«Circa alle ore 6.30 furono introdotte le nove persone e tra queste un sacerdote. Erano tutti calmi, consci della fine che li attendeva, parlavano tra di loro sereni, confortandosi a vicenda. Fu facile intuire che le parole di fede del sacerdote erano le più sentite, portando un maggiore conforto ai morituri. Don Pasquino Borghi baciò tutti, a loro impartì la benedizione; uno solo ricusò i conforti religiosi. In ginocchio recitò ad alta voce le ultime preci. Alle 7,18, calmo e sereno moriva». Così un testimone, un ispettore addetto ai servizi cimiteriali di Reggio Emilia, racconta la fucilazione del parroco di Tapignola, piccolo centro della vallata del Secchia, ad opera dei militi della Guardia nazionale repubblicana. Era il 30 gennaio 1944.
Si concludeva così tragicamente, a poco più di quarant’anni, l’intensa vita di don Borghi coinvolto, come altri preti della zona, per la sua attività pastorale in quella stagione carica di contrapposizioni ed anche di odio e di violenza che il nostro Paese visse all’indomani dell’8 settembre. Ordinato sacerdote nel 1930, don Borghi sentì forte il richiamo missionario e per 7 anni operò nel Sudan. Una malattia lo costrinse a tornare in Italia; a questo seguì un periodo di isolamento e di preghiera nella Certosa di Farneta presso Lucca. Ma dopo lo scoppio della guerra, don Borghi chiese la dispensa dai voti monacali per riprendere a lavorare nella sua diocesi. Il vescovo lo mandò come cappellano a Canolo di Correggio e nell’agosto del 1943 divenne parroco di Tapignola.
La situazione politica e militare dell’Italia era profondamente cambiata. Il governo Badoglio si preparava all’armistizio; cresceva la presenza delle truppe tedesche. La Valle del Secchia, come altre zone dell’Emilia, diventò il rifugio e l’asilo dei tanti prigionieri di guerra.
Non poche abitazioni civili e molte canoniche si aprirono per accogliere prigionieri. Non pochi dei prigionieri entrarono nelle prime formazioni partigiane che si andavano costituendo, mentre un’organizzazione che faceva capo tra l’altro a don Domenico Orlandini, parroco di Poiano, frazione di Villa Minozzo, curava il passaggio di questi militari nelle file alleate, attraversando più volte il fronte.
Anche don Borghi fu ospitale nella sua canonica verso i prigionieri. Ermanno Gorrieri, nel suo volume La repubblica di Montefiorino, riporta una dichiarazione del 27 giugno 1945 di don Orlandini nella quale si afferma che i prigionieri passati per la canonica di Tapignano furono circa 50. Don Borghi aveva intanto assunto il nome di battaglia di «Albertario» e probabilmente il suo impegno all’interno del nascente movimento di liberazione era diventato pericoloso. Tanto che alla fine del 1943 Giuseppe Dossetti, uno dei leader del Cln reggiano, e un sacerdote, don Angelo Cocconcelli, gli avevano consigliato prudenza.
Il 21 gennaio 1944 la canonica di don Borghi ospitava una quindicina di resistenti tra russi, inglesi e italiani e ci fu un breve scontro a fuoco senza conseguenze con i carabinieri e i militi della Repubblica sociale. Don Borghi era però a Villa Minozzo per un incontro con le giovani di Azione cattolica. E qui il sacerdote fu arrestato e condotto nel carcere di Reggio Emilia per essere probabilmente processato. Ma il 28 gennaio venne ucciso a Correggio un comandante della Guardia nazionale repubblicana. Immediatamente scattò la rappresaglia e per don Borghi, con altri 8 detenuti, fu decisa la condanna a morte. Senza processo e quasi certamente all’insaputa del vescovo. Il 30 gennaio la fucilazione.
Sul bollettino della diocesi di Reggio il 4 febbraio compariva una lettera del vescovo, Eduardo Brettoni: «Rimarrà tristemente memorando negli anni di questa diocesi il giorno 30 gennaio 1944… Nulla posso e intendo dire quanto alle imputazioni e alla condanna: sono i compiti riservati al giudizio equanime della storia. Ma una cosa sono in dovere di dire apertamente… ed è che la condotta del sacerdote don Pasquino Borghi… non ha patito eccezioni e che per zelo generoso e desiderio di fare del bene senza badare a sacrifici, come anche per integrità di vita sacerdotale, io non ho avuto se non a lodarmi di lui».
Don Borghi aveva fatto fino in fondo il suo dovere di sacerdote. Anche lui, come altri preti della sua diocesi aveva creduto al Vangelo. Non mancando, come avrebbe scritto alla mamma, di perdonare uno dei giovani fascisti che era tra gli esecutori della fucilazione.
Antonio Airò – Avvenire