Prendersi cura di un bambino colpito da una malattia grave può significare non solo aiutare a curare la malattia, ma anche alleviare le sue sofferenze e quelle dei familiari.
Ma qual è la motivazione che dovrebbe essere alla base delle cure palliative? La compassione distoglie dal lottare contro la malattia? Nel focalizzarsi sull’assistenza e sull’attenzione al dolore del malato si rischia di perdere di vista le possibilità offerte dalle ultime frontiere della medicina? L’obiettivo di alleviare la sofferenza significa allo stesso tempo rinunciare alla speranza della guarigione?
Sono queste alcune delle delicate questioni che sono state sollevate durante il Congresso internazionale sulle cure palliative pediatriche, organizzato dalla Fondazione Maruzza, presso l’Università Antonianum di Roma. Tra i numerosi relatori è intervenuta, durante i lavori delle giornate scorse, la dottoressa Ann Goldman, prima pediatra specializzata in cure palliative e fondatrice della squadra Symptom Care Team, nata nel 1986 presso il Great Ormond Street Hospital di Londra e operante nel campo delle malattie oncologiche infantili, attraverso l’offerta di un servizio di supporto a domicilio successivo alla diagnosi. Tra il 1978 e il 1981 solo il 19% dei pazienti terminali morivano a casa, mentre, in seguito alla nascita della Symptom Care Team, è salita al 77% la percentuale di bambini colpiti da male incurabile che muoiono a casa accompagnati dal calore della propria famiglia.
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Dopo aver offerto nel suo discorso una panoramica sulla storia internazionale delle cure palliative pediatriche, la dottoressa Goldman ha risposto per ZENIT alle seguenti domande.
Quali sono i maggiori risultati ottenuti fino ad oggi nell’assistenza pediatrica?
Penso che il risultato migliore sia la vita di cui possono godere i bambini colpiti da gravi malattie, il fatto che finalmente ci si è presi cura della loro sofferenza, che non debbano soffrire eccessivamente del dolore e dei sintomi della malattia e che le loro famiglie vengano sostenute nel portare il peso della malattia.
Quanto influisce una buona comunicazione con i genitori e i bambini e che ruolo hanno libri e storielle che diano ai bambini una prospettiva serena sulla malattia?
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Ci sono abbastanza libri in questo momento, pubblicati in diversi paesi, che raccontano storie di bambini i cui nonni sono morti, di altri bambini con gravi malattie o di bambini che avevano un legame particolare un animale finché poi questo animale è morto. Questo dà il modo e l’opportunità di poter instaurare con i bambini un dialogo su argomenti così delicati.
Vi sono ancora numerosi pregiudizi riguardo alle cure palliative? Che cosa comportano queste cure in realtà?
Occorre una visione più ampia con la quale porsi di fronte alla cura del malato: questa non consiste solo nel alleviare il dolore, il vomito, i dolori muscolari o qualsiasi altro sintomo, ma consiste anche nel supporto psicologico, sociale, nella cura spirituale, nel trattare i pazienti in tutta la loro interezza di persone.
Come è possibile integrare le cure palliative utilizzandole non solo in funzione del momento terminale della vita del paziente ma anche nelle malattie gravi croniche?
Noi formiamo una squadra di persone che conoscono le cure palliative e che conoscono il bambino e la famiglia fin dal momento in cui la malattia ha inizio: in questo modo i medici possono offrire il loro supporto in tutto l’arco di sviluppo della malattia, nei momenti più facili e nei momenti più dolorosi.
Le cure palliative rivestono un ruolo importante nella prevenzione della richiesta eutanasica da parte dei pazienti?
È una domanda molto difficile, ed è proprio ciò di cui si preoccupano molte persone. Alcuni, quando sono adulti e vedono quanto sta accadendo nella loro vita, a volte vorrebbero avere la scelta su quando morire, ma questo non vale altrettanto per i bambini. Penso che nel momento in cui ci si prende cura dei bambini con amore e nel miglior modo possibile, questo riduce il numero di persone che richiedono o vogliono l’eutanasia.
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Di Maria Gabriella Filippi