Chi ha condannato Galileo?

La padronanza dei principi della dinamica dava insomma a Galilei una netta superiorità sugli scienziati suoi contemporanei che tentavano di sostenere le ragioni del sistema tolemaico contro il copernicanesimo avanzante. Lo scontro, inevitabile, era destinato a risolversi necessariamente, almeno sul piano scientifico, a suo favore, anche se Galilei non era in grado di fornire una prova definitiva della validità del sistema copernicano, non sapeva ancora spiegare quale fosse la forza che muoveva la Terra e, oltretutto, rimaneva fedele all’antiquato pregiudizio secondo il quale la Terra e gli altri pianeti si muovono attorno al Sole in orbite rigorosamente circolari. Dopo l’insuccesso di Aristarco e la disattenzionè riservata a Copernico, Galileo poteva insomma finalmente imporre l’eliocentrismo. Ma nonostante tutto non vi riuscì. La responsabilità di questo insuccesso viene in genere attribuita alla Chiesa che, pur non avendo competenza in materia, con una decisione non solo scientificamente scorretta, ma anche azzardata e compromettente sul piano teologico, condannò l’eliocentrismo come una teoria eretica. Dopo l’umiliazione di un’abiura pubblica Galilei venne posto agli arresti domiciliari “come veementemente sospetto di eresia”, una formula di compromesso che consentì di evitare il rogo al “colpevole”.

Le indagini storiche hanno però accertato che fu un gruppo di scienziati pisani e fiorentini a suscitare il fatale scontro tra Galileo e la Chiesa, mossa che costituiva l’ultima possibilità di arrestare il copernicanesimo, vista l’impossibilità di contrastarlo sul piano scientifico. L’ostilità della comunità scientifica nei confronti dì Galilei fu infatti, almeno all’inizio, generale. L’amico Paolo Gualdo gli scriveva da Padova nel 1612: “Che la Terra giri, sinhora, non ho trovato né filosofo né astrologo che si voglia sottoscrivere all’opinione di Vostra Signoria, pensi adunque bene prima che asseverantemente pubblichi questa sua opinione per vera”. I più accaniti oppositori furono però un gruppo di studiosi di Pisa e di Frenze: Giorgio Coresio, professore di greco all’università di Pisa, Vincenzo di Grazia, che insegnava invece filosofia, nonché Arturo Pannocchieschi, rettore della stessa università. Altro importante membro del gruppo era Cosimo Boscaglia, professore a Pisa prima di logica e poi di filosofia, che fu molto apprezzato da Ferdinando I e Cosimo II de’ Medici. Il più agitato del gruppo era però un filosofo dilettante di Firenze, Lodovico delle Colombe, che viene descritto da un contemporaneo come un individuo “lungo, magro, nerastro e di fisionomia sgradevole”. Galilei lo chiamava Pippione, che in toscano vuol dire sia “piccione” che “coglione” nel duplice senso, sia letterale sia metaforico. Tutto il gruppo veniva perciò indicato neile sue lettere come “la lega del Pippione”. Il luogo dì ritrovo di questi “malotichi et invidiosi”, come li chiamava Lodovico Cigoli, amico di Galilei, era la casa fiorentina dell’arcivescovo Marsimedici, dove si incontravano talora con due frati domenicani: Nicolò Lorini e Tommaso Caccini.

I motivi di risentimento dei membri di questa “lega” nei confronti di Galilei erano molteplici. Essi erano innanzitutto umiliati per la propria manifesta incapacità di controbattere le sue argomentazioni contro il sistema tolemaico e la filosofia aristotelica, della cui attendibilità scientifica si sentivano garanti e custodi. Galilei, oltretutto, aveva un modo di argomentare molto più logico, razionale e lucido del loro, e in più era arguto e sottile, sicché si divertiva a imbarazzarli con i paradossi impliciti nelle loro stesse asserzioni, il che finiva per renderli ridicoli. Accanto a questi motivi di carattere scientifico e psicologico esistevano però anche delle ragioni personali di invidia. I risultati clamorosi ottenuti con le osservazioni rese possibili dal cannocchiale e la pubblicazione del Sidereus Nuncius avevano reso Galileo rapidamente famoso, sicché per tornare dall’università di Padova a Pisa aveva preteso delle condizioni di privilegio. Per essere libero di fare ricerca, non aveva infatti alcun obbligo di insegnamento: il suo stipendio veniva però pagato con i fondi dell’università e si trattava, oltretutto, di uno stipendio superiore a quello degli altri professori, i quali erano tenuti, oltre che a insegnare, anche ad abitare a Pisa, obbligo dal quale Galilei era invece esentato. Questi e altri privilegi, accordati a chi si contrapponeva così direttamente all’ortodossia scientifica del tempo, apparivano ampiamente ingiustificati al mondo accademico pisano.

