
«Lo Stato deve garantire il diritto a vivere, non quello a morire. Ma di quale libertà stiamo parlando: quella dell’annullamento di sé? Quale cultura promuove questa sentenza: che i malati gravi, i disabili, coloro che soffrono hanno la libertà di essere terminati da altre persone? E questo sarebbe un progresso?». Nina Daita è la responsabile nazionale delle politiche a favore dei disabili della Cgil. E si trova con un altro parere rispetto alla linea espressa dalla confederazione di «grande soddisfazione per la pronuncia della Consulta».
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Coloro che plaudono alla sentenza sottolineano che si tratta di una scelta di libertà in più per le persone. Perché non è così?
La
libertà di rifiutare le cure, di evitare l’accanimento terapeutico, di
arrivare a una fine senza sofferenze per i malati terminali, attraverso
le cure palliative e la sedazione profonda, esiste già, è garantita
dalla Costituzione e dalle leggi. Invece oggi si tradisce la cultura di
difesa, di intangibilità della vita su cui il nostro Paese e l’Europa
hanno costruito i fondamenti del diritto per cedere a una visione
nichilista e utilitaristica della persona e della vita stessa. In nome
di una presunta dignità che viene riconosciuta dalla società – e di
conseguenza percepita dalle persone stesse – solo e se si è in salute,
efficienti, non-sofferenti. E invece la sofferenza, l’imperfezione, la
malattia sono parte imprescindibile della vita di ognuno: giusto e
doveroso far di tutto per alleviarla, ma non pensare di eliminarla
rescindendo la vita stessa.
Chi è favorevole sottolinea che si
tratta della libera scelta di un malato gravissimo impossibilitato a
suicidarsi, che viene aiutato da qualcun altro, autorizzato e
controllato dallo Stato…
Se ci si riflette è agghiacciante che lo
Stato garantisca questo. È come se di fronte a un aspirante suicida in
bilico su un cornicione, per rispettare la sua volontà di farla finita,
lucida e magari espressa più volte, si chiamasse un medico o un
poliziotto a dargli l’ultima spinta. Non è aberrante? Lo Stato deve
garantire la vita e i diritti di cittadinanza, non quello a morire su
richiesta. E ciò che io sperimento quotidianamente incontrando le
persone disabili è che la loro domanda non è quella di morire, ma di
godere del diritto alla salute, a una vita dignitosa e piena, alla
integrazione e alla partecipazione nel lavoro e nella società, a
un’assistenza adeguata. Soprattutto a non restare soli. Nessuna madre mi
ha mai espresso il desiderio che il figlio malato o disabile venisse
fatto morire, ma si preoccupano piuttosto del “dopo di noi”, di chi si
prenderà cura dei loro ragazzi. È tutto questo ancora da realizzare
pienamente e di cui dovrebbe preoccuparsi lo Stato. Non di agevolare il
suicidio di chi è disperato. Con il suicidio assistito, invece, si
alimenta una cultura fortemente negativa e carica di rischi, in
particolare per i disabili.
Quali rischi teme?
Uno Stato
giusto e solidale, una società coesa, sta accanto ai propri malati e
disabili e li aiuta, protegge la vita come un bene prezioso. Il
messaggio culturale che emerge dalla sentenza è invece che
l’autodeterminazione sarebbe più importante della vita stessa a
prescindere da tutti i legami sociali, che la vita vale solo se è degna e
che questa dignità non è più un obiettivo a cui tutti dobbiamo tendere,
ma si misura con un metro personale e soggettivo nel migliore dei casi,
in realtà indotto da modelli e considerazioni imposti dall’esterno.
Perciò
temo che si scivoli naturalmente nell’eutanasia generalizzata, di cui
disabili, malati e anziani sarebbero i “clienti” in buona parte indotti e
che si arrivi poi alla selezione diretta delle persone fragili e
“imperfette” perché conviene economicamente. Non si tratta di
vagheggiamenti: lo vediamo già accadere in Paesi come l’Olanda e il
Belgio, in cui si ricorre all’eutanasia per migliaia di persone, o in
Danimarca dove si promuove una società senza più bambini con sindrome di
Down, eliminando alla radice la loro esistenza. La cultura di morte che
questa sentenza esprime e il messaggio sotteso che lancia in
particolare a malati e disabili è: “Tu soffri, costi e quindi se decidi
di farti da parte, di morire, è meglio per tutti”. Come possiamo
riconoscerci umani e compassionevoli in questo?