Cosa succede (successe) in Cambogia?

 NOTA DELL’EDITORE

Questo importante saggio, in cui era già delineato pere intero l’atroce dramma cambogiano (e ne veniva anche con eccezionale perspicacia, individuata la caratteristica di ‘balzo in avanti rispetto all’esperienza cinese e quella sovietica) è apparso – come si può rilevare dalla data – soltanto un anno dopo la presa del potere da parte dei comunisti khmer. Per quel che ci consta, prima di questo saggio a tentar d’informare il pubblico italiano – che ne era totalmente all’oscuro – della tragicissima situazione esistente in Cambogia, era uscito soltanto l’articolo di Pietro Gheddo che qui viene citato; pochi giorni dopo il presente, sarebbe poi uscito, in edizione fuori commercio, anche un saggio dell’ambasciatore Paolo Vita Finzi. Per la limitatezza delle loro tirature, i tre saggi non furono neppure avvertiti dalla massa dei lettori: perciò, dopo la loro uscita, per altri due anni il dramma cambogiano si è consumato senza che l’opinione pubblica italiana ne avesse il minimo sentore. (Gioverà ricordare che in quegli stessi anni i maggiori giornali e riviste, e la televisione, si adoperavano invece quasi quotidianamente per attirare l’attenzione generale sui fatti del Cile.)

Vorremmo richiamare l’attenzione sullo strazio che sta vivendo in questi mesi il popolo della Cambogia, almeno stando alle frammentarie notizie che riescono a filtrare attraverso i confini rigorosamente sigillati del paese: ancor più sigillati di quanto lo fossero quelli della Russia al tempo di Stalin.

È noto che la piccola Cambogia (da sette, a sette milioni e mezzo di abitanti) è entrata nell’orbita comunista quasi per caso, in seguito agli sviluppi del colpo di stato del nazionalista Lon Nol nel 1970: colpo di stato favorito e forse addirittura promosso dagli americani, nel vano tentativo di bloccare l’afflusso incessante di uomini e mezzi che dal Viet Nam del Nord scendevano, attraverso il territorio cambogiano, ad alimentare la guerra nel Viet Nam del Sud. È pure noto che i comunisti cambogiani (Khmer rossi) sono esclusivamente filocinesi, avendo la Russia – in polemica con la Cina – non solo riconosciuto il regime di Lon Nol, ma mantenuta la propria ambasciata presso di lui fino all’ultimo.

Le notizie di ciò che sta accadendo nel paese dopo la presa del potere da parte dei comunisti il 17 aprile 1975,si hanno attraverso tre fonti principali: gli stranieri espulsi nelle prime settimane da quella data; i profughi, che in piccoli gruppi seguitano incessantemente ad affluire in Thailandia (e perfino nel Viet Nam comunista); infine la radio che nelle mani del nuovo governo effettua solo tre brevi trasmissioni giornaliere, consistenti sopratutto in parole d’ordine rivoluzionarie e riassunti trionfalistici dei successi conseguiti; dai quali tuttavia è possibile ricavare qualche dato concreto.

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La radio viene seguita giorno per giorno da pochi specialisti che conoscono il cambogiano, tra cui FranVois Ponchaud il quale – espulso a suo tempo dal paese – si tiene ora in contatto anche coi profughi, e pubblica ogni tanto dei resoconti aggiornati su due giornali francesi (La Croix, e sopratutto Le Monde, autorevole foglio da sempre sostenitore dei rivoluzionari cambogiani, ma che da un certo tempo in qua sembra essersi ricreduto). Noi ci avvarremo, in questi nostri appunti, di quei resoconti, nonché – indicandone via via le fonti – delle notizie date dagli espulsi e dai profughi ad altri organi di stampa (specie francesi e thailandesi); ulteriori informazioni il lettore potrà ricavarle dalla panoramica magistrale apparsa due mesi fa nel numero di febbraio della rivista Mondo e missione, a firma del direttore Pietro Gheddo, che è uno dei migliori conoscitori occidentali delle cose indocinesi. Facciamo presente che si tratta sempre di resoconti frammentari: molto più frammentari di quelli che giungono ad esempio dal pur isolato Viet Nam, nel quale è presente, se non altro, qualche giornalista comunista; mentre in Cambogia, dalla fine della guerra, nessun giornalista ha mai potuto mettere piede.