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Una tale situazione di notevole animosità nei suoi confronti costituì un motivo determinante nell’evoluzione e nell’origine del dramma personale di Galilei. Fu infatti in seguito alla verificata impossibilità di arrestarlo con argomentazioni di carattere scientifico che i suoi oppositori si decisero a usare argomentazioni di carattere teologico, che consistevano essenzialmente nel mettere in evidenza la natura eretica di ogni teoria che affcrmasse l’immobilità del Siole e la mobilità della Terra, perché contraria a ciò che sostiene la Bibbia. Questo tipo di argomentazione compare per la prima volta, tra la fine del 1640 e l’inizio del 1614, in una dissertazione dal titolo Contro il moto della Terra che fu fatta circolare manoscritta da Lodovico delle Colombe. L’attacco preludeva alle denunce verbali e scritte di Lorini e di Caccini, coordinate in una sorta di piano di congiura, denunciato già dallo stesso Galilei e ricostruito, in un libro famoso, da Giorgio de Santillana. Secondo questo piano, Galileo doveva essere provocato sul problema del rapporto tra teoria copernicana e testo biblico in modo da attirare l’attenzione dei teologi sulla necessità, da parte dei copernicani, di interpretare in senso non letterale i vari passi nei quali la Bibbia, accogliendo il senso comune, affermava chiaramente che è il Sole a muoversi e che la Terra sta ferma. L’inizio dell’Ecclesiaste dice ad esempio: “Una generazione va e l’altra viene; ma la Terra rimane sempre. lì Sole sorge e tramonta e torna al suo luogo; da qui, rinascendo, gira a mezzogiorno e poi piega a settentrione”. C’era poi il famoso passo del Libro di Giosuè che narrava il miracolo dell’arrestarsi del Sole, prodotto da Dio dopo la pressante richiesta di Giosuè: “O Sole, fermati a Gabaon, e tu, o Luna, alla valle di Aialon. E il Sole si fermò, e la Luna ristette finché la nazione ebbe vendetta dei suoi nemici”.

Se i copernicanì avevano ragione, i casi erano due: o si ammetteva che la Bibbia aveva accettato una teoria sbagliata sulla costituzione dell’universo, oppure quei passi andavano reinterpretati. Si doveva supporre cioè che, affidandosi al senso comune e non essendo un astronomo, Giosuè avesse chiesto a Dici di fermare il Sole, e che questi avesse arrestato o rallentato il moto di rotazione della Terra per produrre il miracolo richiesto. La situazione era effettivamente molto imbarazzante per la Chiesa, che però avrebbe volentieri evitato il problema se non fosse stata costretta a prendere posizione dal clamore suscitato dagli attacchi della “lega”.

Galilei capì che se voleva far trionfare il copernicanesimo doveva affrontare questione e, con l’aiuto di due preti suoi allievi, Benedetto Castelli (che fu anche un ottimo matematico) e un frate barnabita, si improvvisò teologo. In due lettere comunemente note come Lettere copernicane trovò una via d’uscita che poteva servire, non solo in quel caso specifico ma anche in futuro, a evitare contrasti e contrapposizioni tra verità di fede e verità scientifica. Si trattava semplicemente di ammettere che, in molti caso, e in particolare in rapporto a questioni scientifiche, la Bibbia non poteva essere presa alla lettera. Il suo ragionamento era semplice e facilmunte condivisibile: la verità non può essere che una ma è scritta in due libri diversi, la Bibbia e la Natura, che usano linguaggi altrettanto diversi. La Bibbia è scritta in funzione dell’uomo e mira essenzialmente a fornire all’uomo quelle indicazioni morali che gli possono consentire di vivere, con piena consapevolezza e con tranquilla berenita, la propria vicenda esistenziale. Il libro della Natura, invece, non contiene verità di carattere morale, ma solo descrizioni fedeli dei fenomeni naturali esposte in un linguaggio tecnico: quello matematico. La comprensione delle leggi di natura richiede dunque una competenza diversa da quella del teologo: bisogna essere buoni matematici ma anche buoni sperimentatori, in altri termini bisogna essere scienziati. La conclusione era che, secondo Galilei, nei casi in cui la scienza scopriva leggi o fenomeni che le Scritture presentavano in modo diverso, i teologi non dovevano, non essendo competenti, contestare le conclusioni degli scienziati, ma piuttosto prenderne atto e affrettirsi a cambiare l’interpretazione dei testi sacri.

