
Il discorso pronunciato da Giovanni Paolo II davanti ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze (31-10-1992), a suggello del lavori della Commissione istituita nel 1981 per l’approfondimento del «caso Galileo», ha definitivamente chiuso una vertenza che, per tre secoli e mezzo, è stata tra i miti più tenaci della cultura illuministico-borghese nella sua ostilità alla Chiesa.
In queste pagine Juan José Sanguineti, professore di Logica nel pontificio Ateneo Urbaniano e di Filosofia della scienza nell’Università di Navarra, compendia i risultati di recenti suoi studi sulla questione galileiana: descrive il contesto storico-culturale in cui la vicenda maturò, delinea protagonisti e comprimari, chiarisce le posizioni teoretiche in conflitto, non senza segnalare una certa arroganza intellettuale dello scienziato pisano che presumeva di addurre prove e argomentazioni a favore dell’eliocentrismo, in realtà affatto irrilevanti ai fini della dimostrazione. Come osservato da Kuhn e Feyerabend, i teologi romani potevano con piena legittimità opporsi a Galileo, poiché, nel lungo e accidentato passaggio da un paradigma scientifico all’altro, le posizioni galileiane erano assumibili tutt’al più come ipotesi.
L’attenzione del pubblico e degli studiosi al «caso Galileo» è stata ridestata in conseguenza dell’intervento chiarificatore del Papa nell’ottobre del 1992 (1). Ma non è facile ancor oggi un approccio non polemico all’argomento, divenuto per molti simbolo mitico del conflitto tra ragione e fede; «simbolo» — osservò il Papa in quell’occasione — «del preteso rifiuto da parte della Chiesa del progresso scientifico, oppure dell’oscurantismo “dogmatico” opposto alla libera ricerca della verità».
Le parole del Santo Padre furono giudicate da alcuni come una riabilitazione «tardiva» di Galileo. In verità tale riabilitazione era superflua dal momento che si era avuta sin dal 1741, quando la Santa Sede autorizzò la pubblicazione delle opere dello scienziato, come ha sottolineato Coyne, uno dei membri della commissione istituita nel 1981 per lo studio della vicenda Galileo. Per la Chiesa l’intervento papale è stato piuttosto l’occasione per un approfondimento del rapporto tra fede e ragione. Se il riesame del problema comportava i «riconoscimento leale dei torti, da qualunque parte essi venissero», come si era espresso Giovanni Paolo II nel 1979 all’avvio di tale commissione, ora egli concludeva che in fondo si era trattato di una «reciproca incomprensione», osservando successivamente che «le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso malinteso appartiene ormai al passato».
L’indagine storica sul caso Galileo è ardua a causa della sua particolare complessità. Più viene analizzato storiograficamente — e la letteratura in merito non è certo esigua —, più ci si rende conto che la valutazione dei protagonisti (cardinali, chierici, religiosi, Pontefici, amici di Galileo, filosofi aristotelici) rischia di essere affrettata. Cercheremo di illustrare lr vicende con una panoramica selettiva del problema.
Il contesto scientifico & umano
Ricapitoliamo i fatti che sembrano maggiormente rilevanti per una più adeguata comprensione della grande vertenza galileiana. L’attività scientifica di Galileo si svolge prima a Pisa, poi a Padova e Firenze. Non sarà certo la serena attività di un uomo dedito esclusivamente allo studio nel laboratorio o in biblioteca. I tempi non lo consentivano e il difficile carattere di Galileo giocherà un ruolo particolare nella sua biografia scientifica. Essa è contrassegnata da un’accanita competizione e da una violenta polemica antiaristotelica che gli procurerà entusiasti discepoli, ma anche durevoli inimicizie. Galileo è stato un grande polemista, che sapeva scuotere l’opinione pubblica e con la sua abile prosa riusciva a essere pesantemente sarcastico con i suoi avversari. Le critiche ad Aristotele indisposero i professori di Pisa, dov’egli aveva cominciato la carriera scientifica come professore di matematica. Il contratto non gli fu rinnovato nel 1592 ed egli si trasferì all’Università di Padova. Ma anche qui susciterà aspre controversie, per esempio con l’aristotelico Cremonini, successore del grande logico Zabarella.
