La storia dolorosa, ma anche meravigliosa, di Madre Giuseppina Bakhita, considerata alla luce dei provvidenziali disegni di Dio, richiama alla mente una antica profezia biblica: “Da oltre i fiumi di Etiopia i miei supplicanti mi porteranno offerte’” (Sofonia, 3, 10).
Proveniente dalla regione del Darfur, situata al di là dei grandi fiumi africani la piccola schiava, dopo aver ricevuto con la libertà la luce della fede, altro non aveva da offrire a Dio che la propria vita: consacrandosi con la professione religiosa nel benemerito Istituto delle Suore Canossiane, avverava nella propria persona l’antica profezia. Sradicata con violenza da un villaggio sperduto nella zona occidentale del vastissimo Sudan, è seguita a passo a passo dalla Divina Provvidenza che, proprio attraverso la dolorosissima esperienza della schiavitù, la guida alla fede cristiana, alla consacrazione religiosa, alla santità. L’itinerario spirituale dell’umile suora africana viene ora ripresentato al pubblico con fine intuito e viva partecipazione da Sr Maria Luisa Dagnino.
Intenzionalmente ha voluto proprio in forma nuova, diversa da quella delle altre numerose biografie, già edite in varie lingue. Infatti, come appare dal titolo, è Bakhita stessa che racconta la sua storia, scritta nel 1910 per ordine della sua Superiora. Si sa che a suo tempo, la prima biografa Ida Zanolini ha utilizzato l’intervista fatta a M. Giuseppina Bakhita nel 1929 a Venezia, influendo poi sulle successive biografie. Ma nessuno finora ha attinto dal manoscritto del 1910, che, cronologicamente più vicino ai fatti narrati si presenta come documento più genuino e spontaneo, di altissimo valore spirituale, pur nella sua ingenua e fresca semplicità. Ottima pertanto è stata l’idea di pubblicare l’edizione integrale del prezioso manoscritto, che occupa la parte centrale di questo pregevole volumetto: è opportunamente preceduta nella prima parte da una breve ma essenziale contestuazione storico-geografica; ed è seguita, nella terza parte, da una esauriente e ordinata raccolta di testimonianze sulla santità di M. Giuseppina Bakhita, desunte fedelmente dai documenti ufficiali del processo canonico di beatificazione e canonizzazione. (…). P. Aldo Gilli Missionario Comboniano Roma, 8 febbraio 1989.
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PARTE PRIMA
L’insidia
Due ragazzine, parlottando fra di loro da vere amiche quali sono, occhi all’erta sul vasto manto verde, vanno cogliendo piccoli cespi di erba gir-gir che con gesto svelto mettono in bocca e brucano con gusto innocente. La piu piccola aveva appena scorto a portata di mano un mazzetto del tenero trifoglio agro-dolce e stava per chinarsi a coglierlo quando, d’improvviso, lei e la sua compagna vedono pararsi davanti due stranieri. Uno dice alla più grande: “Lascia che questa piccina vada là, presso il bosco a prendermi un involto che vi ho dimenticato. Tu, prosegui per la tua strada e ti raggiungerà subito”. La piccola va di corsa verso il bosco. Non trovando l’oggetto indicato, s’interna nel fitto della sterpaglia. In quella, si trova alle spalle i due stranieri. Uno l’afferra con violenza per la mano, ed estraendo un coltello dalla cintura, glielo punta sul fianco e, “Se gridi, sei morta! avanti, seguici”.