Il ragionamento era plausibile e facilmente condivisibile. Del resto il principio dell’interpretazione non letterale era stato già utilizzato da vari Padri della Chiesa, tra i quali sant’Agostino, e venne poi definitivamente sancito, nel 1893, con un’apposita enciclica emanata da papa Leone XIII. Ma le cose non erano così semplici come poteva apparire a prima vista. Esisteva un problema che rendeva (e rende ancor oggi) inevitabile il contrasto tra scienziati è teologi: prima di modificare l’interpretazione di un passo delle Scritture o, più in generale, di abbandonare un principio morale in conseguenza di un progresso scientifico o tecnico, è saggio e prudente accertarsi in modo definitivo dÙl’attendibilìtà della nuova visione scientifica. Ora, la conoscenza scientifica è fallibile, non offre verità definitive, anzi si distingue dalla magia, come dalla religione, proprio per la capacità di modificare continuamente i propri principi e di progredire in virtù della revisione critica dì vecchie idee. Giustamente il teologo non vuole essere ridotto a passacarte dello scienziato e correre il rischio di avallare precipitosamente teorie che la stessa comunità scientifica potrebbe domani scartare come errate, o comunque modificare. Se deve cambiare idea deve avere buoni motivi, e vuole essere lui a valutarlo.

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Nel caso di Galilei, ad esempio, anche gli scienziati hanno sempre ammesso che egli non era stato in grado di fornire una prova definitiva della validità del sistema copernicano, poiché quella che egli riteneva certa (la sua spiegazione del fenomeno delle maree) non era affatto corretta, e appariva errata anche ai contemporanei. L’atteggiamento dei teologi, da questo punto di vista, fu più cauto di quello di Galilei: prima le prove, dicevano in sostanza, poi la revisione teologica.

Questo in effetti poteva portare a un accordo. E fu infatti su questa base che il problema venne provvisoriamente risolto nel 1615, all’epoca del cosiddetto primo processo a Galilei, che fu in realtà un’indagine segreta, una sorta di perizia teologica, nata da una denuncia di Tommaso Caccini, nel corso della quale Galilei non venne neppure disturbato per essere interrogato. La commissione del Sant’Uffizio, a conclusione dei suoi lavori, decretò a quell’epoca che la teoria eliocentrica era scientificamente errata ed eretica dal punto di vista teologico. Ma a proposito della posizione personale di Galilei, che pure sosteneva ormai pubblicamente quella teoria, non si pronunciò. Lo scienziato contro il quale era diretta la denuncia non venne insomma né assolto né condannato. Venne invece convocato, il 26 febbraio 1615, a casa del cardinai Bellarmino, che non faceva parte della commissione ma era il vero ispiratore della linea adottata dalla Chiesa. Nel corso di quel colloquio, che nell’intenzione di Bellarmino doveva essere amichevole e fu invece un po’ teso a causa della presenza e dell’intransigenza del commissario generale del Sant’Uffizio, Michelangelo Segizzi, Galileo venne informato che la Chiesa riteneva eretica la teoria eliocentrica e venne invitato a considerarla da allora in poi solo come ipotesi.

Questo, almeno provvisoriamente, metteva le cose a posto. Se l’eliocentrismo era solo un’ipotesi, non c’era motivo di affrettarsi a cambiare l’interpretazione della Scrittura. Più o meno esplicitamente si ammetteva inoltre che la soluzione proposta da Galilei per i casi di accertato contrasto era valida. Per il momento la questione si poteva considerare chiusa: i teologi avevano indubbiamente commesso un errore dando una valutazione di merito scientifico sull’eliocentrismo ma, nonostante ciò, si rifiutavano di fare il gioco dei nemici di Galileo, al quale intendevano accordare ogni libertà di indagine sull’argomento e anche la possibilità dì discuterne sul piano strettamente tecnico con i propri colleghi.

