onore e gloria di Dio N.S., desidero che l’abbia il rettore per lo stesso fine. Avrete per lui lo stesso rispetto che a me stesso, anzi né a lui né‚ a me, ma a Gesù Cristo S.N., a cui e per cui ubbidite entrambi e ai suoi ministri. Chi non fosse disposto a ubbidire e a lasciarsi guidare nel modo detto – si tratti di quelli che sono attualmente in Gandia o di quelli che seguiranno dopo, si tratti di questo rettore o di un altro che gli subentrasse per disposizione di chi fosse preposito generale della Compagnia – si disponga a prendere altra via, lasciando la vostra comunità e il suo comune modo di vivere, perché‚ non conviene che in essa ci sia alcuno che non possa o non voglia sottomettersi all’ubbidienza come l’abbiamo esposta. Questa lettera sarà, per tutti quelli che risiedono costì, testimonianza certa di quanto sento nel S.N. e vorrei e desidererei si facesse per il miglior progresso spirituale degli studenti della Compagnia che ci sono attualmente, a maggior servizio, lode e gloria di Dio N.S. e Creatore. Che egli, per la sua infinita e somma bontà, voglia darci la sua grazia piena perché‚ sentiamo la sua santissima volontà e la compiamo interamente. Amen.
Sant’Ignazio di Loyola

NOTE (1) «Oboedientia sola virtus est, quae ceteras virtutes menti inserit, isertasque custodit» (Moralia, l. 35, c. 14: PL 76, 765 B). L’espressione mater virtutum riferita all’obbedienza è in S. Agostino, Contra adversarium Legis et Prophetarum, l. 1, c. 14; PL 42, 613 (2) Sermones ad Fratres de eremo, 61 (fra le opere di S. Agostino): PL 40, 1344. L’opera al tempo di s. Ignazio era attribuita a s. Gregorio (3) S. Bernardo, In Cantica, sermo 19, 7: PL 183, 866 B (4) Cfr Cost p. VIII, c. I, 1. A [655. 656] “

lettera di Sant’Ignazio di Loyola alla COMUNITA’ DI GANDIA, ” per il miglior progresso spirituale degli studenti della Compagnia che ci sono attualmente, a maggior servizio, lode e gloria di Dio N.S. e Creatore”, del 29 luglio 1547 – MI Epp I 331-338 

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