I massacri dei Khmer rossi

Cominciamo col ricostruire, per quanto è possibile, i massacri che hanno avuto inizio non appena la resistenza dei soldati governativi è cessata nell’aprile 1975, avvertendo subito che tali massacri, per terrificanti che siano, non sembrano costituire l’aspetto più tragico della situazione. Ha riferito Ponchaud dopo la propria estromissione dal paese (fonte La Croix del 24 ottobre 1975) che “a Pailin, 80 Km ad Est di Battambang, i Khmer rossi… il 23 aprile 1975 hanno convocato gli ufficiali e sottufficiali dicendo loro che avevano bisogno della loro collaborazione per l’opera di sminamento. Felici, i militari tornano a casa annunziando la buona novella della magnanimità del partito che si degna di arruolarli nei propri ranghi. Lo stesso giorno partono in camion per una destinazione sconosciuta. Il 24 e il 25 i Khmer rossi chiamano i soldati e partono essi pure per una destinazione sconosciuta. Il 27 deportano la popolazione verso la foresta. Lasciando la città, la gente vede con orrore i cadaveri degli ufficiali ammucchiati per 10 o 25 ai bordi della strada: erano in tutto 400…” A Battambang altra strage: “Solo tre ufficiali possono scappare (su 350), fra i quali un capitano ferito da cinque pallottole, che ha riportato il fatto…” Ponchaud riferisce poi che al suo passaggio dalla capitale Phnom Penh non ha visto massacri di ufficiali, ha però raccolto voci di “esecuzioni massicce di soldati a centinaia e a migliaia alla fattoria khmero-giapponese di Mongkolborey…” Presso Sisophon con gli uomini sarebbero state fucilate le donne e i bambini (i militari usavano tenere con sé le famiglie). Prosegue: “In giugno si cita il caso degli 8 aviatori rifugiati in Thailandia, che avevano chiesto di tornare in patria: sono stati quasi tutti uccisi appena passata la frontiera. Si parla di un caso analogo con due o trecento rifugiati in Thailandia…” Varie notizie di massacri provengono anche da altre fonti; così il Bangkok Post le sintetizzava il 24 agosto 1975: “I profughi raccontano invariabilmente dì esecuzioni di ex soldati o ufficiali dell’esercito filo-americano di Lon Nol, e di uccisioni parte dei Khmer rossi di gente che tenta di fuggire: uomini, donne e bambini”. Interrogati dal giornale, i concordavano nel dire che, passato un certo tempo, i Khmer rossi avevano cercato di sapere chi soldato di Lon Nol, chi aveva fatto parte dell’amministrazione civile, chi era istruito, ecc.: “Essi radunavano la popolazione e chiedevano alla gente di dire chi essi erano. Per coloro che avessero detta la verità, era promessa l’impunità… Molti si lasciavano prendere dai bei discorsi e, pochi giorni dopo, sparivano o erano uccisi…”

In un articolo su Le Monde del 17 febbraio, così Ponchaud riassume la situazione: “Un numero impressionante di testimonianze provenienti da ogni parte conferma l’annientamento della quasi totalità dei quadri militari e amministrativi del passato regime, mediante esecuzioni massicce o sparizioni discrete. Sembra che anche una grandissima parte dei militari inferiori dell’armata governativa siano stati fisicamente eliminati. Da un mese o due viene condotta una campagna contro gli ‘ex ricchi’ che si nasconderebbero in mezzo al popolo”. Ciò sembra significare che – in un procedere da incubo – terminata ormai l’eliminazione fisica degli ‘ex detentori del potere’, si sta passando a quella degli ‘ex detentori dell’avere’ nonché, come riferiremo più avanti, degli ‘ex detentori del sapere’.