Sotto l’apparente disponibilità si celava però una posizione ben più intransigente. Bellarmino, che non era certamente un genio scientifico (e che forse non meritava di essere fatto santo perché aveva sulla coscienza varie condanne a morte per eresia, non ultima quella di Giordano Bruno), aveva tuttavia una mente molto più sottile e e una cultura più raffinata di quella di Galilei. Fu un teologo forse troppo rigido, ma la sua lucidità può suscitare ancora oggi invidia in molti dottori della Chiesa. Egli riteneva che, se non si voleva aprire una grave falla nelle basi teologiche della religione, si doveva tenere fermo che anche nelle questioni scientifiche l’ultima parola dovesse spettare al teologo, per un principio molto semplice: nel bene e nel male la Scrittura è opera dello Spirito Santo e dunque la distinzione tra questioni di fede e questioni scientifiche non regge. Tutto è questione di fede. Con una formula latina un po’ scolastica Bellarmino diceva che una cosa scritta nella Bibbia “se non è materia di fede ex parte objecti [cioè considerando l’oggetto o l’argomento] è materia di fede ex parte dicentis [cioè considerando colui che parla, vale a dire lo Spirito Santo]”.

Tutti i commentatori, sia laici sia cattolici, sono oggi concordi nel ritenere questa posizione eccessivamente intransigente, il che ha portato a considerare, almeno sul piano teorico, Bellarmino come il principale responsabile della sfortunata condanna di Galilei all’epoca del secondo processo, quando il teologo era già morto. La Chiesa però non ha mai ufficialmente avallato queste critiche anzi, persino negli atti nei quali normalmente si presume che abbia fatto ammenda e riabilitato Galilei, in realta ha sempre ribadito la posizione di Bellarmino. Prendiamo ad esempio l’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII. Essa dice: “Nessuna vera contraddizione potrà interporsi tra il teologo e lo studioso delle scienze naturali, finché l’uno e l’altro si manterranno nei propri confini, guardandosi bene, secondo il monito di sant’Agostino, «di non asserire temerariamente alcunché né di presentare una cosa certa come incerta»”. I casi di possibili contrasti possono essere regolati, secondo l’enciclica, proprio come suggeriva Galilei: “Se poi vi fosse qualche dissenso, lo stesso santo dà sommariamente le regole di come debba diportarsi in tali casi il teologo: «Tutto ciò che i fisici, riguardo la natura delle cose, potranno dimostrare con documenti certi, è nostro compito provare non essere nemmeno contrario alle nostre lettere»”. Il teologo insomma deve essere pronto a reinterpretare il testo della Scrittura per seguire l’evoluzione delle conoscenze scientifiche. Esattamente come sosteneva Galilei. Ma, come c’era da attendersi, c’è un ultimo codicillo che ribalta completamente la situazione. Continuando la citazione di sant’Agostino l’enciclica prosegue: “Ciò che poi presentassero nei loro scritti di contrario alla fede cattolica, o dimostriamo con qualche argomento essere falso ciò che aaseriscono o crediamolo falso senza alcuna esitazione”. Nel caso in cui il teologo si trovasse insomma di fronte ad affermazioni scientifiche che ritiene senz’altro contrarie alla fede e alla morale, non solo è autorizzato ma addirittura è sollecitato a condannarle come false, indipendentemente dalla loro validità scientifica.

Espressa in questo modo, la posizione ufficiale della Chiesa potrebbe sembrare non solo eccessivamente intransigente ma anche acritica e ottusa. Se si considera però il modo in cui, più di recente, essa è stata espressa da papa Wojtyla nei due discorsi fatti in apertura (10 novembre 1979) e in chiusura (31 ottobre 1992) del processo di riabilitazione di Galilei, appare sotto tutt’altra luce e, se non condivisibile, almeno giustificata dal punto di vista morale. Partendo dalla considerazione, incontestabile, che “l’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce” e auspicando, come tutti, che “l’uomo deve uscire vittorioso da questo dramma, che minaccia di degenerare in tragedia, e deve ritrovare la sua autentica regalità sul mondo e il pieno dominio sulle cose che produce”, Giovanni Paolo II ritiene che l’unico modo per riuscirvi è quello di riaffermare “la priorità dell’etica sulla tecnica, il primato della persona sulle cose, la superiorità dello spirito sulla materia”. In buona sostanza il papa afferma, e non ci si poteva aspettare diversamente, che ciò che può garantire la salvezza esistenziale dell’umanità è la religione, assunta come criterio di valutazione degli interventi tecnici resi possibili dalla scienza.

