Educare alla vita nelle associazioni

Viviamo in un contesto sociale che propone visioni antropologiche assai diverse, spesso in conflitto tra loro. E’ questa la vera novità – e il problema – del nostro tempo. Il secolo scorso, pur attraversato dallo scontro ideologico, si è riferito ad una visione antropologica condivisa nei suoi tratti fondamentali: la stagione costituente della nostra Repubblica e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ne portano una traccia indelebile. Ma l’educazione presuppone sempre una concezione dell’uomo, della storia e della cultura. Non vi è educazione se non vi è una proposta e un’antropologia di riferimento. Coloro che negano questa evidenza mentono, e lo fanno consapevolmente. Le visioni antropologiche le possiamo sommariamente riassumere in tre categorie. La prima fa riferimento all’oggettività e alla neutralità (presunta) della scienza che in virtù di questo status dichiara di non aver alcun bisogno di riferirsi ai valori, ovviamente ritenuti attinenti alla sola sfera privata e personale. E’ una visione molto presente nella scuola, più di quanto si creda. Ad esempio sul tema dell’educazione della sessualità: l’approccio, apparentemente neutrale, più comunemente usato è quello “igienista”; si assicurano informazioni sui meccanismi anatomici e fisiologici della funzione sessuale a scopo meramente preventivo per evitare contagi e rischi di gravidanze. E’ una sessualità descrittiva che, a detta di coloro che la propongono, se svolta nella sua correttezza e interezza, dovrebbe aiutare l’adolescente a comprendere come comportarsi nei confronti della propria e altrui sessualità. Si vuole essere neutrali, in realtà si propone una visione che nega la dimensione etica della sessualità umana, ridotta così ad un meccanismo da gestire con giudizio per ottenere un piacere che non ammette limiti. La libertà dell’individuo e il suo “diritto” all’esercizio della sessualità diventano indiscutibili. Qualsiasi limite proposto diviene un ostacolo e una limitazione della libertà personale. La responsabilità verso se stessi, ma soprattutto verso l’altro, è irrilevante. Un’altra visione, forse più minacciosa, è quella che propone la vita e l’uomo come dato meramente sociale e culturale, dunque prodotto delle interazioni e dei cambiamenti del tempo. Ne consegue che non esistono norme morali certe e valide, esse sono mutevoli e legate all’evoluzione dei costumi. E’ un’antropologia che indebolisce le istituzioni educative, induce alla rinuncia di una qualsiasi progettazione educativa e di una proposta esigente e avvincente. E giustifica il disarmo educativo degli adulti! Adulti che fuggono dalla responsabilità incolpando il tempo odierno per loro troppo complesso e mutevole, multiculturale e poliedrico, mobile nei valori e che non sopporta una proposta compiuta. La ricerca senza approdi, perennemente accartocciata sul presente e giustificata da un malinteso rispetto della libertà del giovane, diventa un modello esistenziale accattivante. Questo adulto post-moderno stenta ad elaborare un quadro di riferimento unitario, organico e coerente, non riesce o non vuole leggersi nel ruolo di educatore testimone di valori e stili di vita buoni. E’ un adulto sempre problematico, incapace di dire un sì o un no, esperto del nì, dei se e dei ma. La crisi dell’educazione è davvero la crisi di fiducia nella vita e della possibilità che essa si possa progettare e “prendere in mano”. Qual è infine la visione antropologica a cui facciamo riferimento? E’ quella personalista, che mette al centro la persona unica e irripetibile, libera e capace di orientarsi nella vita; che trova la propria identità nel continuo specchiarsi nel volto dell’altro e che vive l’esistenza in tutte le sue dimensioni: affettiva, spirituale, fisica, intellettiva. Riferirsi alla vita significa porsi la domanda essenziale sul valore e sul senso che essa può assumere; la vita si definisce non solo come ricerca di condizioni di vivibilità ma soprattutto come un’esigenza di significatività. La vita è tutto ciò che diventa coscienza di essere, la vita è la persona e il continuo definirsi tra essa e la realtà che la circonda. È in virtù di questo movimento, che è del cuore e dell’intelligenza, che possiamo affermare che l’esistenza umana si può progettare, che la vita può essere “presa in mano”. Educare è sempre più difficile, ma resta il modo più alto per continuare a generare e dare la vita. Iniziata dal punto di vista biologico ed anagrafico, l’educazione attende di essere portata a pienezza e a verità. Non si tratta di introdurre nuove discipline, nuovi filoni pedagogici, ma di proporre una visione dell’uomo in tutto ciò che si progetta nell’attività quotidiana con i ragazzi. E’ un atteggiamento intenzionale e non casuale, chiede intelligenza, sensibilità e passione. Proviamo ad indicare alcuni punti, certamente non gli unici, che prefigurano un percorso educativo da poter vivere in ambito associativo.

