
In principio fu la Gran Bretagna, come spesso accade per le scelte bioetiche più dirompenti. Era il 1985 e il Parlamento inglese ritenne necessario offrire alle coppie sposate con problemi di sterilità documentata una chance in più rispetto ai metodi disponibili, che nel Paese di Louise Brown – la prima bambina al mondo concepita in provetta, nata il 25 luglio 1978 vicino a Manchester – aveva un nome e un cognome: fecondazione artificiale. La possibilità di far nascere un bambino al di fuori della relazione tra madre e padre, e addirittura senza dover contare sul grembo materno per l’incontro tra i gameti, era dunque già in circolo nella società inglese.
Che infatti accettò le regole per una strada resa praticabile della provetta: la surrogazione di maternità altro non è infatti che il trasferimento di un embrione, figlio biologico di due aspiranti genitori che in modo naturale non riescono a diventare tali, nel ventre di una donna che firma un contratto con la coppia. La mentalità pragmatica anglosassone (“basta che funzioni”) si combina col primato anglosassone della formalizzazione giuridica (una prestazione offerta in cambio di diritti riconosciuti), con un’importante precisazione.
La legge inglese pone infatti come condizione per la validità del patto l’assenza di un interesse economico da parte di chi mette a disposizione per nove mesi (e un parto) il proprio ventre. Il principio è indiscutibile: un figlio di uomo non può avere il cartellino del prezzo. E allora, perché una donna dovrebbe accettare di condurre la gravidanza di un bambino non suo dal quale sa già che dovrà separarsi? Il principio sancito 33 anni fa è la solidarietà: risposta altruistica a un bisogno naturale, nessuna transazione commerciale, solo rimborso spese. Sul quale tuttavia il margine di manovra è amplissimo, come si può facilmente immaginare.
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Ma non basta: per la legge inglese dopo il parto la madre surrogata può cambiare idea e tenersi il figlio, postilla che ha causato il fallimento sostanziale della norma. Pensata per evitare che gli aspiranti genitori inglesi si cautelassero blindando l’accordo con la madre a noleggio a suon di sterline, essa non ha affatto scoraggiato i viaggi in Paesi nei quali l’utero in affitto è legale o tollerato: meglio pagare ed essere sicuri di avere il bambino che rischiare di vederselo “sottrarre” da chi l’ha fatto crescere in grembo e fatto nascere.
La lezione di questo primo tentativo di regolamentare un atto umano come nessun altro che, sottratto alla natura, mostra quanto poi sia cervellotica e insensata ogni soluzione legale o commerciale è che per far passare agli occhi di un’opinione pubblica alla quale certo non sfugge che un figlio non si paga mai è sufficiente usare l’attrezzatura giuridica e la terminologia giusta: e allora l’utero in affitto o maternità surrogata diventa “gestazione per altri”, il centro dell’accordo non è il bambino da passare di mano in sala parto ma la “solidarietà” con chi è sterile, nel nome dell’”altruismo”, i soldi spariscono sotto la voce “rimborso spese”. E il mercimonio con al centro una vita umana separata a forza da chi l’ha messa al mondo svanisce. In Italia c’è già chi lo propone. È solo questione di tempo, se non apriamo gli occhi.
Avvenire
Francesco Ognibene