Siamo in un’epoca di notevole dinamismo scientifico in Italia, dove ancora convivono, non sempre pacificamente, gli intellettuali aristotelici e i pionieri della nuova scienza. Il rinnovo dei contratti, l’insegnamento a Padova è sempre in bilico a causa degli oppositori. Le controversie sono dure. Nel 1604 viene scoperta in Europa una stella nova, non ritenuta tale da Ludovico delle Colombe (1606). contro il quale Galileo polemizza duramente protetto da pseudonimo (2).
La nuova scienza è altresì pratica, tecnica, con conseguenti vantaggi economici che servono a sostenere la ricerca. I primi lavori di Galileo rientrano nell’àmbito dell’ingegneria militare. Le difficoltà economiche non gli mancano, per cui sarà costretto a difendere i suoi diritti d’autore in reali o presunte questioni di prionità intorno a invenzioni e scoperte (ma è pur presente un eccesso di autostima). Nel 1607 denuncerà con virulenza B. Capra, per essersi questi appropriato dell’invenzione galileiana del compasso geometrico-militare (una sorta di regolo calcolatone) e in seguito espulso dall’università. Si discute tuttora sulla priorità di Galileo nell’invenzione del cannocchiale. Sembra che egli si sia ispirato alla lente dell’olandese Zaccaria Janssen, ma è stato comunque il pisano a rivolgerlo al cielo per l’osservazione sistematica degli astri (1609).
Invitato dal duca di Toscana Cosimo de’ Medici, si trasferisce definitivamente a Firenze nel 1610, lasciando così l’attività dell’insegnamento con l’impegno di dedicarsi totalmente alla ricerca. Non poteva certo prevedere le conseguenze che questa scelta avrebbe avuto nella sua vita. Durante le frequenti visite a Roma stabilisce contatti con ecclesiastici e altre personalità, in relazione al suo lavoro scientifico. La diffusione del cannocchiale in Italia inaugura un periodo di grande interesse per l’astronomia. Galileo verrà ricevuto con onore presso il Collegio Romano dei gesuiti (1611), un centro molto attivo nel campo scientifico e astronomico.
Nella cultura europea del Barocco, e tanto meno nello Stato pontificio, non c’era l’attuale separazione tra mondo scientifico laico e ambienti ecclesiastici esclusivamente dediti alle attività pastorali o alle scienze sacre. Nella tradizione medievale e dei primi secoli dell’età moderna era abituale vedere ecclesiastici, religiosi e laici impegnati nel lavoro scientifico; un fatto naturale, se si considera che la scienza moderna affonda le sue radici nelle istituzioni universitarie create dalla Chiesa sin dai secoli XII e XIII. Non è strano, per esempio, che Copernico fosse un sacerdote cattolico che nel 1543 aveva inviato al papa Paolo III la sua opera Le rivoluzioni delle orbite celesti, nella quale esponeva la nuova ipotesi astronomica, senza per altro incontrare difficoltà da parte del Pontefice.
Al tempo di Galileo siamo tuttavia in un momento critico nel lento e sofferto passaggio dalla vecchia alla nuova scienza. Abbiamo sopra accennato alla rivalità tra gli aristotelici e i progressisti. C’erano anche aristotelici aperti alle nuove prospettive, e comunque tutti gli scienziati su posizioni avanzate provenivano dall’aristotelismo. Non poteva essere diversamente, poiché la scienza non nasce dal nulla. Galileo stesso aveva ricevuto una formazione aristotelica, e svolse anche lezioni sulla scienza di Aristotele conservateci nell’opera Juvenilia del 1585, con passi tratti letteralmente dal Clavius e dal Pereira, professori al Collegio Romano. Ma in seguito, insieme a tanti altri, aveva scoperto con entusiasmo Euclide, Eudosso e in particolare Archimede, una fonte greca primaria nell’avviamento della meccanica moderna. Nelle sue opere Galileo ragiona spesso prendendo spunto da Aristotele, certo per criticarlo ma ancora nel suo àmbito concettuale, senza discostarsene del tutto, come avrebbe fatto la fisica moderna una volta consolidatasi.