La ricerca del senso
La vita è progettare, è dare un valore ai propri atti e prefiggersi dei fini. Solo nella ricerca costante e nell’assunzione di responsabilità si può dare il gusto dell’impegno e del progetto, senza i quali la vita può sembrare non degna di essere vissuta. La ricerca e l’attitudine a progettare sono entrambi “educabili” se durante l’infanzia e l’adolescenza si offrono esperienze di apertura e di corresponsabilizzazione. Il senso della vita si chiarisce e si definisce aiutando i giovani a percorrerla con coraggio e passione, educandoli a mantenere viva la capacità di stupirsi e di accogliere il mistero che la circonda, dentro un orizzonte dipinto con i colori della giustizia e della verità. Diversamente, la diffidenza verso gli altri si tradurrà in indifferenza, e l‘impegno di vita sarà delimitato solo a ciò che ritorna utile e produttivo. Il primo tratto della ricerca del senso è quello della comprensione del proprio essere al mondo e della conoscenza di tutto ciò che ci circonda. E’ la lenta scoperta che la vita cresce da quel duplice movimento del dare-ricevere, dell’amare e dell’essere amato, dal portare in sé la persona amata e del sentirsi portato dentro la vita della persona amata. Una scoperta che viene resa evidente dalla vita e dalla testimonianza degli educatori, indispensabile e necessaria, oggi più che mai: una proposta educativa regge se si traduce in una esperienza vissuta, e se di essa si dà una testimonianza umile e credibile.

La vita è una realtà da accogliere come dono: dall’autoreferenzialità alla gratuità
Educare alla vita è proporre la dimensione del dono e della gratuità in un contesto sociale, ahimè, che lo ha emarginato e reso irrilevante: si è voluto far credere che tutto è quantificabile e legato a criteri economici. E le conseguenze sono davanti a noi: tanta paura del futuro e una buona dose di cinismo nei comportamenti individuali. Ma l’amore non si compra, neppure il rispetto e l’onestà, o la percezione del bello, o la gioia di vivere. E’ vero che l’uomo si organizza per produrre beni economici, per acquistarli e consumarli, ma è altrettanto vero che la dimensione della reciprocità permea gran parte della sua vita. Chi perde il senso della gratuità finisce col vedere le persone come strumenti per i propri interessi, riducendo anche per sé la possibilità di raggiungere la piena realizzazione. Occorre proporre esperienze che vadano oltre il livello dell’utilità e dello scambio degli equivalenti, mostrando invece la potenza del “reciprocare”. Valorizzare la pedagogia del volontariato come manifestazione di gratuità, mostrare nella concretezza delle attività la preminenza dei sentimenti e dei valori sull’agire economico e sugli oggetti, sono una via da percorrere con determinazione. Non attraverso lezioni teoriche ma nell’agire educativo, nella conduzione del gruppo giovanile: la gioiosità di vita che ciascuno può dare all’altro attraverso i gesti quotidiani – la tenerezza, la cortesia, la disponibilità… – fa toccare con mano, più di tante parole e dimostrazioni, quanto sia più congeniale all’uomo vivere di beni relazionali che di organizzazione produttiva.