Impietrita dalla paura, gli occhi spalancati e tremante da capo a piedi, fa per gridare, ma le rinnovate minacce glielo impediscono. Costretta a trattenere financo i singhiozzi che tutta la scuotono, la forzano avanti nel fitto del bosco, finché, decisi, si fermano: “Di’ un po’, come ti chiami?”. La bambina, traumatizzata dallo spavento e resa muta dai singhiozzi repressi, non pronuncia parola. I due, irritati, la spintonano per farla parlare. Nulla. Infine, il più burbero decide: “Bakhita, ti chiameremo ‘Bakhita’ – “la fortunata!”. E con questo nome, quella ignota e innocente piccola Africana è arrivata fino a noi. E come? E quando? E da dove? A questi interrogativi sarà Bakhita stessa a rispondere. Il racconto dei fatti però è così concatenato e complesso che, per non interromperne la narrazione, cominciamo con il dare notizie sommarie della patria della piccola rapita: il Sudan.
La sua patria: il Sudan
Il Sudan è la più vasta nazione dell’Africa. Con una superficie di 2.506.813 kmq, è otto volte più grande dell’Italia. Segnano i suoi confini: l’Egitto, la Libia, il Ciad, la Repubblica Centro-Africana, lo Zaire, l’Uganda, il Kenya, l’Etiopia e a Est, per 500 km, il Mar Rosso. Questa immensa regione alberga nel suo ambito quasi interamente il bacino del Nilo, i cui rami, il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, si uniscono a Khartum. Di lì il fiume, dopo avere aggirato con due grandi anse il deserto di Bayuda e superato con quattro cataratte un dislivello di oltre 250 m, entra in Egitto a Uadi Halfa. Il clima e la vegetazione sono varie, come varia è la configurazione del paese: piovosità nulla nel deserto, ricche culture lungo il Nilo; per tutto il resto steppa e savana.
L’esploratore Guglielmo Godio, che visitò il Sudan nella seconda metà dello scorso secolo, parla con molta simpatia delle popolazioni sudanesi, che assicura “buone per indole, ospitali e leali. Gli uomini camminano armati di lunghe lance, di enormi spadoni e di pesanti scudi confezionati con pelli di bufalo, di ippopotamo o di elefante. Sono assai belli, dal portamento fiero, con capelli irsuti, acconciati in una foggia tale che, a prima vista, incutono un senso di rispetto. Le donne pure hanno una certa prestanza, anche se assai più dimesse; su di loro ricade il faticoso impegno di recarsi al pozzo, spesso assai lontano, per attingervi acqua con otri di pelle detti ghirbe. La caccia presso queste popolazioni è in onore e viene praticata con lance e frecce, però l’occupazione principale è l’allevamento di animali da pascolo!” Nella geografia medioevale, chiamavano questa regione Bilàd as-Sudàn, cioè “Paese dei Negri”. Tribù negroidi sono di fatto al sud, mentre al nord sono arabizzati anche per i facili rapporti col vicino Egitto. Le vicende storiche di questo paese sono strettamente collegate con quelle dell’Egitto, e ciò fin dal 288 a.C.
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Per mezzo di quella tortuosa e volubile via che è il corso stesso del Nilo, gli echi delle glorie faraoniche arrivarono fino a questo oscuro paese: ne fanno testimonianza i monumenti antichissimi, tuttora reperibili nel Sudan. La storia nota come anche i Romani, divenuti sovrani d’Egitto, tentarono d’intrigarsi con il Sudan. Verso il 66 d.C., Nerone spedì in esplorazione due centurioni che, al ritorno, dichiararono il paese troppo povero per essere degno di conquista”. Pare però fossero arrivati non oltre il deserto nubico. Altri furono di differente parere. Nel VII secolo gli Arabi, preso possesso dell’Egitto, si spinsero sulla Nubia e iniziarono razzie e regolare commercio di schiavi, imponendo a tutti la religione Islamica. Nel 1805, il governo turco nominò Khedive (viceré) d’Egitto Mohammed Aly con la missione di stabilire sul paese l’autorità ottomana. Mohammed invece sogna di fare un impero personale ed ereditario non solo dell’Egitto, ma anche del Sudan. Per mezzo di mene non poche, riesce veramente a rendere ereditaria nella sua famiglia la carica di governatore. Morto lui nel 1849, gli succede il nipote Abbas, poi il figlio Mohammed Said e ancora il figlio di questi, Ismail pure lui col titolo di Khedive. Grande pedina del giuoco di Mohammed Aly è il Sudan che egli fa occupare nel 1820 da un altro suo figlio, Ibraim. Eliminati i vecchi principati, fa costruire una capitale unica: Khartum, alla confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro (1823). Ismail tenta di affermare il suo potere sul Sudan: a tale scopo, si allea nel 1869 con funzionari europei a cui affida posti di comando nel Sudan, recentemente conquistato.