Copernico & Galileo
Galileo non è principalmente un astronomo, come il suo contemporaneo Keplero, ma un fisico che lavora ancora in modo geometrico, senza formule algebriche. I suoi contributi più validi rientrano nel campo della meccanica, e tra essi spiccano gli studi sull’accelerazione costante dei corpi in caduta libera. Egli si situa in una prospettiva ancora cinematica, senza pervenire alla nozione di forza.
L’invenzione del cannocchiale lo porterà a scoperte astronomiche sconvolgenti: l’osservazione dei rilievi lunari, dei satelliti di Giove (anche qui insorse una contesa sulla precedenza, rivendicata da Simon Marius), delle fasi di Venere, delle macchie solari. Nelle diatribe sulla priorità non mancarono asprezze, in particolare nella controversia tra Galileo e l’astronomo gesuita Scheiner relativa alla scoperta delle macchie solari (avvenuta negli anni 1610-1611). In verità non si può scartare la possibilità di scoperte indipendenti pressoché simultanee.
Galileo pubblicò le sue osservazioni astronomiche nel Sidereus Nuncius (marzo 1610), con grande impatto sui lettori. «Né Copemico né Keplero», osserva Brandmüller, «riuscirono a evocare con le loro opere una tale “esplosione dei sentimenti” da parte del pubblico, quanto il Sidereus Nuncius. Ai nostri giorni il suo effetto si può forse paragonare a quello provocato dall’evento che milioni di persone ebbero nel seguire sullo schermo televisivo l’atterraggio dell’uomo sulla luna» (3).
I nuovi mondi svelati dal cannocchiale dissolsero per sempre l’antica certezza della inalterabilità dei cieli e conferirono maggiore credibilità al copernicanesimo, cui Galileo aderirà senza riserve intorno al 1610.
La teoria copernicana non aveva finora suscitato critiche rilevanti da parte cattolica (ma la questione biblica fu posta già da Lutero, il quale condannò senza mezzi termini l’opera dell’astronomo polacco nel 1539, prima della sua pubblicazione, come farà più tardi Melantone). «Il pazzo vuole sconvolgere l’arte dell’astronomia», diceva Lutero di Copernico il 4 giugno del 1539 «ma, come dimostra la Sacra Scrittura, Giosuè disse al sole di fermarsi e non alla terra» (4). Intanto Diego de Zúñiga insegnava il copernicanesimo a Salamanca con tutta libertà dagli inizi del Seicento. Solo che proprio allora, quando l’ipotesi copernicana cominciava a prendere contorni più reali, emerse più seriamente la questione della sua compatibilità con la Scrittura.
Al tempo di Galileo tre erano le teorie sulla struttura celeste: l’antica teoria tolemaica geocentrica, che in quegli anni andava perdendo rapidamente consenso; la teoria mista di Tycho Brahe, secondo cui il sistema dei pianeti intorno al sole girava a sua volta ingegnosamente intorno alla terra immobile; infine quella di Copernico, antecedente diretta della nostra attuale concezione cosmologica. La teoria di Tycho, di poco successiva a quella copernicana, poteva soddisfare insieme gli scrupoli esegetici e le nuove scoperte, per cui ebbe accoglienza negli ambienti cattolici (ma Galileo non la prese mai in considerazione).
Le osservazioni celesti erano sempre pù a favore del copernicanesimo. Copernico aveva tuttavia formulato un’ipotesi matematica fondata su indizi di natura ottica e sull’argomento della semplicità. Occorrevano spiegazioni fisiche per capire l’effettiva possibilità del movimento dei pianeti intorno al sole e, in particolare, la possibilità dell’incredibile mobilità della terra senza che fosse «percepita», senza che avvenissero sconvolgimenti nella sua struttura fisica, almeno in superficie. Tutto ciò richiedeva ovviamente la conoscenza dell’inerzia e della legge di gravitazione, allora ancora da scoprire. Keplero, e più tardi soprattutto Newton, avrebbero contribuito a completare la teoria copernicana nelle sue esigenze dinamiche (5).