La grande deportazione

La tragedia maggiore, come si è avvertito, non sta però in questi massacri, bensì nella deportazione dell’intero popolo cambogiano, il quale è stato sradicato dalle sue case, dai suoi villaggi, dalle sue città secondo un piano prestabilito. Il nucleo di gran lunga più numeroso – da un milione e mezzo a due milioni dì persone – era concentrato nella capitale (composto non solo dalla popolazione residente, ma anche dai profughi che vi si erano rifugiati con le famiglie: uomini, donne, bambini). Appena presa la città, i comunisti hanno ordinato l’evacuazione di tutta la popolazione civile, nessuno eccettuato: la cosa si riseppe allora in Occidente, dove molti organi d’informazione, e perfino la reticente televisione italiana, ne hanno parlato, attribuendola al timore di un bombardamento americano. In realtà quello sradicamento faceva semplicemente parte di un piano prestabilito: “Noi abbiamo visto l’interminabile sfilata di queste famiglie che partivano senza méta, obbligate solo ad avanzare, lentamente, verso una direzione obbligatoria…” racconta il testimone oculare mons. André Lesouef, prefetto apostolico di Kampong-Cham (fonte Le Journal de la Paix, Parigi, ottobre 1975). Prosegue: “Una deportazione così massiccia e brutale ha fatto necessariamente vittime a centinaia di migliaia: i vecchi, i malati, i feriti, i bambini più deboli non possono certo essere sopravvissuti in tali condizioni…” Un altro missionario espulso da Phnom Penh scrive su La Croix del 24 ottobre 1975: “Una rifugiata che è andata verso il Viet Nam, ha riferito che sulla strada ‘non si vedevano che dei cadaveri'”.

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Non soltanto la capitale però fu evacuata a forza, ma “secondo le indicazioni che abbiamo potuto raccogliere”, riferisce ancora mons. André Lesouef, “sembra che tutti i cambogiani siano stati costretti a camminare senza méta durante una decina di giorni”.

“Lungo la strada (verso la Thailandia) noi abbiamo potuto constatare che tutte le città, i villaggi, le fattone… erano deserti, tutte le case abbandonate, le porte aperte”. Un altro testimone, il padre Destombes (La Croix del 30 maggio 1975) riferisce: “Le case isolate nelle campagne sono state sistematicamente vuotate e bruciate. Gli abitanti potevano portare con sé tutto quello che erano capaci di portare anche su biciclette e su altri mezzi di traino improvvisati… Abbiamo visto città e villaggi completamente vuoti di abitanti”.

Quale lo scopo di un simile sradicamento? Scrive mons. Lesouef che in capo a dieci giorni di peregrinazione “i viveri portati con sé erano esauriti, i bagagli ridotti al minimo. L’individuo, stanco morto, spogliato di tutto, senza speranza, non può più opporre alcuna resistenza: è pronto a fare il lavoro al quale sarà destinato, per ricevere la scodella di riso che gli è promessa in cambio. Non può più fare un gesto né dire una parola che non sia secondo la linea imposta”. E ancora: “La famiglia, l’individuo che si trova così sulla strada, che non ha più nulla, nemmeno denaro poiché il denaro non ha più alcun valore, nessun oggetto da scambiare, nessun nutrimento, è necessariamente a disposizione del partito, che ne farà cosa vorrà, senza incontrare alcuna resistenza. La persona non è più che una rotella al servizio dell’organizzazione”.

Chi come noi è studioso del fenomeno comunista, sa che nelle pur sommamente tragiche vicende del comunismo d’ambito russo e di quello cinese, non s’era mai visto uno sradicamento comparabile a questo.

Dov’è che i comunisti cambogiani ne hanno preso il modello? Ci sembra di dover rispondere: nella loro stessa esperienza. Scrive infatti il già citato padre Destombes: “Fin dall’inizio della guerra i Khmer rossi deportavano la popolazione quando assumevano il controllo di una regione”. La constatazione dell’incomparabile malleabilità dell’uomo – tanto più dei componenti di una famiglia – una volta privato di tutto ciò che gli occorre per vivere, e privato anche del suo ambiente, è dunque da pensare che sia loro venuta da lì, dall’esperienza direttamente fatta.