Dall’isolamento alla partecipazione e all’accoglienza
La socialità è una componente umana indispensabile per l’evoluzione e la maturazione della persona. Oggi è proposta come un mettersi in relazione con gli altri per accumulare per sé quello che da soli non si riuscirebbe ad avere. Aprirsi agli altri è invece il respiro normale di chi vuole vivere e crescere come persona. Non basta inserirsi in un gruppo giovanile; è necessario portarvi un supplemento d’anima, perchè il senso della vita si svela anche grazie alla partecipazione. Si tratta di educare all’incontro e al dialogo, ad espandere la coscienza della realtà, a farsi implicare dalle situazioni esistenziali delle persone vicine, a vivere positivamente il conflitto e a sopportare anche l’insuccesso. A con-vivere non sotto il segno dell’emotività, della leggerezza e della fluidità dei rapporti, ma sotto la cifra della fedeltà degli impegni presi e dell’accoglienza disenteressata e incondizionata. Della vita tutta, delle vite tutte: soprattutto dei più piccoli, dei più poveri, dei più indifesi.

Scoprire la libertà responsabile
I giovani vanno aiutati a maturare e ad esercitare una libertà ricca di interiorità: libertà creativa orientata ad attuare la propria dignità di persona e a difendere quella altrui. Da una parte, attraverso una sviluppata capacità critica e di discernimento tra ciò che è bene e ciò che male. E dall’altra nel sentirsi responsabili degli altri, condizione indispensabile per costruirsi come persona: dalla condizione infantile – dove tutto è riferito al “me” – e da quella adolescenziale – caratterizzata dal “secondo me” – si deve poter passare alla condizione adulta dell’ “altro da me” per il quale impegnarsi ed assumere precisi impegni. Ci si educa ad essere responsabili: la responsabilità è un atto educabile attraverso l’esperienza, la riflessione, l’attitudine ad esprimere giudizi prudenti. Oggi gli educatori e i genitori la ritengono quasi una attitudine naturale, come se dipendesse dal DNA di ciascuno. Non è così: la libertà responsabile può essere accresciuta nei ragazzi giorno dopo giorno fino a portarla ad una compiuta maturità. Soprattutto va educata la buona libertà: oggi si propone una libertà individualistica e libertaria, che rischia di produrre solitudine, abbandono e nichilismo, fino a teorizzare la libertà di uccidersi e di farsi male. La libertà dell’uomo è per il bene, è per la vita.

Capacità critica: dall’informazione alla conoscenza
I nostri ragazzi vanno abilitati ad assumere atteggiamenti e comportamenti solo dopo una attenta valutazione e dopo aver compreso quale significato e valore hanno per la vita. Oggi è indispensabile fornire la strumentazione che li aiuti a “leggere” la realtà che vivono, per non diventare ripetitori acritici di modelli e comportamenti imposti dall’esterno. L’esperienza dimostra quanto sia diffuso l’atteggiamento di demandare agli altri il compito di pensare e decidere. Se siamo responsabili della nostra vita non possiamo abdicare al preciso compito di giudicare e di compiere le scelte che si ritengono più opportune per lo sviluppo di sé e della società. Educare è addestramento della persona ad assumere la realtà e, all’interno di essa, saper operare un discernimento che aiuta il giudizio e la valutazione di quanto accade.

Educarsi alla fedeltà e alla “fatica”
La vita è il risultato di un lavoro lungo e paziente che suppone la volontà e la costanza dell’impegno: potremmo dire che i risultati ottenuti sono proporzionali allo sforzo sostenuto per raggiungerli. I giovani vivono un tempo in cui il “qui e ora” la fanno da padrone, tutto si consuma velocemente: non c’è più allenamento allo sforzo, per usare un linguaggio sportivo, che permetta ai ragazzi di costruire relazioni solide e stabili. L’amore, la solidarietà, l’onestà, l’attesa paziente sono valori e virtù che rischiano di scomparire dalla vita personale alla prima difficoltà. Questo allenamento alla fatica, alla pazienza, alla perseveranza va proposto nell’attività quotidiana del gruppo giovanile con esperienze concrete e quotidiane che diventino palestra per acquisire, giorno dopo giorno, l’abito virtuoso dell’uomo fedele.