Galileo fu fortemente convinto della verità fisica della teoria copernicana e perseguì nella sua vita l’obiettivo di scoprire una prova fisica, terrestre, del movimento della terra. Crederà di rinvenirla a torto nel flusso e riflusso delle maree, che per Keplero erano giustamente dovute all’azione lunare (spiegazione respinta da Galilei in quanto considerata un ricorso a «misteriosi» influssi astrologici).
Il primo tentativo di Galileo
Così Galileo, più o meno a partire dal 1613, si accinge a dar battaglia in favore del copernicanesimo. È qui che emergono i tratti più tipici della sua figura. Tra il 1613 e il 1616 commise in buona fede l’errore, fatale alla sua causa, di voler difendere il copernicanesimo dagli attacchi che cominciava a subire e a sostenerne con energia la compatibilità con la Scrittura, portando la polemica nella stessa Roma in considerazione del suo prestigio e delle sue amicizie negli ambienti ecclesiastici romani. Non si accorse che l’eccessiva insistenza sugli argomenti fisici (insufficienti) e scritturistici, unita alle critiche anche maligne dei suoi avversari, tra ininterrotti intrighi e polemiche, veniva a gravare troppo sulle autorità, infastidiva i censori ed esponeva la teoria copernicana al rischio di dover essere senza necessità giudicata. Ma è comunque paradossale che la battaglia di Galileo non abbia a che vedere con i suoi grandi contributi scientifici. Nella storia dell’eliocentrismo Galileo ebbe un’importanza secondaria, al contrario di Keplero (cui purtroppo Galileo non diede retta quale fonte informativa e argomentativa). Infatti le osservazioni astronomiche di Galileo favorirono sì il copernicanesimo, senza però dimostrarlo.
Gli eventi innescati dal monito del 1616 sono noti. Lo scienziato benedettino Castelli, discepolo di Galileo, gli scrive da Pisa nel dicembre del 1613 riferendogli una conversazione con il Duca toscano e altri, dopo pranzo, durante la quale la Duchessa aveva manifestato talune perplessità sulla teoria di Copernico in relazione alla Scrittura. Da questo fatto Galileo prese spunto per scrivere le sue stupende lettere al Castelli e a Cristina di Lorena. La lettera alla Duchessa è definita da Giovanni Paolo II nel discorso sopra citato un «piccolo trattato di ermeneutica biblica» (6).
Ma così Galileo si inseriva in questioni scritturistiche. L’altro fatto, ben più serio, fu l’invettiva del domenicano Caccini dal pulpito di Santa Maria Novella contro il copernicanesimo e la successiva azione di questi e del suo confratello Lorini tendente a predisporre il Sant’Uffizio contro la teoria eliocentrica. Questi avvenimenti indussero Galileo a preparare una difesa del copernicanesimo contro una possibile condanna. Egli agisce da buon cristiano, che personalmente non vede alcuna contraddizione tra fede e scienza e tenta di evitare un alto che sarebbe dannoso per la Chiesa.
Cosimo II de’ Medici sconsigliava Galileo dal venire a Roma, e anche i suoi buoni amici ecclesiastici romani lo dissuadevano. Mons. Ciampoli gli scrive il 28 febbraio 1615: «il signor Cardinale Barberini, il quale, come Ella sa per esperienza, ha sempre ammirato il suo valore, mi diceva pure jersera che stimerebbe in queste opinioni maggior cautela il non uscir dalle ragioni di Tolomeo o del Copernico o finalmente che non eccedessero i limiti fisici o matematici, perché il dichiarar le Scritture pretendono i teologi che tocchi a loro, e quando si porti novità, benché per ingegno ammiranda, non ognuno ha il cuore senza passione che voglia prendere le cose come son dette: chi amplifica, chi tramuta […]» (7). Le opinioni di Galileo subiscono cioè trasformazioni, si crea confusione, si comincia a parlare della possibilità che la luna, se è davvero simile alla terra, sia abitata da altri uomini, il che porrebbe la questione della discendenza da Adamo, della redenzione e altri problemi ancora, tutte discussioni in cui si viene a mescolare anche la malignità umana (8).