Ci si prospetta tuttavia la domanda se oltre agli abitanti delle zone in cui i governativi hanno deposte le armi (nelle quali alla fine della guerra era riunita forse una metà della popolazione cambogiana) siano stati nell’aprile 1975 effettivamente deportati anche gli abitanti delle zone da mesi o da anni in mano comunista (i quali – come s’è detto – erano già stati deportati a suo tempo, più o meno in relazione alle necessità belliche). La domanda rimane per ora senza risposta. Essa, ad ogni modo, procede anche dal fatto che nei resoconti dei profughi si insiste molto nel distinguere tra i ‘vecchi liberati’ e i ‘nuovi liberati’, i quali ultimi però sembrerebbero prigionieri di guerra (ciò senza dubbio in relazione al fatto che la stragrande maggioranza della popolazione, qui come nel Viet Nam, non voleva “essere liberata”, non voleva cioè finire sotto una spietata dittatura di tipo comunista-asiatico: cosa che i Khmer rossi sanno benissimo).

Quali le origini del comunismo cambogiano?

Chi sono questi Khmer rossi? Li descrive in una intervista su La Croix del 30 maggio 1975 il padre Roberto Venet (che ha trascorso 29 anni in Cambogia, e li conosce da prima della fine della guerra): “Anzitutto la gran maggioranza sono dei giovani o ragazze dai 13 ai 15 o 18 anni… I loro capi più maturi sono dei portati nel Viet Nam del Nord o in Cina anni prima, e poi tornati per essere i quadri politici e militari del movimento rivoluzionario”.

I nuovi adepti (inclusi ragazzi dai 10 anni in su) formati attraverso corsi di indottrinamento di durata varia, da uno, due mesi, a otto mesi e un anno .

Pure sui giovanissimi – in particolare su quelli rimasti in seno alle famiglie – sembra basarsi in Cambogia lo spionaggio, indispensabile in ogni società comunista: gli anziani infatti “di giorno come di notte sono spiati da giovanissimi bambini che riportano parole e gesti ai commissari politici…”

Si è conoscenza che, dopo la guerra, a tutti i Khmer rossi, tranne ai capi, è stato d’autorità cambiato il nome: “Questa misura” scrive René Flipo su Le Figaro del 13 ottobre 1975 “ha colpito anche uno dei figli di Sihanouk, che ha perso il proprio nome, e si è visto attribuire quello di compagno Pom”. Si conoscono i nomi di alcuni personaggi principali (Kieu Samphan – Ieng Sary), ma chi siano i veri capi a tutt’oggi lo si ignora: “Nello stato attuale delle nostre informazioni – scrive Ponchaud – è impossibile sapere con esattezza chi comanda a Phnom Penh”.

Fine supremo dei Khmer rossi è di costruire la società nuova del “comunismo contadino istantaneo”, fondata sulla “fede di Mao nella terra come fonte di autosufficienza”. Prima della guerra non c’erano problemi alimentari nel paese, lasciato per buona parte a foresta. Ma adesso questo non basta più, adesso si cerca la potenza: occorre diventare “dominatori della natura” come la radio ripete con insistenza nelle sue brevi trasmissioni; bisogna arrivare a “non contare più sul cielo o sulla natura”; la meta pratica è di “suddividere in riquadri il paese intero con dighe e canali” fino a renderlo simile a un’immensa “scacchiera” per le colture agricole, specie del riso, “senza lasciare terre vuote”; bisogna “lottare per costruire dighe e scavare canali”. “Noi potremo fare due o tre raccolti ogni anno.” “Col riso potremo avere tutto: acciaio, officine, energia, trattori… divise estere.” “Secondo l’antico proverbio si fa la risaia con l’acqua, col riso si fa la guerra.”

Contemporaneamente si vogliono trasformare gli esseri umani. Continua Ponchaud (su Le Monde del 18 febbraio 1976): “Oltre i nemici visibili, bisogna vincere i nemici invisibili, cioè le tendenze imperialistiche del nostro animo”. Una delle consegne più importanti impartite all’autorità locale sembra essere: “Costruire la Cambogia democratica rinnovando tutto su basi nuove. Spazzar via tutto ciò che ricorda la cultura colonialista e imperialista, non solo sul terreno, ma anche nelle persone”. Di fatto, quanto al popolo, se “i profughi riferiscono di riunioni di formazione politica organizzate la notte”, la frequenza delle stesse sembra variare molto da una regione all’altra. “L’insegnamento è discontinuo sopratutto per mancanza di quadri competenti… Rari sono i luoghi in cui i ragazzi vanno a scuola; se ci vanno, è a metà tempo, dopo il lavoro manuale. La vera formazione ideologica si fa dunque mediante il lavoro: le pause sono utilizzate per brevi esortazioni: il comportamento del lavoratore è accuratamente osservato, criticato. Chi non esegue con scrupolo le consegne… è colpito da sanzioni.” La prima consiste nella “privazione di cibo, esposizione al sole, ecc.”, la seconda in un “tirocinio comunitario in luogo disciplinare” (esperienza molto temuta), la terza volta che il lavoratore sbaglia, riceve la “chiamata ‘all’organizzazione superiore’, da cui nessuno ritorna”.

