
«Prendete e mangiate»
Quando Gesù entra nella casa dei suoi discepoli, questa diventa la sua casa. L’invitato diventa ospite. Lui che prima è stato invitato ora invita. I due discepoli che si sono fidati dello sconosciuto fino a farlo entrare nel loro spazio intimo ora sono condotti nella vita intima del loro padrone di casa.
«Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro». Così semplice, così ordinario, così ovvio e -tuttavia -così diverso!
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Che altro puoi fare quando condividi il pane con i tuoi amici?
Lo prendi, lo benedici, lo spezzi e lo dai. Per questo è fatto il pane: essere preso, benedetto, spezzato e dato. Niente di nuovo, niente di sorprendente. Avviene ogni giorno, in innumerevoli case. È parte essenziale della vita.
Non possiamo vivere veramente senza il pane che viene preso, benedetto, spezzato e dato. Senza di esso non c’è commensalità, non c’è comunità, non c’è alcun legame d’amicizia, non c’ è pace, ne amore e nemmeno speranza. Ma con esso, tutto può diventare nuovo.
Forse ci siamo dimenticati che l’eucaristia è un semplice gesto umano. I paramenti, le candele, gli accoliti,. i libri grandi, le braccia tese, il grande altare, i canti, la gente -niente sembra molto semplice, molto ordinario, molto ovvio. Spesso abbiamo bisogno di un libretto per seguire la cerimonia e per capirne il significato.
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Tuttavia, niente vuole essere diverso da ciò che accadde in quel piccolo villaggio tra i tre amici. C’è del pane sulla mensa; c’è del vino sulla mensa. Il pane viene preso, benedetto, spezzato e dato. Il vino viene preso, benedetto e dato. Questo è ciò che avviene attorno ad ogni mensa che voglia essere una mensa di pace.
Ogni volta che invitiamo Gesù nella nostra casa, cioè adire nella nostra vita con tutte le sue luci e ombre, e gli offriamo il posto d’onore alla nostra tavola, egli prende il pane e il calice e li dà a noi dicendo:
«Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Prendete e bevete questo è il mio sangue. Fate questo in memoria di me». Siamo sorpresi? Veramente no.
Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?
Non sapevamo già che egli non era uno sconosciuto per noi?
Non eravamo già consapevoli che colui che era stato crocifisso dai nostri capi era vivo e stava con noi?
Non lo avevamo visto prima prendere il pane, benedirlo, spezzarlo e darcelo? Fece così davanti a una grande folla che aveva ascoltato per ore la sua parola, lo fece nella sala al piano superiore prima che Giuda lo consegnasse alla sofferenza e lo ha fatto innumerevoli volte quando siamo giunti al termine di una giornata lunga ed egli si unisce a noi intorno alla mensa per un pasto semplice.
L’eucaristia è il gesto più comune e più divino immaginabile.
Questa è la verità di Gesù. Così umano, eppure così divino; così familiare, eppure così misterioso; così nascosto, eppure così rivelante!
Ma questa è la storia di Gesù che, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la con- dizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8).
È la storia di Dio che vuole venire vicino a noi, così vicino che possiamo vederlo con i nostri oc- chi, udirlo con i nostri orecchi, toccarlo con le nostre mani; così vicino che non c’è niente tra noi e lui, niente che separi, niente che divida, niente che crei distanza.
Gesù è Dio-per-noi, Dio-con-noi, Dio-in-noi. Gesù è Dio che si dona completamente, che elargisce se stesso a noi senza riserve. Gesù non trattiene e non si aggrappa ai suoi beni.
Egli dona tutto ciò che c’è da dare. «Mangiate, bevete, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue… Eccomi per voi!».
Tutti conosciamo questo desiderio di dare noi stessi a tavola.
Diciamo: «Mangia e bevi; l’ho fatto per te. Prendine di più; è lì per te, per goderne, per esserne fortificato, sì, per farti sentire quanto ti voglio bene».
Ciò che desideriamo non è semplicemente dare del cibo, ma dare noi stessi. «Sii mio ospite», diciamo. E mentre incoraggiamo i nostri amici a mangiare alla nostra mensa, vogliamo dire: «Sii mio amico, mio compagno, il mio amore -sii parte della mia vita -voglio darti me stesso».
Nell’eucaristia Gesù dona tutto.
Il pane non è semplicemente un segno del suo desiderio di diventare il nostro cibo; il calice non è solo un segno della sua volontà di essere la nostra bevanda. Il pane e il vino diventano il suo corpo e il suo sangue nel darsi. Veramente il pane è il suo corpo dato per noi, il vino il suo sangue versato per noi.
Come Dio si fa completamente presente per noi in Gesù, così Gesù si fa completamente presente a noi nel pane e nel vino dell’eucaristia. Dio non soltanto si è fatto carne per noi tanti anni fa in un paese lontano. Dio si fa anche cibo e bevanda per noi ora in questo momento della celebrazione eucaristica, proprio dove siamo insieme intorno alla tavola. Dio non si tira indietro; Dio dona tutto.
Questo è il mistero dell’incarnazione.
Questo è anche il mistero dell’eucaristia.
L’incarnazione e l’eucaristia sono le due espressioni dell’immenso amore di Dio che dona se stesso. E così il sacrificio sulla croce e il sacrificio sulla mensa sono un unico sacrificio, un dono di se divino e completo che raggiunge tutta l’umanità nel tempo e nello spazio.
