Chi ha paura del vero Gesù

gesu nazareth

Sin dalle prime righe della Premessa al suo Gesù di Nazaret, Joseph Ratzinger (come preferisce essere indicato, scrivendo qui come studioso privato) spiega perchè, con una sorta di urgenza, ha dedicato al libro «ogni momento libero» anche dopo «l’elezione alla sede episcopale di Roma». E spiega pure perchè, «non sapendo quanto tempo e quanta forza saranno ancora concessi», ha deciso di anticipare i capitoli centrali del testo progettato, quelli sulla vita pubblica del Nazareno, rinviando al futuro la riflessione sui “vangeli dell’infanzia” e sul “mistero pasquale”, cioè i racconti di passione, morte, risurrezione. Ratzinger, dunque, spiega questa fretta usando un’espressione significativa, che sembra in contrasto con i suoi toni sempre pacati ed equilibrati.

Se ha deciso di andare alle radici stesse, al Fondatore medesimo, è perchè c’è oggi «una situazione drammatica per la fede». Fede che sta dissolvendosi, se non si contrasta l’ aggressione – che viene anche da certa intellighenzia cattolica – alla verità storica dei racconti evangelici. Il Cristo, il Messia, il Figlio di Dio annunciato e adorato dalla Chiesa non sarebbe che una costruzione tardiva, che poco o nulla avrebbe a che fare con il «Gesù della storia», oscuro predicatore come tanti altri all’interno della tradizione ebraica. «E’ penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità» scrive colui che ora è papa «l’impressione che sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo in seguito la fede nella sua divinità avrebbe plasmato la sua immagine».

Questo libro, dunque, vuole essere uno strumento per “ricominciare da capo”, per procedere a quella rievangelizzazione già auspicata pressantemente da Giovanni Paolo II. Pagine, queste, pensate e volute per rivisitare, riaffermare, salvaguardare il fondamento dell’intero edificio cristiano.
Soltanto alla luce di una certezza di fede ritrovata è possibile darsi ad elevazioni spirituali e trarre conseguenze morali. Ma se Gesù non è l’Unto annunciato dai profeti ed è solo uno Yeoshua, un predicatore vagante dagli incerti contorni dell’era tra Augusto e Tiberio, sono abusive e grottesche le elucubrazioni che si ricavano da un insegnamento frutto di chissà quali oscure manipolazioni e interpolazioni.

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Pur allergico alle iperboli giornalistiche, questa volta aggettivi come “prezioso”, se non “decisivo” (per i credenti, ma forse non solo) mi sembrano applicabili al Gesù del teologo bavarese che proprio oggi compie il suo ottantesimo anno e da due è Vicario di quel Cristo di cui qui parla. Mentre le attuali classifiche dei best seller librari nereggiano di titoli che compatiscono l’innocenza o denunciano l’ignoranza di coloro che si ostinano a dirsi credenti, ecco un papa-professore che spiazza piccoli e grandi “maestri del sospetto”, mostrandosi più aggiornato di loro. In effetti, vanno oggi per librerie dei libelli che vorrebbero dimostrare che “non possiamo più essere cristiani” riesumando la propaganda dei polemisti ottocenteschi, ripetendo le trite grossolanità dei farmacisti e dei notai della provincia massonica. Si presentano cioè, come rivelazioni devastanti per la fede argomenti che entusiasmavano anche un giovane socialista, un autodidatta, tal Benito Mussolini che – sul palco dei comizi, avvolto in una bandiera rossa – dava un minuto d’orologio all’inesistente Dio per fulminarlo.