L’alimentazione della massa si mantiene a un livello “più che spartano”, quasi di fame, anche dopo il raccolto di dicembre (che, grazie all’andamento stagionale, fu “eccezionalmente bello” sia secondo la radio che secondo i profughi). Ma “il riso venne immediatamente trasportato in granai custoditi militarmente”. A tal punto è ferrea la disciplina che “si cita il caso di tre contadini del villaggio Ampil-Pram-Deum sventrati per aver colto delle spighe di riso non ancora mietute per nutrirsene” (Ponchaud su Le Monde del 18 febbraio 1976).

La vita della popolazione

Com’è organizzata la popolazione? Anche qui, tra le varie ricostruzioni, la più completa ci viene da Ponchaud, sulla base delle notizie raccolte presso i profughi: “Tutta la popolazione è organizzata come un’armata in guerra. Ogni villaggio è diviso in gruppi di dieci famiglie… con un capo nominato dall’Angkar (autorità). I diversi gruppi formano un villaggio, con un capo di villaggio e parecchi ‘presidenti’: presidente dei giovani, dei ragazzi, degli anziani, dei bambini, tutti nominati dall’Angkar. Più villaggi sono riuniti in cantoni, ove si trovano i ‘quadri’, cioè membri delle forze armate aventi potere di vita e di morte sulla popolazione, e incaricati della direzione dei lavori. lì lavoro è fatto in comune… Questa armata di lavoratori è mobile, e sembra che l’Angkar voglia utilizzare il potenziale umano fino all’estremo limite delle sue forze fisiche”. “Dopo che un cantiere è terminato, che in una risaia è stato effettuato il trapianto, la forza lavorativa viene trasferita, anche prima che le famiglie abbiano avuto il tempo di riunirsi… In molte zone quelli che mietono non sono gli stessi che hanno seminato.”

Il già citato padre Venet, che ha sperimentato personalmente la vita sotto i Khmer rossi, descrive la nuova realtà dal punto di vista dei contadini: “Il lavoro dura dalle sei del mattino alle sei di sera, con l’interruzione di un’ora a mezzogiorno”. (Altri informatori danno orari diversi, sempre tuttavia estenuanti.) “La gente vive nel terrore di essere chiamata durante la notte all’ ‘autorità suprema’, da cui non si torna più. Tutte le sere essi debbono assistere ai raduni politici, alle assemblee d’autocritica, imparare canti e danze rivoluzionarie. Li si costringe a ripetere slogan… Il clima di terrore è tale che interi villaggi tremano sotto il comando di tre o quattro giovani Khmer rossi. Vivono in una paura atroce… Impossibile sfuggire al sistema, perché tutto progressivamente è diventato collettivo: lavoro, nutrimento, divertimento, educazione politica… “

René Flipo dell’agenzia France Presse, su Le Figarodel 13 ottobre 1975 conferma: “L’intera popolazione è organizzata in comitati, i cui dirigenti sono nominati dalle autorità: questi comitati sono responsabili della distribuzione del nutrimento che, in assenza di negozi e di denaro, è basato sui ‘meriti’ dei cittadini”. Specifica: “Ogni circolazione tra le province è proibita anche per i soldati”.

Mancando il denaro, il commercio è stato sostituito ovunque dal baratto; Ponchaud ne dà una esemplificazione minuta, valida per una determinata zona: “1 kg di pesce contro 2 kg di riso – 1 kg di sale contro 3 kg di pesce – 50 kg di porco contro 10 kg di sale o 2 m di tessuto”, ecc.