La parola che meglio esprime questo mistero dell’amore totale di Dio che dona se stesso è ‘comunione’. È la parola che contiene la verità secondo la quale, in e attraverso Gesù, Dio vuole non soltanto insegnarci, istruirci o ispirarci, ma farsi uno con noi. Dio desidera essere pienamente unito a noi in modo che tutto di Dio e tutto di noi possa essere unito insieme in un amore eterno.
Tutta la lunga storia della relazione di Dio con noi esseri umani è una storia di comunione che si approfondisce sempre di più.
Non si tratta semplicemente di una storia di unioni, separazioni e unioni restaurate, ma di una storia in cui Dio è in continua ricerca di modi sempre nuovi per fare intimamente comunione con coloro che sono stati creati a immagine di Dio.
Agostino diceva: «Il mio cuore è inquieto finche non riposa in te, o Dio», ma quando esamino la storia tortuosa della nostra salvezza, vedo che non soltanto noi desideriamo ardentemente appartenere a Dio, ma che anche Dio anela appartenere a noi. Sembra come se Dio ci stesse dicendo a gran voce: «Il mio cuore è inquieto fin che non potrà riposare in voi, mie amate creature».
Da Adamo ed Eva ad Abramo e Sara, da Abramo e Sara a Davide e Betsabea e da Davide e Betsabea a Gesù e sempre da allora, Dio grida forte per essere ricevuto dai suoi.
«Vi ho creato, vi ho dato tutto il mio amore, vi ho guidato, offerto il mio sostegno, promesso l’avveramento dei desideri del vostro cuore: dove siete, dov’ è la vostra risposta, dov’è il vostro amore? Cos’altro vi devo fare affinché mi amiate? Non cederò, continuerò a tentare. Un giorno scoprirete quanto io desideri il vostro amore!».
Dio desidera comunione: una unità che sia vitale e viva, un’intimità che venga da entrambe le parti, un vincolo che sia veramente mutuo. Niente di forzato o ‘voluto’, ma una comunione liberamente offerta e liberamente ricevuta. Dio prova tutte le vie per rendere possibile questa comunione.
Dio si fa un bambino che dipende dalle cure umane, un ragazzo bisognoso di una guida, un maestro in cerca di allievi, un profeta che chiede a gran voce dei seguaci e, infine, un uomo morto trafitto dalla lancia di un soldato e de- posto in una tomba.
Proprio alla fine della storia, egli sta lì a guardarci e ci chiede con gli occhi pieni di te- nere attese: «Mi ami?» e, di nuovo, «Mi ami?» e, una terza volta, «Mi ami?».
È questo intenso desiderio di Dio di entrare nella relazione più intima con noi che costituisce il nucleo della celebrazione eucaristica e della vita eucaristica. Dio non soltanto vuole entrare nella storia umana divenendo una persona che vive in un’ epoca specifica e in un paese specifico, ma egli vuole diventare il nostro cibo e la nostra bevanda quotidiani in ogni tempo e in ogni luogo.
Quindi Gesù prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà a noi. E allora, quando vediamo il pane nelle nostre mani e lo portiamo alla bocca per mangiarlo, sì, allora i nostri occhi si aprono e lo riconosciamo.
L’eucaristia è riconoscimento.
È la piena comprensione che colui che prende, benedice, spezza e dona è Colui che, dall’inizio del tempo, ha desiderato entrare in comunione con noi.
La comunione è ciò che Dio vuole e ciò che noi vogliamo.
È il grido più profondo del cuore di Dio e del nostro, poiché siamo fatti con un cuore che può essere soddisfatto soltanto da colui che lo ha fatto.
Dio ha creato nel nostro cuore una sete di comunione che nessuno ad eccezione di Dio può, e vuole, appagare. Dio sa questo. Invece noi raramente. Continuiamo a cercare da qualche altra parte quell’esperienza di appartenenza. Guardiamo lo splendore della natura, le agitazioni della storia e l’attrattiva delle persone, ma quella semplice frazione del pane, così comune e non spettacolare, sembra un luogo così improbabile per trovare la comunione cui aneliamo.
Eppure, se abbiamo pianto le nostre perdite, se lo abbiamo ascoltato lungo il cammino e se lo abbiamo invitato a entrare nel nostro essere più recondito, sapremo che la comunione che abbiamo aspettato di ricevere è la stessa comunione che egli ha aspettato di dare.
C’è una frase nel racconto di Emmaus che ci conduce proprio dentro il mistero della comunione. È la frase: «… lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista». Nello stesso momento in cui i due amici lo riconoscono nello spezzare il pane, egli non è più con loro.
Quando il pane viene dato loro per mangiarne, essi non lo vedono più sedere con loro alla mensa. Quando mangiano, egli si è fatto invisibile. Quando entrano nella comunione più intima con Gesù, lo sconosciuto -divenuto amico -non è più con loro. Proprio quando egli si fa più presente a loro, diventa anche colui che è assente.
Qui tocchiamo uno degli aspetti più sacri dell’eucaristia: il mistero per cui la comunione più profonda con Gesù è una comunione che avviene in sua assenza. I due discepoli in cammino sulla strada per Emmaus lo avevano ascoltato per molte ore, erano andati di villaggio in villaggio, lo avevano aiutato nella sua predicazione, avevano riposato e mangiato insieme a lui.
