
Don Thierry Becker, prete di origine francese, da oltre 40 anni in Algeria (ora è vicario di mons. Henry Teissier, vescovo di Algeri), era tra gli ospiti del monastero trappista di Tibhirine la notte del 26-27 marzo quando un gruppo di fondamentalisti islamici rapì sette monaci di Notre Dame de l’Atlas. Amico della comunità e testimone diretto degli eventi, don Thierry ha rievocato il rapimento e martirio dei sette trappisti in questi giorni a Milano, dove ha guidato una serata di preghiera e meditazione in Duomo, nel corso della quale sono stati letti brani del celebre testamento spirituale di uno di loro, fr. Christian, amico di infanzia di don Thierry (entrambi erano boy scout e avevano studiato per alcuni anni insieme).
Mondo e Missione lo ha incontrato per avere una testimonianza diretta su quella vicenda e il senso che rappresenta per la Chiesa algerina.
«Conoscevo Christian da tanto tempo, ma – attacca don Thierry – posso dire di non averlo capito mai del tutto finché non ho letto il suo testamento spirituale. Ne cito solo qualche passaggio: “La mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: ‘Dica adesso quel che ne pensa!’. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze”. Ecco, in queste parole c’è tutto il senso dell’esperienza di Christian e degli altri monaci».
«Christian non voleva finire ucciso, non bramava il martirio per rispetto al popolo algerino, per evitare che su tutti i musulmani cadesse la condanna della violenza», aggiunge. «E in effetti l’uccisione dei monaci – persone che avevano un rapporto cordialissimo con la popolazione, che avevano intessuto un clima di amicizia con i musulmani del posto – è stata uno shock per l’Algeria.
Un giornale all’epoca scrisse: sarebbe stato meglio che i monaci se ne fossero andati prima, così avremmo evitato una vergogna simile».
E oggi? «La quasi totalità del popolo ha dimenticato quella vicenda, perché negli anni centinaia e centinaia di omicidi si sono susseguiti. In più recentemente è stata varata una legge che vieta di ricordare con enfasi quella che viene chiamata la “tragedia nazionale” (ovvero i 12 anni di violenza dell’estremismo islamico che ha insanguinato il Paese – ndr). Ma la memoria dei monaci martiri rimane in chi li ha conosciuti. Pensate che il monastero, a dieci anni di distanza, è intatto: nulla è stato toccato, nemmeno un chiodo! Forse – continua con una punta di rammarico don Becker – non ci sarà possibile fare un gesto pubblico in occasione dell’anniversario dell’uccisione (30 maggio), forse anche la visita al monastero sarà vietata. Vedremo. Ma quel che conta è che la memoria dei monaci è viva».
Don Thierry ha ricordato anche l’inizio della vocazione monastica in Algeria di Christian. «L’impatto con l’Algeria e l’islam risale al periodo di servizio militare quando Christian, allora sui 23-24 anni, già seminarista, andò in Algeria. Lì conobbe un musulmano, un uomo di preghiera e profonda spiritualità con cui intrecciò un rapporto di amicizia e intenso scambio spirituale. Fu quest’uomo, Mohammed, a «garantire» per lui quando un giorno estremisti musulmani si presentarono alla sua casa, insospettiti dalla presenza del giovane francese. Il giorno dopo Mohammed venne sgozzato e da quel momento Christian decise di dedicare la sua esistenza alla contemplazione, a Dio e all’Algeria».
Gerolamo Fazzini