Circa l’abolizione del denaro, il giornalista Errol de Silva di Ceylon scrive su Le Monde del 2 settembre 1975: “Un capo m’ha detto che se qualcuno viene scoperto con del denaro, viene ucciso… Al campo di Battambang ho visto dei mazzetti da 500 riels bruciati per cucinare il pasto”.

Scarsissime le notizie relative alla libertà o meno di religione (la popolazione è buddista con una minoranza musulmana; il cristianesimo non è quasi presente); si direbbe però che le modalità stesse della nuova vita impediscano qualsiasi pratica religiosa effettiva. Per cominciare, le pagode “che erano il centro culturale e sociale dei villaggi, sono utilizzate come granai per il riso; i recinti esterni del tempio come porcili. Molti profughi sono scandalizzati per il comportamento dei militari che profanano le statue del Budda sospendendovi i loro abiti. Molte di queste statue del resto sono state spezzate: ‘Sono terraglie senza valore che accaparrano posti destinati al lavoro del popolo'”. I bonzi però non sono stati nell’insieme sterminati: “Si esercita invece su di loro una pressione morale mediante slogan diffusi tra il popolo: ‘Quelli che portano la veste color zafferano sono dei parassiti’, sono ‘dei parassiti che mangiano il riso del popolo’. ‘Essi fanno parte della “classe speciale” allo stesso modo delle prostitute e dei soldati (nazionalisti)’. ‘A tenerli in vita non c’è alcuna utilità, a farli scomparire nessuna perdita'”.

“Molti giovani bonzi” continua Ponchaud (Le Monde, 18 febbraio 1975) “hanno abbandonato l’abito… Altri sono stati costretti ad abbandonare l’abito. Sembra tuttavia che alcuni tra gli anziani, con mite, fatalistica ostinazione, insistano nello stare in qualche pagoda, non si capisce bene se adibita a usi profani oppure no. Così nella grande pagoda di Domrey-Sâr dove in settembre ce n’erano duecento, in dicembre ne restavano ancora alcune decine”. (1)

La minoranza musulmana (centocinquantamila persone circa) si è rassegnata meno facilmente agli ostacoli frapposti alla preghiera, all’obbligo di allevare porci (da essa considerati animali immondi) ecc., e nella regione di Kauchmar, in ottobre, si è ribellata: “ribellione repressa brutalmente nel sangue”, riferisce Ponchaud.

Bilancio allucinante

Veniamo al computo finale delle perdite che tutto ciò ha comportato finora. Su Le Monde (18 febbraio 1976) Ponchaud scrive: “La fame, il lavoro senza tregua, l’assenza di medicine… lasciano supporre una perdita di vite umane allucinante. Oltre ai seicentomila morti in 5 anni di guerra (cifra avanzata tanto dagli americani che dal principe Sihanouk), le fonti bene informate ne aggiungono al minimo ottocentomila dopo il 17 aprile 1975”.

Le perdite sembrano continuare oggi sistematiche nei ‘villaggi speciali’ (che si direbbero veri e propri luoghi di eliminazione) in cui sarebbero stati riuniti gli ex ricchi e gli intellettuali delle zone ‘liberate’ nell’aprile 1975. Scrive Ponchaud: “I ricchi del passato regime comprendevano un buon numero di commercianti cinesi, stabilitisi in Cambogia molti anni fa… Parecchi profughi affermano che i residenti cinesi sono stati raggruppati in villaggi speciali in piena foresta, in condizioni di vita durissime, che li portano progressivamente all’annientamento… I quadri Khmer rossi di rango subalterno giustificano una tale misura dicendo ‘Questa terra non è la loro'”. Va qui ricordato che l’altra importante minoranza straniera in Cambogia, composta da vietnamiti, è stata tutta costretta al rimpatrio.

Quanto agli intellettuali, “molti profughi” continua Ponchaud su Le Monde del 27 febbraio 1976 “hanno riferito dal luglio 1975 l’esecuzione d’un gran numero di essi. Recentemente testimonianze concordi provenienti dal Viet Nam e dalla Thailandia, affermano l’esistenza di ‘villaggi d’intellettuali’ in cui professori, maestri di scuola, ecc, sono sottoposti a un lavoro manuale durissimo, perché ‘i Khmer rossi non amano gli intellettuali'”. Ultimamente sono avvenute anche sparizioni di meccanici e autisti del passato regime, che avevano istruito le giovani reclute Khmer rosse: “Una volta istruiti gli allievi, gli insegnanti non servono più…”

A stare alle relazioni, però, più che dal proseguimento dell’eliminazione degli ‘ex detentori del potere, dell’avere, e del sapere’, le perdite umane che oggi tragicamente continuano, sono causate dal modo in cui la popolazione è costretta a lavorare, e da nuovi spostamenti in massa.