Con senso della prudenza mons. Dini suggerisce a Galileo, nella lettera del 2 maggio 1615, di non voler irritare le persone «di autorità, pretti peripatetici […] in un punto già guadagnato, cioè che si possa scriver come matematico e per ragione d’ipotesi, come vogliono che abbia fatto Copemico; il che sebbene non si concede da suoi seguaci, basta agli altri che l’effetto medesimo ne risulta, cioè del lasciar scriver liberamente, purché non s’entri, come s’è altre volte detto, in sagrestia» (9). Ancora Dini il 16 maggio: «Ma adesso non è tempo di voler con dimostrazioni disingannare i giudici; ma si bene è tempo di tacere e di fortificarsi con buone e fondate ragioni, si per la Scrittura come per le matematiche ed a suo tempo darle fuora con maggiore soddisfazione» (10).
I consigli non fermarono Galileo, troppo ottimista o forse troppo sicuro di sé. Recandosi a Roma (dicembre del 1615) egli commette una grave imprudenza, se si considera che, ivi giunto, incomincia un andirivieni polemico e apologetico che sarà molto controproducente. Il canonico Querenghi scrive al cardinale d’Este il 30 dicembre 1615: «Abbiamo qui il Galilei che spesso in radunanze d’uomini d’intelletto curioso fa discorsi stupendi intorno all’opinione di Copemico, da lui creduta per vera» (11). E riporta il 20 gennaio 1616: «Del Galileo avrebbe gran gusta V. Sria. Illma. se l’udisse discorrere, come fa, in mezzo di quindici o venti che gli danno assalti crudeli quando in una casa quando in un’altra. Ma egli sta fortificato in maniera che si ride di tutti; e sebbene non persuade la novità della sua opinione, convince almeno di vanità la maggior parte degli argomenti coi quali gli oppugnatori cercano di atterrarlo» (12).
Il resto della storia è ben noto. Nonostante il suo prodigarsi Galileo ricevette nel mese di febbraio un monito del Sant’Uffizio nel quale veniva diffidato dall’insegnare o sostenere la tesi copemicana. Si discute se gli sia stato ingiunto di non sostenerla assolutamente oppure si lasciasse intendere che poteva farlo al modo di un’ipotesi matematica. L’opinione del cardinale Bellarmino, protagonista dell’ammonimento e amico di Galileo, era che per motivi di prudenza la teoria copernicana poteva essere sostenuta solo in via d’ipotesi, non come una realtà fisica ormai dimostrata, e che solo una volta confermata si sarebbe dovuto semmai affrontare il problema esegetico. L’opera di Copernico fu autorizzata con l’aggiunta di poche correzioni, in cui si richiamava l’attenzione sul suo carattere ipotetico. La posizione presa dal Sant’Uffizio può considerarsi moderata dinanzi al vespaio sollevatosi, anche se arrestava di colpo la febbrile attività apologetica di Galileo (13).
Il secondo tentativo
Galileo toma a Firenze e per qualche tempo non si occupa della questione. Purtroppo venne a impigliarsi in un’inutile contesa con l’astronomo Grassi. Questi, insieme ad altri (ma non Galileo), aveva osservato delle comete nel 1618. Grassi, gesuita seguace di Tycho Brahe, sosteneva che le comete erano situate nello spazio siderale. Contro di lui Galileo sferrò un duro attacco (dapprima in uno scritto del discepolo Guiducci che, in realtà, era suo) difendendo l’errata concezione delle comete come fenomeni atmosferici, sebbene ovviamente l’esposizione di Grassi avesse punti deboli. Scrisse infine contro Grassi Il Saggiatore (1623), monumentale opera polemica che contribuì ancora una volta a suscitargli nuove inimicizie a Roma. L’inizio del lavoro, pur dedicato al papa Urbano VIII, denuncia i risentimenti accumulati da Galileo, il quale si lagna di quanti hanno voluto rubargli le sue invenzioni, citando ancora una volta il caso del compasso geometrico o la frode di Simon Marius riguardo ai satelliti di Giove: tutti «hanno cercato di spogliarmi di quella gloria ch’era pur mia, e, dissimulando di aver veduto gli scritti miei, tentarono dopo di me di farsi inventori di meraviglie così stupende» (14). Nel suo attacco a Grassi, propone di intitolarne l’opera Libra astronomica ac philosophica piuttosto «L’astronomico e filosofico scorpione», paragonando il Grassi allo scorpione velenoso che muore ucciso dal suo stesso veleno (15).