Nel corso dell’anno, egli era diventato il loro maestro, la loro guida, il loro capo. Tutte le loro speranze per un futuro nuovo e migliore erano in- centrate su di lui. Tuttavia… non erano mai arrivati a conoscerlo pienamente, a comprenderlo pienamente. Spesso aveva detto loro: «… voi ora non lo capite, ma lo capirete più tardi». Essi non capivano veramente cosa stesse cercando di dire. Pensavano di essere più vicini a lui che a qualunque altra persona che avessero mai conosciuto.
Tuttavia egli continuava adire: «Ve l’ho detto adesso… cosicché quando non sarò più con voi ricorderete e comprenderete». Un giorno aveva persino detto che era bene che egli se ne andasse in modo che lo Spirito potesse venire e condurli alla piena intimità con lui. Il suo Spirito avrebbe aperto i loro occhi e avrebbe fatto loro comprendere pienamente chi egli fosse e perché fosse venuto a stare con loro.
Per tutto il tempo trascorso con i discepoli non c’era stata piena comunione.
Sì: loro erano stati con lui ed erano stati seduti ai suoi piedi; sì: erano stati suoi discepoli, persino suoi amici. Ma non erano ancora entrati nella piena comunione con lui. Il suo corpo e il suo sangue e il loro corpo e il loro sangue non erano ancora diventati uno.
In molti sensi, egli era stato ancora l’ altro, quello lontano, colui che va avanti a loro e mostra loro la via. Ma quando essi mangiano il pane che egli dà loro e lo riconoscono, quel riconoscimento è una profonda consapevolezza spirituale che, ora, egli dimora nel loro essere più intimo, che, ora, egli respira in loro, parla in loro, vive in loro.
Quando mangiano il pane che egli dà loro, la loro vita viene trasformata nella sua vita. Non sono più loro a vivere, ma Gesù, il Cristo, che vive in loro. E proprio in quel momento più sacro di comunione, egli è svanito dalla loro vista.
Questo è ciò che viviamo nella celebrazione eucaristica. Questo è ciò che viviamo anche quando viviamo una vita eucaristica. È una comunione così intima, così santa, così sacra e così spirituale che i nostri organi di senso non riescono più a percepirla. Non riusciamo più a vederlo con i nostri occhi mortali, a sentirlo con i nostri orecchi mortali o a toccarlo con i nostri corpi mortali. È venuto a noi in quel luogo dentro di noi dove il potere delle tenebre e del male non possono giungere, dove la morte non ha accesso.
Quando ci raggiunge e mette il pane nelle nostre mani e porta il calice alle nostre labbra, Gesù ci chiede di lasciare andare l’amicizia più facile che abbia- mo avuto con lui finora e di lasciare andare i sentimenti, le emozioni e anche i pensieri che appartengono a quell’amicizia.
Quando mangiamo del suo corpo e beviamo del suo sangue, accettiamo la solitudine che viene dal non averlo più alla nostra tavola come un compagno che ci consola nella conversazione, che ci aiuta ad affrontare le perdite della nostra vita quotidiana. È la solitudine della vita spirituale, la solitudine del sapere che egli ci è più vicino di quanto noi possiamo mai esserlo a noi stessi. È la solitudine della fede.
Continueremo a invocare: «Signore, pietà»; continueremo ad ascoltare le Scritture e il loro significato; continueremo a dire: «Sì, credo». Ma la comunione con lui va molto al di là di tutto questo. Ci porta al luogo in cui la luce acceca i nostri occhi e dove tutto il nostro essere è avvolto nella cecità. È in quel luogo di comunione che gridiamo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È, inoltre, in quel luogo che il nostro vuoto ci fa pregare: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».
La comunione con Gesù significa diventare come lui.
Con lui siamo inchiodati sulla croce, con lui siamo deposti nella tomba, con lui siamo risuscitati per i accompagnare nel loro viaggio i viaggiatori che si so- I no perduti. La comunione, il divenire Cristo, ci conduce a un nuovo regno dell’essere. Ci introduce nel Regno.
Là le vecchie distinzioni tra felicità e tristezza, successo e fallimento, preghiera e maledizione, salute e malattia, vita e morte, non esistono più. Là non apparteniamo più al mondo che continua a dividere, giudicare, separare e valutare. Là apparteniamo a cri- sto e Cristo a noi, e con Cristo apparteniamo a Dio.
All’improvviso i due discepoli, che hanno mangiato il pane e lo hanno riconosciuto, sono di nuovo soli. Ma non con l’isolamento con cui avevano cominciato il viaggio. Sono soli, insieme, e sanno che è stato creato un nuovo legame tra loro. Non guardano più in basso con il volto triste. Si guardano in faccia e di- cono: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?».
La comunione crea comunità. Cristo, vivendo in loro, li ha uniti in un modo nuovo. Lo Spirito del Cristo risorto, che è entrato in loro nel mangiare il pane e nel bere dal calice, ha fatto loro riconoscere non soltanto Cristo stesso, ma anche ognuno di loro come membro di una nuova comunità di fede.
La comunione ci fa guardare l’un l’altro e parlare l’uno all’altro non delle notizie più recenti, ma di colui che camminava con noi. Ci scopriamo tutti come perso- ne che si appartengono, perché ognuno di noi appartiene a lui.
