Come si può stare impotenti davanti a un ammalato e non perdere la fede?

Image by Helmut Strasil from Pixabay

Caro padre Aldo, volevo chiederti una mano su come imparare a volere bene al mio moroso che soffre di depressione e in questo periodo è particolarmente a pezzi. Ho deciso di scriverti dopo ieri sera: per l’ennesima volta, dopo una cena con alcuni amici, mi ha scritto: «Sono triste, prega per me». A quel punto mi sono arrabbiata un po’ con lui (la serata era andata bene, l’ho guardato tutto il tempo e aveva proprio una bella faccia; quando mi ha scritto così mi sono sentita presa in giro) e un po’ con Dio (ogni sera lo affido a Lui ma mi sembra che il mio pregare non cambi niente). L’evidenza più grande era che né l’aiuto medico che sta ricevendo né il volergli bene mio e dei suoi amici possono bastare. Ma allora come fargli compagnia? Come rendere utile il nostro stare insieme? Quando sta così male mi sento completamente disarmata: vorrei togliergli la fatica ma non posso. A volte questo diventa un ottimo esercizio di umiltà, per cui mi rendo conto che lui non è mio, ma altre volte questa evidenza è solo un peso.
A volte, quando chiede che senso ha questa fatica, resto in silenzio e mi verrebbe da dire: nessuna. So di pensare una bugia, perché subito mi vengono in mente mille persone e mille fatti della mia vita che dicono il contrario, ma mi sembra sempre tutto piccolo davanti al suo star male. So che questo è un problema di fede mio e ho bisogno di un aiuto. Come, davanti ai tuoi malati, non perdi la fede?
Lettera firmata

«Quid animo satis?», si chiedeva san Francesco. Una domanda che definisce la robustezza dell’Io. Quando don Giussani diceva: «Vi auguro di non essere mai tranquilli», ci rimandava alla provocazione di san Francesco, una provocazione che ad alcuni poteva apparire sadica, mentre per chi si lasciava ferire era la possibilità di un cammino aperto al Mistero. Ricordo in Valle d’Aosta quando un amico prete depresso raccontava a Giussani delle sue dolorose notti insonni. Lui gli rispose: «Se questo ti aiuta ad amare di piú Gesù, ti auguro di non dormire mai». Una risposta che tutt’oggi mi fa venire i brividi, perché non c’è cosa peggiore che il passare le notti insonni, ma per Giussani, che conobbe questa esperienza dolorosa, non c’era nulla che potesse ostacolare il suo rapporto intimo con Gesù.

Da dove nasceva quel fascino che incantava chi l’ascoltava – fino al punto che molti lasciavano tutto per seguirlo – se non dal suo appassionato rapporto con Cristo? Non da una dialettica speciale, caratteristica di certi teologi odierni: il suo linguaggio era semplice, ma ogni parola era una risposta al cuore ferito dell’uomo. Solo le persone semplici e cariche di dolore si avvicinavano davvero a Gesù gridando la loro sofferenza, e lui si commuoveva fino al punto di compiere miracoli.

La ragazzina diabetica
Quanto era lontana la posizione di Gesù da quella di un teologo che al dramma vocazionale di una ragazza rispose come solo uno zitellone può fare: «Non perdiamo tempo, perché sarebbe solo dialettica». Cosa avrebbe fatto Gesù? Guardando ciò che Giussani ha fatto con me, credo che l’avrebbe abbracciata come avrebbe abbracciato voi due guardandovi con tenerezza e dicendovi: “Ma questo non solo non vi impedisce di amare Gesù, ma ne è il cammino”. Ciò che di bello e grande esiste fra voi due, cari amici, è questa drammaticità, questa povertà capace di suscitare in voi tante domande che, se prese sul serio con tutto il carico di dolore che contengono, vi permetteranno di scoprire nel tempo il volto di Gesù. Chi non passa attraverso l’esperienza della croce non imparerà mai ad amare e tanto meno a fare compagnia a chi soffre. Per lui Gesù rimane solo un “flatus vocis”.

Come potremmo guardare gli ammalati senza perdere la fede, se il nostro rapporto con Gesù non fosse drammatico come lo è stato il Suo con il Padre nelle ultime ore della Sua vita terrena? Ecco un esempio molto semplice: nel mio ospedale è ricoverata una ragazza affetta da un diabete di tipo 1. Non ha nessuno al mondo, è sola, per questo un sacerdote ci ha supplicato di riceverla anche se non è terminale. Quando l’ho vista, sono rimasto senza parole: deve sottoporsi a dialisi tre volte a settimana, le sono state amputate una gamba e una mano, e le dita della mano rimasta sono necrotiche. Parlando con lei, mi dice di essere felice di stare con noi perché si sente abbracciata e questo le dà la gioia di vivere ogni giorno come un dono del Signore che la chiama a vivere tutto intensamente. Le domande non le mancano, ma sono trampolini che la avvicinano sempre più intensamente a Gesù. Non dimenticate quindi che Gesù è risorto e che la Madonna ascolta il vostro grido. Abbiate un po’ di pazienza.
Don Aldo Trento

Articolo tratto da www.tempi.it per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

Per abbonarsi : Abbonamento con carta di credito – Tempi

Cosa comporta lo status di rifugiato

Le connessioni normative in tema di tutela delle vittime di tratta e dei richiedenti protezione internazionale