Dopo il grande sradicamento nella primavera del 1975 infatti, le deportazioni non sono cessate: esse sono continuate su scala tutt’altro che trascurabile nei mesi successivi e sembra continuino ancora oggi. Scrive Ponchaud (Le Monde del 17 febbraio): “Alla fine d’ottobre, parecchie decine di migliaia di abitanti di Phnom Penh, in un primo tempo deportati a Koh-Tom, a sud della capitale, sono stati trasferiti per via d’acqua e con autocarri verso Pursat (300 Km più a nord)…” “In dicembre si segnalano numerosissimi casi di spostamenti massicci di popolazione nella regione di Battambang, prima o dopo il raccolto… A dire dei rifugiati arrivati’ in Thailandia nel mese di gennaio, questi spostamenti di popolazione hanno causato molte più perdite umane che la grande deportazione dalle città in aprile-maggio 1975; gli individui essendo estenuati, sottoalimentati e in condizioni sanitarie disastrose.”

Ma le perdite in vite umane (ed è ciò che più lascia turbato chi esamina con un minimo d’umanità la situazione) non sembrano interessare in alcun modo i nuovi detentori del potere. Particolarmente indicativa, e tragica, è una consegna impartita in gennaio alle autorità locali di Mongkolborey (non si sa se anche a quelle delle altre province), riportata da Ponchaud (Le Monde, 18 febbraio): “Per costruire la Cambogia nuova, un milione d’uomini è sufficiente. Non ‘si ha più bisogno dei ‘prigionieri di guerra'” cioè – egli spiega – della popolazione deportata nel 1975, “che sono lasciati alla discrezione assoluta dei capi locali”. E commenta: “Affermazione terribile, che si vorrebbe credere esagerata… ma che purtroppo non è affatto inverosimile”.

Focolai di resistenza

Isolati focolai di resistenza esistono oggi qua e là nel paese, tanto è vero che alcune strade non sono percorribili; inoltre, i profughi hanno segnalato che per vendicarsi di attacchi da parte di partigiani anti-comunisti, i Khmer rossi hanno compiuto a principio di gennaio massacri di civili a Sisophon, Phom-Srok e altrove: il che dimostra che una certa resistenza esiste; “nella regione di Kirirom e nella Catena montagnosa dell’Elefante sembra che ci sia un maquis abbastanza importante”.

Il principe Sihanouk, trasferitosi a Pechino dopo il colpo di stato di Lon Nol, e fino a ieri nominalmente capo dello stato cambogiano (dove è tornato in dicembre, per vedersi giubilato nel corrente aprile), aveva compiuto in settembre una prima visita nella sua capitale di cui la Far Eastern Economic Review del 25 ottobre 1975 pubblica un ampio resoconto; da esso emerge, in sintesi, che il principe – praticamente prigioniero, durante la sua visita, dei Khmer rossi – non fu libero di spostarsi a suo piacimento, e rimase così sconvolto da quel che aveva trovato dopo cinque anni di esilio a Pechino, che si chiuse nel suo palazzo a piangere. Sihanouk trovò la capitale vuota di popolo, con l’erba che cresceva nelle strade, negozi saccheggiati, palazzi bruciati, con auto arrugginite ai margini delle strade. I guerriglieri filo Sihanouk, che avevano combattuto fino a pochi mesi prima insieme ai Khmer rossi, erano scomparsi senza lasciare traccia.

