Un uragano di carita’ (Giovanni Papini)

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Si stava di casa in Borgognissanti, a un primo piano. Andavo gia’ a scuola, ma soltanto alla mattina. Dopo mezzogiorno, solo solo con la mamma che sfaccendava, passavo il tempo, quando non si usciva sui Lungarni, ad attaccare calcomanie o affacciato alla finestra. In un pomeriggio bigio, umido, freddiccio, deserto e desolato, un po’ prima del crepuscolo, si udì dal fondo della strada un clangore di trombe, quasi affannoso eppur solenne. Il suono, via via, si avvicinò, e potei scorgere due carri scoperti, color fango secco, tirati da bei cavalli a criniera bionda e coda svolazzante. A cassetta c’era un soldato che guidava, e uno che ogni dieci passi imboccava una tromba lustra d’ottone. Altri soldati seguivano a piedi i carri, che procedevano lentamente in mezzo alla strada. E allora assistei con i miei occhi stupefatti di bambino a uno strano spettacolo.

Quasi tutte le finestre si aprirono, si riempirono di visi curiosi ma silenziosi. Subito dopo, da quelle finestre, cominciò a piovere sui carri e intorno ai carri di tutto un po’: fagotti di cenci, involti di panni, sacchi ben legati, rotoli scuri, pacchi misteriosi che rimbalzavano sulle lastre di pietra serena. Pareva che la gente, presa da improvvisa pazzia, volesse vuotare le case, si divertisse a buttar via con tacita furia quel che aveva sotto mano. I soldati correvano qua e là a raccattare quella roba, e l’ammontavano sui carri. Vidi una bambina saltar fuori da un uscio e porgere timidamente a uno di quei soldati un suo fardellino bianco, legato con lo spago: era talmente piccolo che non si era fidata di buttarlo giù dalla finestra, per paura che non fosse visto o andasse perso.

Ogni poco i grossi cavalli si fermavano, le trombe lucenti squillavano più forte, e la strabiliante pioggia ricominciava più avanti. Pareva una vigilia di finimondo, un delirio di prodigalità, di purificazione. I gridi, gli appelli, le note profonde dei trombettieri, i tonfi sordi sul lastrico, lo scalpitìo dei cavalli, avevano trasformato all’improvviso la nostra placida strada in un tumultuoso atrio dell’Apocalisse. Ed ecco, ad accrescere il mio stupore, mia madre che arrotola un mio vestitino quasi nuovo e, dopo averlo ravvolto in una sottana nera, lo scaraventa giù dalla finestra. Perché mai, noi così poveri, si gettava ai soldati quella roba nostra? Seppi finalmente, quando tutto si fu quietato, il perché: in una contrada lontana, a me sconosciuta, la terra aveva cominciato a tremare, distruggendo case e paesi; migliaia di sventurati erano fuggiti quasi nudi e non avevano nulla da mettersi addosso. L’esercito andava raccogliendo abiti per quegli infelici. Ebbi così, in quel gelido crepuscolo, la prima rivelazione della forza di carità di un popolo povero e, nonostante tutto, cristiano.

Giovanni Papini – Passato remoto.

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