Siamo soli, perché egli è scomparso dalla nostra vista, ma siamo insieme perché ognuno di noi è in comunione con lui diventando così un unico corpo attraverso di lui.
Abbiamo mangiato il suo corpo, bevuto il suo sangue. Così facendo, tutti noi che abbiamo preso dello stesso pane e dello stesso calice siamo diventati un solo corpo.
La comunione crea comunità, perché il Dio che vive in noi ci fa riconoscere il Dio nei nostri simili. Noi non possiamo vedere Dio nell’altra persona.
Soltanto Dio in noi può vedere Dio nell’ altra persona. Questo è ciò che intendiamo quando diciamo: «Lo Spirito parla allo Spirito, il Cuore parla al Cuore, Dio parla a Dio». La nostra partecipazione alla vita intima di Dio ci porta a un modo nuovo di partecipazione alla vita l’uno dell’altro.
Tutto ciò può suonare molto ‘irreale’, ma quando lo viviamo, diventa più reale della ‘realtà’ del mondo. Come dice Paolo:
«Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? poiché c’ è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10,16- 17).
Questo corpo nuovo è un corpo spirituale, foggiato dallo Spirito d’ amore. Si manifesta in modi molto concreti: nel perdono, nella riconciliazione, nel mutuo sostegno, nell’aiuto alle persone nel bisogno, nella solidarietà con tutti quelli che soffrono e in una preoccupazione sempre maggiore per la giustizia e la pace. In questo modo la comunione non crea soltanto comunità, ma la comunità conduce sempre alla missione.
Andare in missione
«Andate e annunziate»
Tutto è cambiato. Le perdite non sono più sentite come debilitanti; la casa non è più un luogo vuoto. I due viaggiatori che hanno iniziato il loro viaggio a te- sta bassa ora si guardano con occhi pieni di luce nuova.
Lo sconosciuto, che era diventato amico, ha dato loro il suo spirito, lo spirito divino di gioia, pace, coraggio, speranza e amore. Non c’è dubbio nella loro mente: egli è vivo! Non vivo come prima, non come l’affascinante predicatore e guaritore di Nazareth, ma vivo come un respiro nuovo dentro di loro. Cleopa e il suo amico sono diventati persone nuove. Sono stati dati loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo.
Essi sono diventati anche nuovi amici l’uno per l’altro -non più persone che possono offrirsi consolazione e sostegno mentre piangono le proprie perdite, ma persone con una nuova missione, persone che, insieme, hanno qualcosa da dire, qualcosa d’importante, qualcosa d’urgente, qualcosa che non può rimanere nascosto, qualcosa che deve essere proclamato.
Felicemente ognuno di loro ha l’altro. Nessuno crederebbe a uno soltanto di loro. Ma quando parleranno insieme otterranno un bell’ascolto.
Gli altri hanno bisogno di sapere poiché anch’essi avevano posto tutte le loro speranze in lui. Ci sono gli undici che hanno mangiato con lui la sera prima della sua morte; ci sono i discepoli, le donne e gli uomini che erano stati con lui per anni.
Hanno bisogno di sapere che cos’è loro successo.
Hanno bisogno di sapere che non è tutto finito.
Hanno bisogno di sapere che è vivo e che questi lo hanno riconosciuto quando egli ha dato loro il pane.
Non c’è tempo da perdere. «Sbrighiamoci», si dicono l’un l’altro. In fretta si infilano i sandali, prendono il mantello e il bastone per il viaggio e sono subito sulla via del ritorno verso i loro amici, ritornano da coloro che ancora potrebbero non sapere che le donne, le quali avevano sentito dagli angeli che egli è ancora vivo, hanno ragione.
Il racconto riassume tutto in pochissime parole: «Partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme».
Che differenza tra il loro ‘ andare a casa ‘ e il loro ritorno.
È la differenza che c’è tra il dubbio e la fede, la disperazione e la speranza, la paura e l’amore.
È la differenza tra due esseri umani scoraggiati che si trascinano lungo la via e due amici che camminano in fretta, a volte persino correndo, tutti eccitati per la notizia che hanno per i loro amici.
Ritornare alla città non è senza pericolo. Dopo l’esecuzione di Gesù, i suoi discepoli hanno paura. Si chiedono quale sarà il loro destino. Ma avendo riconosciuto il loro Signore, la paura se ne è andata e sono liberi di diventare testimoni della resurrezione – ad ogni costo.
Si rendono conto che le stesse persone che hanno odiato Gesù possono odiare loro, che le stesse persone che hanno ucciso Gesù possono uccidere loro. Ritornare, in effetti, può costar loro la vita. Può essere richiesto loro di testimoniare, non solo a parole, ma con il loro stesso sangue.
Ma non temono più il martirio. Il Signore risorto, presente nel loro essere più intimo, li ha resi pieni di un amore più forte della morte. Niente può trattenerli dal ritornare a casa anche quando casa non significa più un luogo ‘sicuro’.
L’eucaristia si conclude con una missione. «Andate ora e annunciate!». Le parole in latino, «Ite missa est», con cui il sacerdote concludeva la messa, letteralmente significano: «Andate, questa è la vostra missione».
La comunione non è la conclusione.
La missione lo è.
La comunione, quella intimità sacra con Dio, non è il momento finale della vita eucaristica. Lo abbiamo riconosciuto, ma quel riconoscimento non è per noi solo da gustare oda tenere come un segreto.