Arriviamo così al processo del 1633. Nel 1623 venne elevato al pontificato il cardinale Maffeo Barberini, simpatizzante di Galileo, col nome di Urbano VIII (il quale aveva perfino composto un’ode in latino per celebrare la scoperta galileiana delle macchie solari). Dopo una serie di udienze col Papa nel corso del 1624, Galileo si decide a scrivere un’opera in cui la teoria copernicana sarebbe stata esposta a titolo ipotetico. Il lavoro, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, viene pubblicato nel 1632 a Firenze.
Le circostanze per l’ottenimento dell’imprimatur non furono del tutto chiare. Il censore romano Riccardi, domenicano e favorevole a Galileo, proponeva delle correzioni, al fine di meglio evidenziare il carattere ipotetico della discussione. Gli indugi, dovuti in parte anche alle difficoltà di comunicazioni tra Roma e Firenze a causa della peste, inducono Galileo a stampare il libro a Firenze, con l’assenso ufficioso di Riccardi, ma senza le correzioni (tranne che nella prefazione e alla fine, in modo piuttosto estrinseco). Quando l’opera viene letta a Roma produce pessima impressione, mentre si accende la collera del Papa, che si ritiene ingannato dai sotterfugi di Galileo e dei censori. La scoperta del monito del 1616 (che era stato dimenticato e al quale l’autore non aveva accennato) situa Galileo in una posizione giuridica irreparabile. Processato nel 1633, viene condannato alla prigione a vita, pena benevolmente commutata quasi immediatamente con l’arresto domiciliare nella sua villa ad Arcetri (Galileo non fu mai incarcerato).
Il Dialogo sopra i massimi sistemi era un’indubbia difesa della teoria copernicana, a favore della quale veniva impiegato soprattutto l’argomento (sbagliato) delle maree. Come ogni scienziato, Galileo ragionava per ipotesi, considerando l’eliocentrismo più fondato del geocentrismo, sebbene probabilmente s’accorgesse che non riusciva a dimostrarlo (16). Ma nel Dialogo egli impiega brillanti argomenti retorici allo scopo di persuadere il lettore della superiorità del copemicanesimo (17).
Scientificamente non dimostrava ciò di cui voleva convincere mediante retorica.
Nella residenza ad Arcetri Galileo riceveva visite e continuò a lavorare finché la vista glielo permise, ritornando alla meccanica, campo nel quale meglio si esprimeva il suo genio scientifico. Nel 1638 pubblicò a Leiden (Olanda) i Discorsi intorno a due nuove scienze, opera messa subito in vendita anche a Roma. Dal punto di vista scientifico è il suo capolavoro, dove sono poste le basi della meccanica moderna.
Queste ultime circostanze evidenziano che, nonostante la condanna inflitta a Galileo, le autorità ecclesiastiche non ritornarono sulla questione copernicana, che acquistava sempre più forza. Nel 1741 il Sant’Uffizio consentirà la pubblicazione delle opere galileiane. Indipendentemente dalle prove tangibili che sarebbero arrivate più tardi possiamo dire che la condanna fu inoperante, poiché emerse subito con chiarezza, non appena gli animi si furono calmati, che la Scrittura non era in questione. Senza la tempesta provocata dal caso Galileo, il copernicanesimo si sarebbe forse imposto in maniera più semplice.
In anticipo sui tempi
Si è spesso voluto ravvisare in Galileo il campione dell’indipendenza di pensiero e dell’autonomia della scienza. Bertolt Brecht sembra addirittura rimproverargli di non essere arrivato coerentemente ai martirio. Ma non è possibile giudicare anacronisticamente né Galileo né i suoi avversari. L’epistemologia moderna tende a vedere le cose in maniera più comprensiva. Al tempo di Galileo la scienza non era un’idea platonica, come non lo è ai nostri giorni. La scienza è un’impresa umana imperfetta fatta da uomini imperfetti, da uomini che ragionano ma che al contempo hanno passioni e pregiudizi.