Trovatosi davanti a difficoltà finanziarie insormontabili, si vede costretto a subire l’ingerenza francese prima, e poi l’inglese. Mentre l’Inghilterra s’appresta a intervenire, fa la sua comparsa un sedicente “inviato da Dio” o Mahdi, certo Mohammed Ahmed ibn Abdullahi che, lasciato il suo eremitaggio dell’isola di Abba sul Nilo Bianco, si lancia alla conquista del Sudan e del mondo intero all’ideale islamico. Il Mahdi, con le sue supposte visioni celesti e virtù taumaturgiche, passa in realtà di vittoria in vittoria. Sulla traiettoria di tanto disastrosa avanzata si trovano, non a caso, stazioni missionarie cattoliche, impiantate dal Comboni a Malbes, Delen e ad El Obeid. Tutto fu saccheggiato e distrutto. I missionari e le suore, fatti prigionieri, furono posti davanti all’alternativa: “Islam o morte”. Tutti a una voce, e anche singolarmente, si di-chiararono pronti a morire, piuttosto che rinnegare la loro fede cattolica. Di fatto, quattro di loro perirono di stenti e di malattie, lungo una prigionia che durò oltre dieci anni. Caduto El Obeid il 19 gennaio 1883, a causa soprattutto della defezione degli abitanti del luogo, anche Khartum fu facilmente accerchiata. Lo stesso valoroso e magnanimo generale Charles George Gordon fu trucidato. Era il 26 gennaio 1885. La “guerra santa” del Mahdi aveva raggiunta una agognata meta, anche se non ultima negli ambiziosi piani del suo regista che si era proposto la conquista del mondo. Con questi e altri apocalittici disegni di gloria, il Mahdi moriva il 22 giugno 1885. Il califfo Abdullahi, già designato dal Mahdi come suo successore, si installa al suo posto con pieni poteri. Le guerre e le distruzioni continuarono ininterrotte, fino a che nel 1898 fu stabilito il dominio anglo-egiziano. Tramontato il quale, questa grande nazione raggiunge l’indipendenza il 1° gennaio 1956 e da allora è nota come Repubblica Indipendente del Sudan.
Il Sudan cristiano
E’ proprio della sapienza di Dio trarre bene dal male. Sembra che i primi evangelizzatori dell’Egitto e del confinante Sudan fossero Cristiani fuggiaschi, in-calzati dalla furia delle persecuzioni romane. È storicamente provato che fin dal sesto secolo vi fosse in Sudan un espansione missionaria bene organizzata. Nel 580 il re di Soba scriveva al re di Dòngola: “Cristo è con noi”. Altri assicuravano: “Nella Nubia vi sono dappertutto chiese cristiane, dove il Vangelo di Cristo è proclamato”. Ma l’avanzata islamica, di cui abbiamo già parlato, lasciò il deserto sul suo passaggio. Di un millennio di vita cristiana nulla restava se non “ruderi di chiese, monasteri e cimiteri” La Chiesa apparentemente sembra perdere le sue battaglie, ma vince la guerra. Battaglia perduta la prima e la seconda, ingaggiata nel Sudan da missionari francescani nel XVII secolo; perduta quella di molti altri che seguirono, vari per nazionalità, ma unici nell’ideale, per il quale tutto diedero di sé fino al sacrificio supremo della vita. Le tombe di ventidue giovani missionari segnano la via del Vangelo attraverso il Sudan. Eppure, nessuno di loro mori’ “vinto”.