Come Maria di Magdala, così anche i due amici avevano sentito nel profondo di se stessi le parole «Andate e annunziate».
Questa è la conclusione della celebrazione eucaristica; questa è anche la chiamata finale della vita eucaristica.
«Andate e annunziate. Quello che avete visto e sentito non è solo per voi. È per i fratelli e le sorelle e per tutti quelli che sono pronti a riceverlo.
Andate, non indugiate, non aspettate, non esitate, ma mettetevi ora in cammino e ritornate ai luoghi dai quali siete venuti e fate sapere a quelli che avete lasciato nei loro nascondigli che non c’ è niente di cui aver paura, che egli è risorto, veramente risorto».
È importante rendersi conto che la missione, prima di tutto, è una missione a coloro che non sono estranei per noi. Questi ci conoscono e, come noi, hanno sentito di Gesù, ma si sono scoraggiati.
La missione è sempre prima di tutto ai nostri, alla nostra famiglia, ai nostri amici, a coloro che fanno parte intimamente della nostra vita. Riconoscere questo non ci conforta.
Trovo sempre che sia più difficile parlare di Gesù a quelli che mi conoscono intimamente che a quelli che non hanno mai avuto a che fare con i miei “peculiari modi di essere” .Eppure qui è presente una grande sfida. In qualche modo l’ autenticità della nostra esperienza viene messa alla prova dal nostri genitori, dai nostri consorti, dai nostri figli, dai nostri i fratelli e sorelle, da tutti quelli che ci conoscono fin troppo bene.
Molte volte sentiremo: «Beh, eccolo di nuovo. Beh, eccola di nuovo. Sappiamo di che si tratta. Abbiamo già visto tutto questo eccitamento. Passerà… come sempre».
Spesso c’è molta verità in questo. Perché si dovrebbero fidare di noi, quando corriamo a casa tutti entusiasti? Perché ci dovrebbero prendere sul serio? Non siamo poi così attendibili; non siamo poi così diversi dal resto della nostra famiglia e dei nostri amici. Inoltre, il mondo è pieno di storie, di rumori, pieno di predicatori ed evangelisti.
Ci sono buone ragioni per un certo scetticismo. Coloro che non sono venuti con noi all’eucaristia non sono ne migliori ne peggiori di noi.
Hanno sentito il racconto di Gesù. Alcuni sono stati battezzati; alcuni sono persino andati per un po’ o per lungo tempo in chiesa. Ma poi, gradualmente, la storia di Gesù è diventata solo una storia.
La chiesa è diventata un obbligo, l’eucaristia un rituale. In qualche modo è diventato tutto un ricordo dolce o amaro. In qualche modo qualcosa è morto in loro. E perché chiunque ci conosca bene dovrebbe credere in noi immediatamente quando torniamo dall’eucaristia?
Questa è la ragione per cui non è solo l’eucaristia, ma la vita eucaristica a fare la differenza.
Ogni giorno, ogni momento del giorno, c’ è il dolore per le nostre perdite e l’opportunità di ascoltare una parola che ci chiede di scegliere di vivere queste perdite come una via alla gloria.
Ogni giorno, inoltre, c’ è la possibilità di invitare lo sconosciuto in casa nostra e di fargli spezzare il pane per noi; la celebrazione eucaristica ci ha riassunto in che cosa consiste la nostra vita di fede e dobbiamo andare a casa per viverla il più a lungo e il più pienamente possibile. E questo è molto difficile, perché tutti a casa ci conoscono molto bene: la nostra impazienza, le nostre gelosie, i nostri risentimenti e i nostri tanti piccoli sotterfugi.
E poi ci sono le nostre relazioni interrotte, le nostre promesse non mantenute e i nostri impegni non rispettati. Possiamo davvero dire che lo abbiamo incontrato per strada, che abbiamo ricevuto il suo corpo e il suo sangue e che siamo diventati Cristi viventi? Tutti a casa sono pronti a metterci alla prova.
Ma c’è di più. C’è una grande sorpresa che aspetta i due compagni eccitati che entrano di corsa nella stanza in cui erano riuniti i loro amici… ansiosi di dare la notizia. Questi amici già la sapevano! La buona notizia che dovevano portare non era nuova, dopo tutto.
Prima ancora che avessero la possibilità di raccontare la loro storia, gli undici e gli altri che erano con loro dissero: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso al Simone». È piuttosto comico.
Questi entrano di corsa, senza più fiato, tutti entusiasti. soltanto per scoprire che quelli che stavano in città avevano già sentito la notizia, anche se non lo avevano incontrato sulla strada e non si erano seduti a tavola con lui.
Gesu era apparso a Simone e Simone era molto più attendibile di questi due discepoli che non erano rimasti con loro, ma che se ne erano invece andati a casa pensando che fosse tutto finito. Sicuro: erano felici e ansiosi di sentire la loro storia, ma loro due portavano solo un’altra conferma che, davvero, egli era vivo.