I protagonisti del caso Galileo sono d’altronde uomini di fede che, malgrado i difetti e l’attaccamento alle proprie vanità, argomentano nell’àmbito della fede cristiana e cercano sinceramente di comprendere la realtà alla luce della Rivelazione divina e, insieme, di quell’altra rivelazione che è la natura con le sue leggi. Tutti sono convinti che non c’è contraddizione tra fede e ragione, pur vivendo nel delicato momento di crisi della scienza tradizionale.
La vicenda di Galileo, con tutta la sua drammaticità, non era la lotta della ragione astratta e idealizzata contro l’autoritarismo di una fede oscura (concezione illuministica), ma appartiene alla storia della scienza occidentale nel suo vivo rapporto con la visione del mondo scaturita dalla fede cristiana. Non dimentichiamo che le scoperte dello scienziato pisano avvengono in un contesto eminentemente cristiano: il suo genio come fisico non sarebbe comprensibile al di fuori del grande movimento scientifico delle università europee che risale ai secoli XIII e XIV. Gli storici della scienza sono oggi d’accordo nel riconoscere l’importanza indiretta della Chiesa nella nascita della scienza moderna e nel superamento della visione cosmologica greca. D’altronde non ci sono analoghi esempi di difficoltà tra tribunali ecclesiastici e scienza fisico-matematica o astrofisica. Le teorie di Newton, Faraday, Maxwell, Planck o Einstein non sono state problematiche per la fede cristiana: il caso Galileo è un incidente unico nel suo genere nella storia della Chiesa.
Esegeticamente può sorprendere che i teologi intervenuti nella vicenda trovassero ostacoli al copernicanesimo nella Scrittura. Non bisognava aspettare l’ermeneutica moderna per accorgersi che le espressioni della Bibbia relative a fenomeni fisici si conformano al linguaggio ordinario, così come oggi non riteniamo un seguace di Tolomco chi dice «il sole si alza». Nell’esposizione dei primi capitoli della Genesi san Tommaso ricorre talvolta all’interpretazione allegorica per armonizzare la narrazione biblica con la visione cosmica del suo tempo e, di conseguenza, osserva che «Mosè parlava a un popolo rozzo ed esponeva solo quanto risulta ai sensi» (18). Galileo percepisce con chiarezza questo punto, come si vede nelle sue lettere a Castelli e alla Duchessa Cristina (dove menziona testi di Agostino e di Tommaso).
Non si può peraltro neanche dire che la Sacra Scrittura, presa alla lettera, sia in favore del sistema tolemaico e che quindi occorra interpretarla metaforicamente se se vuol seguire il copernicanesimo, come, per esempio, net caso dei sei giorni della creazione che non vanno assunti letteralmente. La Bibbia segue semplicemente il modo ordinario di parlare (19). I teologi implicati nel caso Galileo non condussero un vero studio della questione. Giudicarono frettolosamente, attribuendo alle sacre Scritture una visione cosmologico-fisica ritenuta definitiva, mentre la fisica matematica non godeva ancora del prestigio universale che avrebbe acquisito solo secoli più tardi.
Ma anche Galileo volle andare troppo in fretta, in quanto gli animi erano troppo infiammati, e non valutò l’imponderabile umano, che nelle circostanze concrete era molto importante. Come abbiamo rilevato in queste pagine, il caso Galileo non si comprende se viene considerato solo nella prospettiva scientifica o teologica. Nella vicenda gli elementi soggettivi, il carattere, la collera, l’invidia e altre passioni ancora, prevalsero troppo sugli elementi oggettivi e razionali.
Il grande merito di Galileo come uomo di scienza, più che nelle sue invenzioni e scoperte, sta nell’aver dato impulso enorme a un nuovo modo di fare scienza, matematico e sperimentale, libero da speculazioni d’ordine qualitativo, e di aver saputo divulgare con efficacia (e, purtroppo, anche con sarcasmo) questa nuova mentalità scientifica. In questo senso egli è in anticipo sui tempi e risulta più modero di Keplero e forse anche di Newton. Senza essere un positivista (semmai la sua filosofia naturale configura una forma di meccanicismo platonico), e senza teorizzare troppo sul suo metodo di lavoro, dimostrò nella pratica la possibilità di un’autonoma scienza sperimentale e quantitativa della natura.