Don Francesco Oliboni, così parlava nella sua agonia: “Fratelli, io muoio e sono contento, perché così’ piace a Dio; ma voi non vi dovete perder d’animo. Non lasciatevi smuovere dal vostro proposito… E se anche uno solo di voi rimanesse, non gli venga meno la fiducia, né si ritiri… Dio vuole la missione africana e la conversione dei negri, io muoio con questa certezza. Il grido profetico pronunciato da questo eroico missionario fu colto da Don Daniele Comboni che tradusse poi il suo impegno apostolico nel motto: “O Nigrizia, o morte!”. Questo, che suona come grido di guerra, fu di fatto il programma di conquista dell’Africa a Cristo, sognata e patita dal grande Comboni. Ne comincia la realizzazione proprio nelle regioni occidentali del Sudan: Kordofan e Gebel Nuba, con una stazione centrale a Khartum. È a questo punto, e proprio in questi luoghi che la storia della missione cattolica, se pur tracciata a volo d’uccello, si incrocia con la storia personale di Bakhita. La sua marcia forzata inizia a Olgossa, villaggio presso il colle Agilere di fronte al monte Marra. A tappe cariche tutte d’avventure, arriva nel Kordofan. Nessuno si meravigli però se Bakhita, nelle varie soste della sua servitù, non ebbe neppure sentore dell’esistenza di una chiesa cattolica neanche nelle capitali. La sua condizione di schiava la relegava severamente agli ambienti designati dalle sue padrone. Nel suo racconto Bakhita neppure accenna a una uscita in città: era cosa impensabile.
Quale religione?
Quale religione professava Bakhita nella sua famiglia? Si sa che anche la regione del Darfur era sotto potere musulmano, il che significa progressiva islamizzazione dei sudditi. Data però la posizione isolata sia della regione in generale, come del suo villaggio in particolare, appare evidente dalle sue stesse parole, ch’ella non avesse idea alcuna di un Dio unico universale. Disse anzi esplicitamente di “non aver conosciuto Dio”; però “di non avere adorato idoli”. Da ciò si deduce che la sua famiglia e fors’anche tutto il villaggio, praticavano, da tempi immemori, l’animismo. Tale religione non ha né fondatore, né profeta, ha un culto: le anime degli antenati; un ambiente: la famiglia, il villaggio e la tribù; una tradizione: che è saggezza ed esperienza accumulata lungo i secoli. Gli aspetti specifici dell’animismo cambiano da luogo a luogo, tanto che la varietà delle espressioni cultuali è pressoché infinita. Costante però è la tendenza di attribuire un’anima, non solo all’uomo, ma anche agli animali, alle piante e alla natura inorganica. Rispetto all’uomo, risalta evidente la credenza nella sopravvivenza dell’anima, distinta dal corpo, come in una vita ultra-terrena. L’anima è concepita in funzione del processo respiratorio: cessato questo, cessa la vita. Dalla inafferrabile leggerezza e volatilità del respiro, consegue l’idea di un’ anima immateriale, palpitante però in tutte le manifestazioni pulsanti della natura. Nella prassi scaturisce un profondo senso cultuale per i morti, grande rispetto per gli anziani, in quanto sono a loro più vicini, come lo sono i bambini ancora prima di nascere: da qui l’alto onore in cui è tenuta la maternità; nonché l’idea che la natura tutta quanta è pervasa dall’influsso delle anime dei morti. Era questa la struttura religiosa e sociale che ordinava la tribù da cui Bakhita proveniva. Poteva quindi con ragione asserire di “non’ avere mai adorato idoli”. D’altra parte era vero anche il suo rimpianto: “Se durante la mia lunga schiavitù avessi conosciuto Dio, quanto meno avrei sofferto!”