Ci sono molti modi in cui Gesù appare e molti modi in cui ci fa sapere che è vivo. Ciò che celebriamo nell’eucaristia avviene in molti modi diversi da quanto possiamo immaginare. Gesù, che ci ha già dato il pane, ha toccato il cuore di altri molto prima di in- contrarci sulla strada. Ha chiamato qualcuna per nome e lei lo ha riconosciuto; ha mostrato le sue ferite ad alcuni e questi lo hanno riconosciuto. Noi abbiamo le nostre storie da raccontare ed è importante che le raccontiamo, ma non sono le uniche storie. Abbiamo una missione da adempiere ed è bene che ne siamo entusiasti, ma prima dobbiamo ascoltare quello che gli altri hanno da dire. Poi possono essere raccontate le .nostre storie e portare gioia.
Tutto questo dimostra comunità.
I due amici, che erano in grado di parlarsi dei propri cuori ardenti, sta- vano cominciando a entrare in una nuova relazione reciproca, una relazione costruita sulla comunione di cui entrambi avevano fatto esperienza, La loro comunione con Gesù era, invero, l’inizio della comunità. Ma soltanto l’inizio.
Avevano bisogno di incontrare gli altri, che anche credevano che egli era risorto, lo avevano visto o avevano sentito che era vivo. Avevano bisogno di ascoltare i loro racconti, ognuno diverso dagli altri, e di scoprire i molti modi in cui Gesù e il suo Spirito agivano in mezzo al suo popolo.
È così facile ridurre Gesù al nostro Gesù, alla nostra esperienza del suo amore, al nostro modo di riconoscerlo.
Ma Gesù ci ha lasciati per mandare il suo Spirito e il suo Spirito soffia dove vuole. La comunità di fede è il luogo dove vengono narrati molti racconti sullo stile di Gesù. Questi racconti possono essere molto diversi l’uno dall’altro.
Possono persino sembrare in conflitto.
Ma se continuiamo ad ascoltare attentamente lo Spirito che si manifesta attraverso molte persone, sia nelle parole che nel silenzio, sia attraverso il confronto che l’invito, sia nella dolcezza che nella fermezza, sia con le lacrime che con i sorrisi, allora potremo gradualmente discernere che ci apparteniamo, come un unico corpo saldato dallo Spirito di Gesù.
Nell’eucaristia ci viene richiesto di lasciare la tavola e di andare dai nostri amici per scoprire insieme a loro che Gesù è veramente vivo e che ci chiama tutti insieme a diventare un popolo nuovo -un popolo della resurrezione.
Qui termina il racconto di Cleopa e del suo amico.
Termina con i due amici che raccontano la loro storia agli undici e agli altri che stavano con loro. Ma la missione non termina qui; è appena iniziata. Il racconto della storia di ciò che è successo lungo la via e intorno alla tavola è l’inizio di una vita di missione, vissuta tutti i giorni della nostra vita finche non lo vedremo di nuovo faccia a faccia.
Formare una comunità con la famiglia e gli amici, costruire un corpo d’ amore, formare un popolo nuovo della resurrezione: tutto questo non è tanto per poter vivere una vita al riparo dalle forze oscure che dominano il nostro mondo; è piuttosto per renderci capaci di proclamare insieme a tutte le persone, giovani e vecchi, bianchi e neri, poveri e ricchi, che la morte non ha 1’ultima parola, che la speranza è reale e che Dio è vivo.
L’eucaristia è sempre missione.
L’eucaristia, che ci ha liberato dal nostro paralizzante senso di perdita e che ci ha rivelato che lo Spirito di Gesù vive dentro di noi, ci dà la forza di uscire nel mondo e di portare la buona notizia ai poveri, la vista ai ciechi, la libertà ai prigionieri e di proclamare che Dio ha mostrato di nuovo il suo favore a tutte le persone.
Ma non siamo mandati fuori da soli; siamo inviati con i nostri fratelli e le nostre sorelle, sapendo anch’essi che Gesù vive dentro di loro.
Il movimento che deriva dall’eucaristia è il movimento dalla comunione alla comunità al ministero. La nostra esperienza di comunione prima ci manda dai nostri fratelli e sorelle per condividere con loro le nostre storie e per formare con loro un corpo d’amore.
Poi, come comunità, possiamo muoverci in tutte le direzioni e raggiungere tutte le persone.
Sono profondamente consapevole della mia tendenza di voler andare dalla comunione al ministero senza fare comunità.
Il mio individualismo e il desiderio di successo personale mi tentano sempre a fare da solo e a rivendicare per me stesso il compito del ministero. Ma Gesù stesso non predicò e non guarì da solo. Luca, l’evangelista, ci racconta di come egli passasse la notte in comunione con Dio, il mattino a fare comunità con i dodici apostoli e il pomeriggio a uscire con loro per svolgere il suo ministero tra le folle. Gesù ci chiama a seguire la stessa sequenza: dalla comunione alla comunità al ministero.
Non vuole che usciamo da soli. Ci invia insieme, a due a due, mai da soli.
E così possiamo testimoniare come persone che appartengono ad un corpo di fede. Siamo inviati ad insegnare, a guarire, ad ispirare e ad offrire speranza al mondo non come esercizio della nostra capacità individuale, ma come l’espressione della nostra fede per la quale tutto quello che abbiamo da dare viene da lui che ci ha messi insieme.
La vita vissuta eucaristicamente è sempre una vita di missione.
Viviamo in un mondo che geme sotto il peso delle sue perdite: le guerre spietate che distruggono popoli e paesi, la fame e il morire di fame che decimano intere popolazioni, il crimine e la violenza che mettono a repentaglio la vita di milioni di uomini, donne e bambini. Il cancro e l’ AIDS, il colera, la malaria e molte altre malattie che devastano il corpo di innumerevoli persone; terremoti, alluvioni e disastri del traffico è la storia della vita di ogni giorno che riempie i giornali e gli schermi televisivi.
