Aldo Trento: “In questo posto sacro è Cristo a essere curato. È Lui a farci compagnia”

Image by Gennaro Leonardi from Pixabay

La nuova clinica che porta il nome del Servo di Dio monsignor Luigi Giussani funziona già da diversi mesi. La sua facciata architettonica presenta una pianta di forma curva, foderata di pietra sillar, la pietra con la quale sono state costruite le Riduzioni Gesuitiche dell’America Latina. È divisa in tre ordini. Ognuno mostra i bassorilievi del presbiterio della Riduzione della Trinidad. Al centro di ognuna c’è un presepe circondato da angeli che suonano differenti strumenti musicali. La Vergine Immacolata e la Vergine dell’Assunzione sono bassorilievi fatti a mano da scultori discendenti delle scuole gesuitiche del secolo XVIII.
La forma semicircolare della facciata ricrea l’abbraccio che il Servo di Dio monsignor Luigi Giussani mi ha dato a Milano il 25 marzo 1989, prima di mandarmi in Paraguay.
I pavimenti dell’ingresso della clinica e della reception sono anch’essi realizzati cona pietra sillar. La Cappella, quasi nella sua totalità, è rivestita di legno decorato a mano con vari simboli dell’Eucaristia e della Vergine. Lo sfondo dipinto su legno è di color turchese, mentre i bassorilievi e le colonne salomoniche sono ricoperte di foglia d’oro.
La pala dell’altare splende nella sua bellezza. Il perché di questa bellezza è lo stesso che ha dato origine alle famose cattedrali del Medioevo: la gloria di Dio fatta visibile già in questo mondo. Il pavimento della Cappella è un intarsio fatto a mano da artigiani locali, mille pezzi romboidali di una dimensione e mille di un’altra. Questa bellezza risplende ancor di più per la presenza del Santissimo durante le 24 ore del giorno.

Questo luogo è stato meta di incontro per le più alte autorità della salute del Paraguay e di molti professori e studenti di medicina che non potevano credere che ad Asunción esistesse questo gioiello per malati terminali abbandonati da tutti. Una volta di più è evidente che un’opera, se è di Dio, è sempre missionaria, e suscita una santa invidia, come affermava Sant’Agostino: «Se hanno potuto questi e quelli, perché non io?».
È venuta da noi, invitata dall’ambasciata americana, la dottoressa Joanne Wolfe che ha voluto conoscere la nostra Clinica di cure palliative. Lascio alla nostra direttrice medica raccontarci la bellezza dell’incontro. Voglio sottolineare che la nostra direttrice, la dottoressa Carmen Frutos di Almada, oltre a essersi laureata a Harvard, è stata anche ministro della Sanità. Pensionata, lavora gratis ed è la responsabile dell’area medica della nostra Clinica.

Erano le ore 17 quando abbiamo ricevuto la visita della dottoressa Joanne Wolfe, direttrice dell’Unità di cure palliative dell’Ospedale pediatrico di Boston, uno dei più importanti degli Stati Uniti, riconosciuto a livello internazionale per la qualità delle cure e la ricerca in pediatria. È arrivata accompagnata da Gilda Arrua, presidente e fondatrice della Fondazione Juan Pablito e da due studenti di medicina. Ero molto emozionata, considerando la personalità che ci visitava. Laureata in medicina ad Harvard, il lavoro che la dottoressa Wolfe realizza in materia di cure palliative pediatriche è riconosciuto e stimato a livello mondiale.

«Don’t cry Miriam»
Ci ha colpito il suo calore umano e la sua semplicità che facevano spiccare ancor di più la sua grandezza come persona e professionista. Abbiamo visitato la nostra Clinica di cure palliative Divina Provvidenza. In questo posto sacro Cristo vive nel corpo sofferente dei nostri pazienti ricoverati e ci passa accanto durante ogni giornata. La dottoressa Joanne si tratteneva in ogni stanza, meravigliata nel vedere che abbracciavo ogni paziente e che chiacchieravo con loro con molta confidenza, sincerità e familiarità. Si è emozionata per l’abbraccio di Hilda, per il tenue sorriso della signora Josefina, e per l’ottimismo di José. E soprattutto per la nostra cara Miriam.