L’amore del proprio corpo e il rispetto di quello altrui
L’uomo è anche il suo corpo, la vita è il corpo. Attorno ad esso, e alla concezione che si ha di esso, si sta giocando una battaglia culturale cruciale. Si propone un corpo – della donna in particolare – sempre efficiente e bello. Se ne deduce che la vita è degna se è di qualità. Il corpo invecchiato, il corpo disabilitato non merita attenzione, il corpo umano in stato vegetativo non è degno di continuare a vivere. E’ la cultura economicistica e mercantile che entra prepotentemente nella dimensione umana e che misura l’umano in base alla sua capacità produttiva. La cultura della dignità che ha animato la stagione delle Carte dei diritti viene dismessa in nome di una autodeterminazione male intesa e di una libertà individuale senza limite alcuno. E’ una frontiera che va presidiata soprattutto tra le giovani generazioni. Va educato il rispetto del proprio corpo, va educata la capacità di resistenza al dolore, va educato il senso del limite che il proprio corpo possiede, va educata la percezione della bellezza di quello che si è. Insomma, va educata la sacralità laica del corpo umano, del proprio e di quello altrui. Non è un’educazione igienistica, ma del corpo come valore, strumento con il quale si comunica e si ama. Il gioco, la festa, la danza, l’espressione artistica, il rispetto dei ritmi vitali, la capacità di autodominio, in età adolescenziale sono strumenti preziosi per educare a comprendere e a rispettare il proprio corpo. In questo capitolo rientra anche il grande tema della sessualità: la sua banalizzazione è tra i principali fattori che stanno all’origine del disprezzo per la vita nascente. Come il corpo, anche la sessualità va compresa in una prospettiva che punta alla maturità globale della persona all’interno di quella antropolgia personalista cui si faceva riferimento nei paragrafi precedenti. Un’antropologia che non sopporta un’umanità ad una sola dimensione.

Essere uomini e donne sotto il segno della reciprocità
Non da ultimo il rapporto uomo-donna, costruito e vissuto sotto il segno della reciprocità. Da un parte abbiamo un contesto sociale disomogeneo e a volte conflittuale, e dall’altra il tentativo, neppure troppo velato, di omogeneizzare le differenze con un’operazione che apparentemente le vuole promuovere. L’omogeneizzazione è promossa con la teoria del gender, quasi ovvia e innocua nei suoi fondamenti, ma che nega la verità naturale dell’essere uomini e donne. Si può essere uomini e donne, ma anche trans, gay o lesbiche, alla pari, sul medesimo piano. Non si tratta di pregiudizio, di omofobia, di non rispetto della dignità delle persone e della loro libertà, ma di affermare di nuovo la verità sulla nostra umanità. La maternità, ad esempio, è una dimensione tutta femminile che non può essere surrogata da una qualsiasi sovrastruttura culturale. L’unica grande e bella differenza nel genere umano è quella maschile e femminile: una differenza generatrice di vita, su cui si fonda la famiglia e il matrimonio; una differenza che genera valori e cultura, una differenza a presidio di tutte le altre. Davvero il maschile e il femminile, nella loro distinta fisionomia e ricchezza, favoriscono la ricomposizione e l’incontro attraverso il quale si ampliano gli orizzonti vitali e si costruisce l’unità personale e sociale. Nel gruppo giovanile questa dimensione va coeducata per ristabilire una nuova alleanza tra ragazzi e ragazze, diversi e uniti nel medesimo destino, capaci di un dialogo fecondo che accetta la differenza che, se riconosciuta, costruisce reciprocità, genera la vita, aiuta il patto matrimoniale e la fedeltà dei “sì per sempre”.

di Edoardo Patriarca (Consigliere CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro); Membro del Consiglio Esecutivo dell’Associazione Scienza & Vita), da “Quaderni di Scienza e Vita n.5”.

La mercificazione e banalizzazione delle relazioni affettive

La famiglia: luogo per la realizzazione della persona, prima via di trasmissione della vita