È un mondo di perdite infinite e molti, se non la maggior parte, dei nostri simili camminano con la faccia rivolta a terra sulla superficie di questo pianeta. Dico- no in un modo o in un altro: «Noi speravamo che fosse… ma abbiamo perso la speranza».
Questo è il mondo in cui siamo mandati a vivere eucaristicamente, cioè, a vivere con il cuore ardente e con gli orecchi e gli occhi aperti.
Sembra un compito impossibile.
Che cosa può fare questo piccolo gruppo di persone che lo hanno incontrato per la via, nel giardino o sulla riva del lago, in un mondo così buio e violento? Il mistero dell’amore di Dio è che i nostri cuori ardenti e i nostri orecchi e occhi recettivi saranno in grado di scoprire che Colui che abbia- mo incontrato nell’intimità delle nostre case continua a rivelarsi a noi tra i poveri, i malati, gli affamati, i prigionieri, i rifugiati e tra tutti coloro che vivono nel pericolo e nella paura.
A questo punto ci rendiamo conto che missione non è solo andare ad annunziare agli altri che il Signore è risorto, ma anche ricevere quella testimonianza da coloro ai quali siamo inviati.
Spesso la missione è pensata esclusivamente in termini di donazione, ma la vera missione è anche ricevere. Se è vero che lo Spirito di Gesù soffia dove vuole, non c’ è persona che non possa dare quello Spirito.
A lungo andare, la missione è possibile soltanto quando è tanto ricevere che . dare, tanto essere presi a cuore che prendere a cuore.
Siamo mandati agli ammalati, ai morenti, agli handicappati, ai carcerati e ai rifugiati per portare loro la buona notizia della resurrezione del Signore.
Ma ci spegneremmo subito, se non potessimo ricevere lo Spirito del Signore da coloro cui siamo mandati.
Quello Spirito, lo Spirito d’amore, è nascosto nella loro povertà, nel loro essere a pezzi e nella prostrazione, nel loro dolore. Ecco perché Gesù ha detto: «Beati i poveri, i perseguitati e gli afflitti». Ogni volta che li raggiungiamo, essi a loro volta -ne siano consapevoli o meno -ci benedicono con lo Spirito di Gesù, diventando così nostri ministri.
Senza questa reciprocità del dare e del ricevere, missione e ministero diventano facilmente manipolabili o violenti.
Quando soltanto uno dà e l’altro riceve, colui che dà diventa presto un oppressore e coloro che ricevono vittime.
Ma quando colui che dà riceve e colui che riceve dà, il circolo d’amore, iniziato nella comunità dei discepoli, può allargarsi persino a tutto il mondo.
Fa parte dell’ essenza della vita eucaristica far crescere questo cerchio d’amore.
Essendo entrati in comunione con Gesù e avendo creato comunità con coloro che sanno che egli è vivo, ora possiamo andarci ad unire ai tanti viaggiatori solitari per aiutarli a scoprire che anch’essi partecipano al dono dell’amore.
Non temiamo più la loro tristezza e il loro dolore e possiamo chieder loro semplicemente: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?».
E sentiremo racconti di solitudine, paura, rifiuto, abbandono e tristezza immensi. Dobbiamo ascoltare, spesso a lungo, ma ci sono anche le opportunità di dire a parole o con semplici gesti: «Non sapevi che ciò per cui ti stai affliggendo può essere vissuto anche come una via per qualcosa di nuovo? Probabilmente è impossibile cambiare quello che ti è successo, ma sei ancora libero di scegliere come viverlo».
Non tutti ci ascolteranno e soltanto in pochi ci inviteranno nella loro vita per unirci alla loro tavola. Solo raramente sarà possibile offrire il pane che do- na la vita e guarire veramente un cuore che è stato spezzato. Gesù stesso non guarì tutti, ne cambiò la vita di tutti.
La maggior parte della gente semplice- mente non crede che siano possibili i cambiamenti radicali e non riesce a dare la sua fiducia quando incontra gli sconosciuti.
Ma ogni volta che c’è un incontro reale che conduce dalla disperazione alla speranza e dall’amarezza alla gratitudine, vedremo dissolversi parte delle tenebre e la vita, di nuovo, oltrepassare i confini della morte.
Questa è stata, e continua a essere, l’esperienza di coloro che vivono una vita eucaristica. Essi vedono come loro missione sfidare persistentemente i loro compagni di viaggio a scegliere la gratitudine invece del risentimento e la speranza invece della disperazione.
Le poche volte in cui questa sfida viene accettata sono sufficienti per rendere la loro vita degna di essere vissuta. Veder comparire un sorriso in mezzo alle lacrime significa essere testimoni di un miracolo -il miracolo della gioia.
Statisticamente niente di tutto ciò è molto interessante.
Coloro che chiedono: «Quante persone avete raggiunto? Quanti cambiamenti avete apportato? Quanti mali avete curato? Quanta gioia avete creato?», riceveranno sempre delle risposte deludenti. Gesù e i suoi seguaci non ebbero grande successo.
