Con il farmaco-gender ragazzi infelici

Foto base di Gordon Johnson da Pixabay

«Sarà anche possibile fermare lo sviluppo puberale di un ragazzo, ma lo sviluppo psicologico-cognitivo chi lo blocca? E cosa avremo ottenuto quando di fronte a noi ci sarà un diciottenne, con un apparato sessuale da bambino e una testa da adulto? Qualcuno può immaginare realisticamente che avremo costruito in quel modo una persona serena ed equilibrata? O non finiremo al contrario per aver reso ancora più grave una patologia già difficile da affrontare? ». Grazia Aloi, psicologa e psicanalista di lungo corso, da un ventennio impegnata anche sul fronte delicatissimo e complesso della transessualità e della disforia di genere, non si rassegna a considerare la triptorelina come ‘farmaco ordinario’, ammesso e sostenuto anche economicamente dal Servizio sanitario nazionale, per trattare i disturbi della differenziazione sessuale. Eppure, dopo l’approvazione del Comitato scientifico, la ‘liberalizzazione’ del farmaco è purtroppo un’ipotesi molto concreta.

Si tratta di un passo avanti nell’affrontare queste situazioni o c’è un elemento di confusione, anche se non c’è una vera preoccupazione per la sorte di questi ragazzi già profondamente disturbati dal loro irregolare sviluppo sessuale? Non ha dubbi l’esperto che lavora nel reparto di Disturbi dell’Identità di Genere dell’Ospedale Niguarda di Milano, diretto da Maurizio Bini. E lo sottolinea per ragioni semplici ma molto chiare. Innanzitutto, i diversi tipi di disturbo dell’identità di genere non vanno confusi con la sindrome del “sesso incerto”, che è un’anomalia dello sviluppo degli organi riproduttivi durante l’infanzia, che colpisce circa 1 neonato su 5.000. In casi come questo, l’intervento chirurgico è quasi sempre consigliato dopo aver effettuato tutti gli esami necessari. La disforia di genere, che colpisce 1 bambino su 9.000, è più difficile da identificare in quanto si tratta di un’asimmetria tra sesso biologico e “sesso interno”. I pazienti dicono di sentirsi intrappolati nel corpo del genere con cui sono nati. Essendo una condizione psicologica e spesso psichiatrica, è destinata ad avere un effetto profondo sul senso di equilibrio di una persona. Ma come è possibile confermare questa condizione?

O spontaneamente o dopo l’accompagnamento psicologico. E nessun medico potrà mai ‘indovinare’ l’evoluzione di una determinata situazione perché all’inizio i ‘segnali’ di malessere sono quasi sempre identici. «Sono tutti quei casi di ragazzi o di ragazze che vorrebbero un corpo di sesso diverso perché si sentono esteticamente inadeguati – ragazze troppo mascoline o ragazzi effeminati – oppure perché sfogano in questo modo un disagio o un disturbo legato a relazioni difficili con gli amici o con i familiari». Basti pensare ai casi di bullismo o di ragazzi che hanno inconsciamente memorizzato la predilezione di un genitore per un fratello o una sorella. E reagiscono cercando di prendere le distanze da quel modello. La casistica è infinita. «Evidentemente ci troviamo di fronte a situazioni di immaturità psicoeffettiva.

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Non piacersi non significa non accettarsi. Forse all’origine c’è una depressione non riconosciuta oppure un altro disturbo psicologico». Sempre più frequenti anche le situazioni in cui la cosiddetta ‘tendenza sociale’ della famiglia finisce per aver un peso considerevole, quasi sempre negativo. Lo schema, semplificando al massimo. è questo: «Mio figlio gioca con le bambole? Orrore, andiamo dallo psicologo così potrà guarirlo».

Oppure, al contrario: «Evviva, andiamo dallo specialista per programmare il cambio di sesso». In entrambi i casi, derive estreme ma purtroppo realistiche, della diffusione delle cosiddette ideologie gender. Adeguarvisi o prendere le distanze in modo estremo, finisce per causare guai spesso altrettanto devastanti. «Talvolta capita che arrivino in ambulatorio ragazzini di 12-13 anni con tanto di ricetta del medico di base che prescrive un ciclo di triptorelina. Segno che – osserva ancora la psicanalista – sono tanti i medici ad ignorare la complessità e la delicatezza del problema. Naturalmente rifiutiamo e, allo stesso tempo, avviamo tutti gli accertamenti psicologici del caso».

Evidente comunque che il farmaco non risolve nulla, anzi nella maggior parte delle situazioni rischia di aggravare una situazione in cui la difficoltà è pari soltanto all’incertezza. «Nell’età puberale – prosegue Grazia Aloi – nessun ragazzo ha la piena consapevolezza della propria identità sessuale. In questa fase congelare la crescita sessuale, vuol dire confondergli le idee in modo gravissimo. Quel ragazzo o quella ragazza finirà per non sapere più nulla di se stesso».

Ma non si tratta di un farmaco reversibile? «Teoricamente sì, anche se non sappiamo quasi nulla di quello che potrebbe succedere semmai si decidesse di riavviare lo sviluppo sessuale. È proprio il concetto che psicologicamente non sta in piedi. Ma insomma – sbotta l’esperta – com’è possibile immaginare che la sessualità di un ragazzo sia una sorta di elettrodomestico da spegnere o riaccendere a piacimento? In ogni caso avremo una confusione tra età sessuale ed età cognitiva. Come faremo a riallineare i due aspetti? No, corpo e psiche non funzionano così. Ci stiamo avviando lungo una china pericolosissima. Fermiamoci finché siamo in tempo».

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liberamente tratto da vari articoli tra cui Avvenire

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