
Anche un cattolico non può fare a meno di chiedersi, in tanti momenti della vita, dove stia la santità della chiesa. Tutti coloro che la abitano peccano sette volte al giorno, più o meno gravemente. Il mondo se ne accorge e mentre da una parte si nutre di scandali, di volgarità, coi suoi giornaletti, le sue riviste, e gli spettacoli televisivi trasudanti fango e bassezze, dall’altra stigmatizza e condanna, non appena può, il cattolico “incoerente”, il prete che sbaglia, il religioso avido di denaro, oppure sorride e solidarizza con il sacerdote che si sposa, o con quelli disobbedienti, vanagloriosi, arroganti, che certo non mancano…
Per il mondo sono tutte piccole rivincite, gradite vendette contro il richiamo del cuore al bene e alla giustizia: vedete, dicono i maliziosi, la virtù non è possibile, l’ideale non esiste, anche i preti hanno rapporti carnali, anche i religiosi tradiscono i loro voti, non ci credono neppure loro…
Anche un cattolico può essere tentato di scandalizzarsi. Anzi, gli scandalizzati sono tantissimi, proprio tra i cattolici alla moda, sempre pronti a indignarsi, a ribellarsi, a prendere le distanze e a fare dei distinguo, rispetto alla chiesa di cui sono figli e di cui invece si ritengono padri.
Eppure, rimane il fatto che chiunque abbia frequentato e viva la vita della chiesa, sperimenta la miseria e la povertà degli uomini che la compongono. Sono sì miseri, peccatori, segnati dal limite, ma anche innestati nella vite di Cristo: scorre, nel loro sangue, mescolata a vizi e impurità, una linfa divina, qualcosa di infinitamente grande e misterioso.
Solo così si può spiegare la sopravvivenza, dopo duemila anni, di una fede che chiede ai suoi seguaci di andare contro gli istinti, i desideri, le brame della carne e del mondo. Che esige da coloro che si sposano una vita casta prima e dopo il matrimonio, e che chiede a molti di morire a se stessi, rinunciando a una famiglia, a un lavoro, e invitandoli a una verginità piena, nei confronti di ogni lusinga meramente terrena.
Ogni vocazione è un miracolo, che da duemila anni si ripete, e sacerdoti e religiosi, “sterili” nella carne, da duemila anni partoriscono figli, spirituali, e continuano a riprodursi, sempre, nonostante ogni difficoltà e sotto ogni regime!
E’ già questo uno dei segni più evidenti della divinità di Cristo e della sua chiesa, insieme alla presenza dei martiri. san Giovanni Bosco, san Camillo de Lellis, e tanti altri santi, sono stati, in vita, uomini straordinari, che hanno affascinato chiunque li avvicinasse, e continuano a stupire anche chi non abbia nessuna fede. In loro vi è l’epifania solenne del cristianesimo, in modo evidente, quotidiano, sfolgorante. Ma accanto ad essi, nella storia, vi sono migliaia e migliaia di poveri uomini, che hanno scelto Cristo, e che non riescono, se non raramente, a dimostrare agli altri la bellezza e la grandezza della loro fede. Lottano ogni giorno con il proprio peccato, ma nessuno se ne accorge, perché soccombono più spesso di quanto non vincano, e perché nessuna luce potente rifulge dai loro sguardi e dalle loro azioni.
Le trentadue suore di Orange
Eppure talora Cristo chiede anche a costoro di essere testimoni, di mostrare al mondo cosa sa fare un cristiano, il più misero, nel momento in cui viene chiamato. Penso ai tanti martiri di cui è ricca la storia della chiesa, dalle sue origini, e nei tempi moderni, dalla rivoluzione francese in avanti. Penso, in particolare, alla vicenda dei martiri di Orange, narrata in un documentatissimo testo di A. Reyne e D. Brehier, “Le martiri di Orange” (Il Cerchio).
E’ la storia di 32 religiose dai 24 ai 75 anni “consacratesi a Dio nella vita religiosa e rimaste fedeli sino al patibolo”. Siamo in età illuminista, epoca in cui il mondo non può ammettere la vita religiosa, specie quella claustrale. Per Diderot e gli altri, si tratta di fanatismo, e di superstizione. La rivoluzione francese, stabilisce la sua idea di libertà: “Libertà è fare ciò che non nuoce ad altri”. Eppure, il 2 novembre 1789, su proposta di un vescovo, Talleyrand, i beni della chiesa vengono posti “a disposizione della nazione”, e subito dopo i voti solenni religiosi vengono aboliti e gli ordini monastici soppressi, in nome del diritto naturale e della Costituzione.
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A tutti si chiede di sposarsi, offrendo soldi e onore a chi abbandoni l’abito, e un giuramento di fedeltà, alla Nazione, il nuovo idolo sanguinario, e all’ideologia dominante. Per non giurare contro la propria coscienza, per non pronunciare neppure a filo di labbra parole impure, 32 religiose di Orange e centinaia di altri consacrati in tutto il paese, preferiscono morire, dopo aver perso ogni diritto, ed essere state indicate al pubblico ludibrio, come Cristo sulla croce. Come nel commovente romanzo di Gertrud von le Fort, “L’ultima al patibolo”, le suore vengono condannate a morte da un tribunale speciale, che, secondo le parole di uno dei componenti, “non ha nulla a che fare con i tribunali dell’ancien regime”, perché “non ci sono formalità da osservare, c’è la coscienza del giudice e basta”. Al patibolo si recano tutte, senza ripensamenti, cantando il Salve Regina, il Te Deum, o il Veni Creator… Il boia di Orange, Paquet, si diverte a scoprire loro il seno, e queste “con i denti afferravano i bordi delle camicie per ricoprirsi”.
Morire cantando col sorriso sulla bocca e la tranquillità nel cuore… quale miracolo, in anime che forse avevano faticato, in molti momenti, a non rispondere male a una loro consorella, a sopportare una piccola offesa, a lasciar trasparire, anche un poco, come da un velo, la soprannaturalità della loro fede.
Francesco Agnoli