«Miriam, abbiamo visite», le ho detto; lei non ha risposto, le sue labbra sono chiuse in silenzio da più di tre anni. Ma quando ci ha visto si è emozionata e ha cominciato a piangere. «Non piangere Miriam», le ho detto e Joanne ha ripetuto: «Don’t cry Miriam». Abbiamo visitato tutti i pazienti: ognuno con la sua storia di dolore e di amore. Esteban, Daniel, Ramón, Pedro, Ángela, Guglielmo, Pedro, Osvaldo, José. Tutti, nonostante il loro dolore, regalavano un sorriso ai nostri visitatori.
A un certo punto ho detto alla dottoressa Wolfe che «in numerose culture la morte appare come un avvenimento sociale e culturale che si vive in comunità. Nel nostro mondo occidentale si muore fuori casa, spesso abbandonati dalla famiglia, circondati da una “professionalità” burocratica e sempre di più dalla disumanizzazione. Il malato terminale, il moribondo, è un intralcio per una società che ha come valore regnante l’efficienza e l’efficacia».
Qui alla Divina Provvidenza, invece, la fine della vita, la morte dei nostri pazienti, è il momento culminante della loro vita, la sua incoronazione, quello che le conferisce valore e senso. Noi stiamo lì al loro fianco, preghiamo, li aiutiamo a vivere con la massima dignità fino all’ultimo anelito di vita e soprattutto a morire in pace.
Quando abbiamo finito la nostra visita, la dottoressa Joanne ci ha salutati dicendo che partiva emozionata non solo per la bellezza dell’infrastruttura, per l’ordine e per l’organizzazione della nostra Clinica, ma perché stupita dal clima umano della casa, dalla qualità del trattamento, dall’amore e dalla tenerezza con cui ci rapportavamo ai nostri pazienti. «Non vedevo questo da molto tempo», ci ha detto; e così con un grande abbraccio si è congedata.

Un affetto inaspettato
Il giorno dopo, all’ambasciata degli Stati Uniti, la dottoressa Wolfe stava ricevendo un premio. Quando ha preso la parola, ha raccontato a tutti i presenti la sua visita alla Clinica di cure palliative Divina Provvidenza. Con emozione ed enfasi ha riconosciuto il nostro lavoro, la qualità di quello che facciamo, la cura interdisciplinare di ogni paziente e soprattutto che era rimasta molto colpita dal calore, dall’amore, dall’affetto: dal modo in cui abbracciamo ognuno dei nostri pazienti, quale che sia la sua malattia, il suo colore, la sua condizione, le sue piaghe o il suo fetore.

Ho abbassato gli occhi, mentre lei continuava a lodare il nostro lavoro. Ho chiuso le mie mani e dal profondo del mio essere ho detto: «Signore, sei Tu quello che risplendi di nuovo in questa notte. Sei Tu che stai passando da questo posto. Grazie che ci permetti di curarti. Grazie per avermi portato alla Clinica». Eppure è così poco quello che facciamo… asciughiamo le lacrime di Miriam, ascoltiamo Josefina, accompagniamo la speranza di Hilda, di Pedro, Luisito e José, curiamo le piaghe di Félix, di Daniel, di Elida, di Guglielmo, di Esteban e di tanti tuoi figli che stanno con noi; abbracciamo (fino a sentire che le braccia ci fanno male) le Tue figlie Ángela, Marcelina e la piccola Miriam che non vogliono mai lasciarci andare: “Non mi lasciare dottoressa, è da tanto, da migliaia di anni che nessuno mi abbraccia così”.

Grazie padre Aldo, grazie suor Sonia per il miracolo della nostra Clinica. Grazie dottoressa Joanne Wolfe per la sua visita, per le sue parole, per il suo stimolo. È un impegno in più per noi e un nuovo “grano” nel bel rosario di benedizioni con cui orniamo ogni giorno questo posto sacro, vertice della bellezza e della carità. Che Dio vi benedica e protegga.

Articolo tratto da www.tempi.it per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

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