Si diffondono, poi, libri certamente più insidiosi perché più sofisticati, ma dove su Gesù discettano professori formatisi sugli schemi novecenteschi, secondo i quali le incerte, spesso arbitrarie, metodologie dette “storico-critiche” sarebbero “scienza” e, dunque, oggettive, indiscutibili.
Dimenticando, però, di avvertire il lettore che quegli schemi sono tanto poco “storici” e tanto poco “critici” che ogni generazione di esegeti confuta quella precedente, dando per sicura un’altra verità, destinata ovviamente ad essere essa pure ribaltata. Anche perchè, come ricorda con ironia ma con verità Ratzinger, «chi legge queste ricostruzioni del “vero” Gesù può subito constatare che esse sono soprattutto fotografie degli autori e dei loro ideali», ciascuno spacciando per “scienza” il suo temperamento e lo spirito del suo tempo. Difficile prendere sul tragico biblisti come questi, che per decenni hanno venerato come principe tra loro o, almeno, hanno rispettato un Rudolf Bultmann (al quale Ratzinger dedica qualche battuta ironica) che sentenziò che non esiste, che non può e che non deve esistere alcun rapporto tra ciò che i vangeli raccontano e ciò che davvero è successo, ma che al contempo rifiutò sempre di andare in Palestina: se i luoghi e l’archeologia confutavano la teoria libresca, tanto peggio per loro, non per la teoria.

A chi è rimasto al XIX o al XX secolo, ecco ora far controcanto non un papa che si appella al principio di autorità o formato a quella che Hans Küng chiama, con lo sprezzo del clericale “adulto”, la «arcaica teologia romana», ma uno studioso tra i più apprezzati al mondo che ha attraversato tutta la modernità per affacciarsi, alla fine, al post-moderno. L’epoca, cioè, in cui, dopo aver triturato in ogni modo i versetti evangelici per piazzarne i detriti nel cestino del mitico, del didascalico, dell’edificante, dell’interpolato, ci si è accorti che, in realtà, in questo modo l’enigma di Gesù non si dissolveva ma diventava più fitto. E che, forse, la lettura semplice dei vangeli “così come stanno” può essere più chiarificatrice di quella di un accademico tedesco.

Dico tedesco non a caso perché in Germania – dove ogni università anche pubblica ha due facoltà di teologia e di esegesi, una protestante l’altra cattolica – è nato e si è via via ampliato, sino a divenire ipertrofico, quel metodo “storico-critico” accettato poi ovunque dai biblisti, intimiditi da nomi teutonici che si richiamano alla severa, inappellabile Wissenschaft, la Scienza con la maiuscola. Formgeschichte, Redaktiongeschichte, Wirkunggeschichte, Entmithologisierung, Ur-Quelle ed infinite altre teorie e sistemi che il professor Ratzinger conosce benissimo, che sono nati e coltivati nelle università in cui è stato docente, che nella sua giovinezza hanno affascinato anche lui. E che ora non condanna né rinnega, sia chiaro.
«Spero» scrive «che il lettore comprenda che questo libro non è stato scritto contro la moderna esegesi ma con riconoscenza per il molto che ci ha dato e continua a darci». Nulla rifiuta di quanto di valido venga dagli accademici sui colleghi. Non vuole andare contro ma oltre, consapevole che proprio la ricerca -purché concreta, sensata e, dunque, pronta a ogni possibilità, persino a quella di aprirsi al Mistero- può mostrarci che ci sono ben più cose nella Scrittura di quanto non scorga la critica positivista, il razionalismo esegetico. Così, alla fine lo specialista come lui, consapevole di ogni obiezione, rotto a ogni teoria, sistema, metodo può concludere che, se si vuol raggiungere Gesù , «ci si può fidare dei vangeli», che non è vero che la ricerca storica sia in contrasto insanabile con la fede. Al contrario, alla fine può confermarla. In questo senso, il libro che il nostro docente ha iniziato da cardinale e ha completato da pontefice, sembra nella linea del grido di colui che sempre chiama «il mio venerato e amato Predecessore». Ma sì, il «non abbiate paura!» di Giovanni Paolo II risuona anche in queste pagine che non temono la critica dei sapienti, che la rispettano, che ne colgono quanto vi è di positivo ma la sorpassano.

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Vittorio Messori – Corriere della Sera

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