Il mondo è ancora un mondo buio, pieno di violenza, corruzione, oppressione e sfruttamento. Probabilmente lo sarà sempre! La domanda non è «Quanto presto e quanti?», ma «Dove e quando?». Dov’è celebrata l’eucaristia, dove sono le persone che si mettono insieme intorno alla mensa spezzando il pane insieme e quando ciò avviene?
Il mondo si trova sotto il potere del male. Il mondo non riconosce la luce che risplende nell’oscurità. Non lo ha mai fatto; mai lo farà. Ma ci sono persone che, in mezzo a questo mondo, vivono !con la consapevolezza che egli è vivo e dimora dentro di noi, che egli ha superato il potere della morte e ha aperto la via della gloria.
Ci sono persone che si riuniscono insieme, che si mettono intorno alla tavola e che fanno quello che lui ha fatto, in memoria di lui?
Ci sono persone che continuano a raccontarsi le storie di speranza e che insieme vanno fuori a prendersi cura dei loro simili, senza pretendere di risolvere tutti i problemi, ma di portare un sorriso a un morente e una piccola speranza a un bambino abbandonato?
È così piccola, così non spettacolare, così nascosta questa vita eucaristica, ma è come lievito, come un granello di senape, come un sorriso sul volto di un bambino. È ciò che tiene vivi la fede, la speranza e l’amore in un mondo che è continuamente sull’orlo dell’autodistruzione.
L’eucaristia, a volte, è celebrata con grande cerimonia, in splendide cattedrali e basiliche. Ma più spesso è un ‘piccolo’ evento di cui sanno poche persone.
Avviene in un soggiorno, nella cella di una prigione, in una soffitta -lontano dalla vista dei grandi movimenti del mondo. Avviene in segreto; senza paramenti, candele o incenso.
Avviene con gesti così semplici che dall’esterno non si sa nemmeno che ha luogo. Ma grande o piccolo, festivo o nascosto, è lo stesso evento, il quale rivela che la vita è più forte della morte e l’amore più forte della paura.
Conclusione
La parola ‘eucaristia’ significa letteralmente ‘rendimento di grazie. Una vita eucaristica è una vita vissuta nella gratitudine.
La storia, che è anche la nostra storia, dei due amici in cammino per Emmaus ha mostrato che la gratitudine non è un atteggiamento ovvio verso la vita.
La gratitudine va scoperta e va vissuta con grande attenzione interiore.
Le nostre perdite, le nostre esperienze di rifiuto e di abbandono e i nostri tanti momenti di disillusione continuano ad attirarci nella rabbia, nell’amarezza e nel risentimento.
Quando lasciamo semplicemente parlare i ‘fatti’ ci saranno sempre fatti sufficienti a convincerci che la vita, dopo tutto, non conduce a niente e che ogni tentativo di sconfiggere questo destino è soltanto un segno di profonda ingenuità.
Gesù ci ha dato l’ eucaristia per renderci capaci di scegliere la gratitudine.
È una scelta che noi stessi dobbiamo fare. Nessuno può farla per noi.
Ma l’eucaristia ci induce a invocare la misericordia di Dio, ad ascoltare le parole di Gesù, a invitarlo in casa nostra, a entrare in comunione con lui e a proclamare buone notizie al mondo; apre alla possibilità di lasciar andare gradualmente i nostri tanti risentimenti e di scegliere di essere grati.
La celebrazione eucaristica continua a invitarci a quest’atteggiamento.
Nella nostra vita quotidiana abbiamo innumerevoli opportunità di essere grati invece che pieni di risentimento.
All’inizio potremmo non riconoscere queste opportunità. Prima che ce ne rendiamo conto pienamente, abbiamo già detto: «Questo è troppo per me. Non posso fare ameno di arrabbiarmi e di mostrare la mia rabbia. La vita non è bella e non posso agire come se invece lo fosse».
Comunque, c’è sempre la voce che in continuazione dice che siamo accecati dal nostro stesso modo di comprendere e che ci attiriamo a vicenda in un vicolo cieco.
È la voce che ci chiama ‘stolti’, la voce che ci chiede di guardare la nostra vita in modo nuovo, non di guardarla dal basso, dove contiamo le nostre perdite, ma dall’alto, dove Dio ci offre la sua gloria.
L’eucaristia -il rendimento di grazie -, dopo tutto, viene dall’alto.
E il dono che non possiamo fabbricarci da soli.
Deve essere ricevuta. È offerta liberamente e chiede di essere ricevuta liberamente. È qui che sta la scelta!
Possiamo scegliere di lasciar continuare il viaggio allo sconosciuto, rimanendo così egli uno sconosciuto. Ma possiamo anche invitarlo nella nostra vita intima, lasciarlo toccare ogni parte del nostro essere e quindi trasformare i nostri risentimenti in gratitudine.
Non dobbiamo lasciarlo andare.
In effetti la maggior parte della gente fa così. Ma ogni volta che facciamo quella scelta, ogni cosa, anche le cose più insignificanti, diventano nuove.
La nostra vita di poco conto diventa grande -parte dell’opera misteriosa della salvezza di Dio. Quando ciò avviene, niente è più accidentale, casuale o futile. Persino l’evento più insignificante parla il linguaggio della fede, della speranza e, soprattutto, dell’amore. Questa è la vita eucaristica, la vita in cui ogni cosa diventa un modo per dire ‘grazie’ a lui che si è unito a noi lungo il cammino.