Cinquanta cambogiani che da Pechino avevano accompagnato il principe nella sua visita, al ritorno hanno dichiarato che si rifiutavano di andare ad abitare in Cambogia, e sono partiti per Parigi dove hanno chiesto e ottenuto asilo politico. Essi hanno rilasciato alla France Presse“una dichiarazione come membri del Fronte Unito Nazionale della Cambogia FUNK” (in Le Figarodel 14 ottobre 1975), nella quale lamentano pateticamente che i Khmer rossi non hanno mantenuto le loro promesse di libertà di opinione, di associazione, di stampa, di elezioni, di circolazione nel paese, di “inviolabilità della persona, della proprietà, dei beni, del segreto epistolare di tutti i cambogiani”, promesse che i Khmer rossi avevano non solo ripetute molte volte durante la guerra, ma anche solennemente sottoscritte “alla unanimità” il 3 maggio 1970 a Pechino, al congresso del FUNK.

A parziale correzione di quanto sopra, Ponchaud in febbraio avverte che non tutti i guerriglieri filo-Sihanouk si sono lasciati eliminare dai comunisti: alcuni loro reparti, dopo aver ucciso i capi Khmer rossi, si sono impadroniti di una circoscritta zona nel Preah-Vihear-Souor, a est di Phnom Penh, e tuttora la detengono: indossano ancora le vecchie divise cachi. Ma che futuro li aspetta?

Quasi la società auspicata da Marx

Per quanto le notizie – come abbiamo detto al principio, e come avvertono anche gli autori da cui le abbiamo prevalentemente tratte – siano in complesso frammentarie e disorganiche a causa della chiusura rigorosissima delle frontiere del paese, sembra di poter intravedere nel comunismo cambogiano una sorta di ‘balzo in avanti’ rispetto al comunismo cinese e a quello russo. Vogliamo dire che, mentre le società cinese e russa si articolano di fatto (cioè obiettivamente, aldilà delle utopie di partenza) in due ambiti: quello in qualche modo civile, e quello dei deportati (che in Russia nel 1956 erano circa 15 milioni, e in Cina sono oggi intorno a 20 milioni), nella società comunista cambogiana il primo ambito non è presente: essa è cioè, di fatto, una società di tutti deportati.

Lo studioso che – con uno sforzo non da poco – riesca a staccarsi per un momento dall’angoscia per la somma indicibile di sofferenza e sangue che ciò comporta, non può però fare a meno di notare che la società cambogiana è, fra le esistenti, la più vicina alle condizioni della società comunista ideale prevista da Marx: tutto vi è infatti collettivo, tutti vi ricevono un identico stipendio (la scodella di riso che basta al sostentamento), non esiste più il denaro, né la proprietà privata, né la religione, nessuno può più ‘sfruttare’ un altro, e quanto al potere esso è tutto concentrato nelle mani di pochi violenti, irresponsabili e pressoché anonimi, i quali non tanto sembrano esseri umani, quanto piuttosto un’incarnazione della ‘violenza come levatrice della società nuova’. Innegabilmente questo è dunque, fino ad oggi, il punto di concretamento più avanzato delle teorie ateo-progressiste del XIX secolo e di Carlo Marx in particolare.

Sappiamo bene quali sono le obiezioni che i teorici marxisti europei e nostrani ci potrebbero opporre: ma se essi hanno accolto – come hanno accolto, e con entusiasmo – gli apporti di Lenin a Marx per teorizzare la rivoluzione in una società industrialmente arretrata; e se hanno poi allo stesso modo accolto gli apporti di Mao a Lenin per teorizzare la rivoluzione in una società contadina, devono riconoscere che quella dei Khmer rossi non è altro che un’azione del tutto conseguente. D’altra parte senza le originalità teoriche di Lenin, di Mao, e degli sconosciuti dirigenti khmer, il marxismo del fondatore si ridurrebbe oggi a niente altro che “un vecchio libro polveroso”, delle cui previsioni ‘scientifiche’ neppure una si è realizzata nelle società più progredite, in cui appunto avrebbero dovuto realizzarsi. (I più indifesi contro le sperimentazioni disumane – fatte magari in nome dell’umanesimo – sono sempre i più sprovveduti, i più poveri.)

(*) dalla rivista Studi cattolici, aprile 1976.

(1) In realtà lo sterminio di tutti senza eccezione i bonzi fu soltanto questione di tempo. Si veda al riguardo la tragica testimonianza Fine di una comunità di monaci, riportata più oltre.

di Eugenio Corti – da “L’esperimento comunista”, Ares, Milano 1991

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