L’autonomia, però, non significa esclusività. L’ecologismo moderno ci dimostra che l’approccio alla natura non può essere unicamente tecnico e quantitativo. Anche per questo motivo il riconoscimento dell’errore dei giudici nel caso Galileo non significa un’esaltazione incondizionata della scienza da parte della Chiesa, quasi che la scienza sia la sede della verità assoluta. Non solo la scienza moderna si riconosce fallibile, ma la sua applicazione indiscriminata alla natura, senza riguardo qualitativo, si è dimostrata un effettivo fallimento. Il problema fondamentale della scienza moderna è senz’altro il suo adeguamento alle esigenze antropologiche ed etiche, il che supera di gran lunga il contesto del caso Galileo. La scienza galileiana, nata come innocente trasformazione tecnica della natura, è oggi di fronte a questa formidabile sfida.
Juan José Sanguineti
(1) Cfr A. Torresani, Caso Galileo, ultimo atto, in «Studi cattolici», n. 382 (dicembre 1992), pp. 809-812.
(2) Cfr S. Drake, Galileo at work, University of Chicago Press, Chicago e Londra 1978, pp. 117-120.
(3) W. Brandmüller, Galilei e la Chiesa, Ed. Vaticana. Roma 1992, pp. 35-36.
(4) Werke, Kritische Gesamtausgabe. Tischenreden I, Weimar 1912,419; Weimar 1916, pp. 412 ss.
(5) Meno decisivamente, Galileo notò comunque che i movimenti interni a un sistema non mutano se il sistema possiede un movimento comune (perfezionato con la teoria inerziale, è questo il principio della «relatività galileiana»).
(6) Della lettera a Benedetto Castelli il Papa ha citato altresì il seguente passo: «Se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori, in vari modi» (21-XII-16l3).
(7) Miscellanea Galileiana, Pontificia Accademia delle Scienze, Roma 1964, P. Paschini, Vita e opere di Galileo, vol. I, p. 323.
(8) Cfr ibid., pp. 323-324.
(9) Ibid., p. 326.
(10) Ibid., p. 327.
(11) Ibid., p. 330.
(12) Ibid., p. 330.
(13) La riunione dei teologi consultori che precedette il monito giudicò eretica la tesi copernicana, incorrendo in un errore imperdonabile, aggravato per di più dalla fretta e dalla mancanza di un vero studio. Ma fu solo un atto interno e consultivo, senza alcun valore universale, non seguito del resto dal Sant’Uffizio. Il copernicanesimo non fu condannato nel 1616. Il monito e la proibizione dei libri furono atti disciplinari, non magisteriali.
(14) Opere di Galileo Galilei, Utet, Torino 19802, a cura di Franz Brunetti, vol. I, p. 608. Galileo potrà aver ragione. ma è anche vero che Keplero si lamentava che egli non riconoscesse facilmente i meriti altrui. Il compasso, per esempio, fu inventato da Galileo, ma in base al perfezionamento di altri strumenti analoghi.
(15) Cfr ibid., p. 617. Non si può escludere che all’accanimento di Galilei contro gli avversari contribuissero talvolta anche gli incitamenti dei suoi fieri e giovani discepoli.
(16) Cfr S. Drake, Reaxamining Galileo’s Dialogue, in AA.VV., Reinterpreting Galileo, ed. W. Wallace Catholic University of America Press, Washington 1986, pp. 155-175; M. Finocchiaro, The Methodological Background to Galileo’s Trial, ibid., pp. 24 1-272.
(17) Cfr J. Dietz Moss, The Rhetoric of Proof in Galileo’s Writings on the Copernican System, in «Reinterpreting Galileo», cit., pp. 179-204. (18) S. Th., 1, q. 68, a. 3; cfr q. 69,a. 2, ad 3: q. 70, a. l. ad 3: In Iob, c. 26.
(19) Cfr F. Soccorsi, Il processo di Galileo, in «Miscellanea Galileiana», cit., vol. III., p. 862.
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di Juan José Sanguineti – «Studi Cattolici» n. 391, anno XXXVII, settembre 1993