Questo modo di presentare la questione appare meno intransigente e meno offensivo di quello impiegato da Bellarmino o da Leone XIII. Innanzitutto esso sposta il discorso dalla scienza all’applicazione tecnica delle scoperte scientifiche, il che rende possibile, ad esempio, condannare l’uso delle armi nucleari senza scomunicare Fermi, Oppenheimer e compagni. In secondo luogo fa appello a un diffuso sospetto nei confronti del reale significato del progresso tecnico e scientifico, che costituisce anche il minimo comun denominatore dell’ideologia dei movimenti ambientalisti, pacifisti, antivivisezionisti e di tutti i fenomeni di recupero dei valori mistico-religiosi, come reazione e fuga dalla civiltà tecnologica. Si tratta, più che di un insieme coerente di idee, di un atteggiamento culturale genericamente definibile come progressista e originatosi nel Sessantotto, che percorre trasversalmente anche tutti i fenomeni di presa di coscienza e di rivendicazione sociale da parte di gruppi emarginati, dal femminismo ai movimenti omosessuali e ai comitati per la difesa dei diritti del malato. […] Oggi ìnsornma le argomentazioni dì Bellarmino potrebbero apparire addirittura più ragionevoli e condivisibili di quanto non fossero nel 1615.

La sostanza del discorso però non è cambiata. La Chiesa ritiene di avere il dovere di tutelare il valore e l’integrità dell’esistenza umana, e per farlo pretende il controllo finale su tutte le decisioni che possono influenzare il destino di individui e società. L’unico sostanziale cambiamento verificatosi dai tempi di Gailei a oggi è che la Chiesa ha perso il potere temporale e non può più quindi usare la forza per esercitare realmente questo controllo, ed emarginare o eliminare come eretici coloro che, non avendo interesse a essere salvati, si oppongono a questa volontà di controllo. Sfortunatamente, nel Seicento il potere temporale della Chiesa era ancora molto forte e il papa dell’epoca, Urbano VIII, non seppe resistere alla tentazione di farne uso. I motivi contingenti che coinvolsero Galilei nel secondo, definitivo, processo ci appaiono, da questo punto dì vista, fin troppo prosaici e personali. Lo scienziato, nel comporre il Dialogo sopra i due massimi sistemi, aveva offeso, non si sa se per caso o per inavvertita arroganza, papa Urbano VIII, che gli aveva sempre mostrato grande benevolenza. Lo scienziato aveva messo le opinioni del papa in bocca a Simplicio, il personaggio che nel Dialogo fa la figura, se non dello sciocco, almeno dell’ignorante; nel frontespizio del libro figuravano poi tre delfini, che sembravano alludere al nepotismo un po’ eccessivo del papa. È probabile, anche se non del tutto provato, che due gesuiti, padre Grassi e padre Scheiner, che avevano motivi di cisentimento nei confronti di Galileo, abbiano sfruttato questi elementi per provocare il processo.

I lavori furono lunghi e segnati da alterne vìcende ed è anche possibile che gli accusatori abbiano fatto ricorso a un documento falsificato (o comunque non valido legalmente). Nonostante tutto, a un certo punto si tentò di nuovo una soluzione compromissoria; purtroppo in questa fase Galilei commise degli errori che irritarono l’ala intransigente del tribunale che il 22 giugno 1633, su pressione del papa, emise la sentenza dì condanna. Tre dei giudici, in evidente segno di disapprovazione, non furono presenti alla lettura della sentenza.

Si trattò di una condanna manifestamente ingiusta e di un grave errore, come ha voluto definitivamente chiarire Giovanni Paolo II. Quel che ancora oggi non è chiaro è quale sia il senso di questa intricata e sfortunata vicenda e che insegnamento se ne possa trarre. È evidente innanzitutto che Galilei fu condannato prima dalla scienza e poi dalla Chiesa. Si trattò insomma di una duplice condanna i cui motivi, pur essendo diversi, erano collegati dal desiderio di tutelare il più possibile il senso comune. Gli scienziati non volevano allontanarsi dalle opinioni di senso comune, perché erano state incorporate da Aristotele e Tolomeo in una teoria che tutti ritenevano assolutarnonte certa e inattaccabile. I teologi, per parte loro, difendevano il senso comune perché la Bibbia, se presa alla lettera, sembrava avallarlo. Va sottolineato tuttavia che i secondi erano più concilianti e, in fondo, più che a difendere il senso comune, erano interessati a rinsaldare l’autonomia e la supremazia del giudizio etico-religioso anche nelle questioni scientifiche. I teologi insomma avevano già capito, o intuivano, che la scienza poteva costituire un rischio per l’uomo e, per scongiurare il pericolo, volevano soprattutto riaffermare (difendendo il primato della teologia) il diritto prioritario di valutare sul piano morale i progressi che la scienza prometteva sul piano della conoscenza e della tecnica. A sbagliare, dunque, non furono soltanto i teologi ma anche gli scienziati, E sia gli uni che gli altri potevano imparare qualcosa dall’errore commesso. Purtroppo, mentre la Chiesa, seppure con grande ritardo, ha riconosciuto le proprie responsabilita’ e corretto, per quanto possibile, il proprio atteggiamento, la scienza, almeno finora, non è stata in grado di fare altrettanto

Tolleranza religiosa e intolleranza scientifica

Dalla vicenda di Galilei la Chiesa ha tratto un grande insegnamento: che non è né giusto né saggio tentare di chiudere la bocca agli scienziati quando dicono cose contrarie alle convinzioni religiose. Si rischia di negare l’evidenza e di compromettere la credibilità degli stessi fondamenti della religione. Meglio tollerare e lasciare alla scienza e agli scienziati la libertà più completa, e anche la responsabilità delle loro affermazioni. Quando giungono a conclusioni incompatibili con la fede o con la morale è inutile contestare la validità scientifica di quello che fanno e dire, come si azzardarono a fare i giudici di Galileo, che l’eliocentrismo è eretico sia scientificamente che logicamente. Se una teoria è scientificamente giusta o sbagliata può dirlo solo la scienza, la quale pure, nel farlo, trova talora notevole difficoltà e impiega molto tempo. Ma, come sosteneva sant’Agostino, i teologi hanno in definitiva tutto il diritto di rifiutare, per ragioni teologiche e morali, anche una teoria che la scienza ritiene ufficialmente vera.

Perciò, di fronte a un problema spinoso la strategia migliore per ogni movimento confessionale è quella di prendere tempo e pronunciarsi ufficialmente solo quando le cose sono abbastanza chiare. A questo punto si integra, per quanto possibile (e soprattutto se è possibile), la nuova teoria con il corpo delle convinzioni religiose altrimenti si ammette molto francarnante che la cosa, per quanto plausibile e accertata possa essere sul piano scientifico, urta contro principi e valori fondamentali, e dunque deve essere rifiutata per ragioni morali. Il problema del contrasto tra religione e scienza non viene risolto perché, come tutti i grandi problemi, non ammette soluzione, ma almeno viene evitato il conflitto frontale. Il vantaggio maggiore di questo cauto atteggiamento è, paradossalmeiìte, proprio quello di non risolvere ma anzi di riproporre continuamente il problema, tenendo però aperto il dialogo e il confronto dialettico. Pur non potendo più aspirare a ricostituire l’antica identità la scienza e la religione hanno bisogno l’una dell’altra. Il loro continuo confronto è infatti uno dei meccanismi fondamentali di crescita della cultura umana. Dal caso Galilei la Chiesa ha insomma imparato a rispettare i diritti della scienza e a controntarsi con essa francamente, da pari a pari, senza più ricorrere alla violenza, di qualsiasi tipo essa sia.

Anche la scienza avrebbe dovuto, dallo stesso caso, imparare qualcosa di analogo. Non tanto a rispettare la religione, che ha abbastanza forza per far valere i propri diritti, quanto a rispettare le opinioni scientifiche minoritarie o emergenti e rivoluzionarie come era quella di Galilei agli inizi del Seicento. Per essere più chiari la comunità scientifica doveva capire a) che arroccarsi a difesa del senso comune era stata un’iniziativa del tutto inopportuna e controproducente; b) che ogni teoria scientifica corre il rischio di trasformarsi (anzi quasi sicuramente si trasformerà) in una forma evoluta di senso comune o di opinione pregiudiziale; c) che, come ha fatto la Chiesa, bisognava mettere a punto una strategia che evitasse il ripetersi in futuro dello stesso incidente. E proprio per non aver capito questo che la scienza si ritrova oggi a dover affrontare e risolvere, al suo interno, il problema dell’eresia, che per lungo tempo ha considerato come un problema esterno che la vedeva sempre come vittima e mai come diretta responsabile di un’ingiustificabile emarginazione. L’ortodossia scientifica è chiamata oggi a dimostrare quella stessa apertura al dialogo che ha consentito alla Chiesa di evitare un secondo clamoroso incidente nel caso dì Darwin.

© Arnoldo Mondadori Editore

di Federico Di Trocchio – F. Di Trocchio, Scienza e senso comune, in Il genio incompreso, cap. V, Mondadori, 1997

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