Gramsci e i suoi carcerieri

Il tratto originale e costante degli scritti di Antonio Gramsci, comunista che tale volle essere e restare in tutte le drammatiche vicende della sua vita, fu quello della “religione come senso comune e della diffusione del cristianesimo come base di una riforma intellettuale e morale”. Dagli articoli giovanili di orientamento socialista degli anni dal 1916 al ’22 a quelli più corposi contenuti nei “Quaderni del carcere” dal 1929 al ’35, egli andò tessendo una significativa rielaborazione del marxismo come “filosofia della prassi”. Nella particolare situazione storico-culturale italiana ed europea, il “futuro stato operaio dovrà trovare un sistema di equilibrio col cattolicesimo”, egli scrisse. Laico militante, non s’ingegnò di ipotizzare un impossibile compromesso tra religione e politica, un’inconciliabile analogia tra comunismo e fede, ma studiò e riconobbe i valori costruttivi, sociali e ideali del cattolicesimo. Gramsci, al posto delle tradizionali categorie spregiative della critica marxista (“religione come alienazione”, “oppio del popolo”), introdusse i concetti nuovi di “religione popolare come rivoluzione passiva”, “Chiesa come intellettuale”.

Non innalzo a favore del comunista Gramsci un inno ditirambico o agiografico: ne scorgo, infatti, e ne respingo gli errori metodologici e il vizio ideologico. Valuto però la sua diversità tematica dal canone materialista, l’entroterra conoscitivo, il sorprendente spessore della sua qualifica di uomo.

A causa del complesso di queste sue idee e del suo sistema non conformista di pensiero, egli fu infatti un comunista vessato da comunisti, spiato e controllato dal sistema sovietico, perseguitato dai suoi stessi simili, oppresso da una duplice tenaglia annientatrice.

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Essa fu composta da coloro che più avrebbero dovuto e potuto sostenerlo, aiutarlo, incoraggiarlo, appunto i comunisti italiani e invece lo raggirarono. Fu composta altresì dalla moglie Julca Schucht conosciuta a Mosca nel 1922, amata essendone riamato, che antepose alla tenerezza per il marito carcerato la sua ferrea e convinta dipendenza dal Servizio segreto di repressione del partito bolscevico, la G.P.U. Gramsci fu considerato un dissidente infido, pericoloso, temibile, da non rimettere in circolazione perché il suo cervello produceva tesi e pensieri fuori della norma autocratica, cesarista, e perciò ostili al potere staliniano. Le “Lettere del carcere”, pubblicate in 6 volumi nel 1958 e in 11 edizioni, furono lo specchio del dramma.

Gramsci, che a trent’anni era stato nel 1921 uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale moscovita (come allora espressamente si autodefiniva), venne eletto segretario del Partito e deputato nel 1924. Poi, privato dell’immunità parlamentare con legge totalitaria fascista, tu arrestato nel 1926, condannato dal Tribunale del regime a vent’anni, quattro mesi, cinque giorni, confinato e poi detenuto fino al 1937. La sua fu una tragedia feroce, vissuta combattendo su due fronti, contro il fascismo e lo stalinismo. Fu soprattutto il comunismo a ferirlo senza pietà. Non lo uccise con il gulag e la costrizione materiale. Scandì, promosse, alimentò il suo annientamento tisico e morale con la violenza intellettuale e spirituale, con il sospetto e l’intrigo sistematico, con la negazione del diritto di pensare. Gramsci fu la vittima, progressivamente consapevole, costretto a dilaniare se stesso ed a soffrire per l’affetto per la moglie e per i suoi due figli, Delio e Giuliano, e il dubbio confermato che intorno a lui si stava annodando una rete micidiale e oppressiva. In questa contrapposizione, l’uomo Gramsci si mostrò assieme fragile e possente, lucido e turbato, remissivo e irato: in una parola, fu vinto e vittorioso.

L’esplicita rottura, che mai più si risanò, tra Gramsci, rientrato in Italia, e Togliatti a Mosca dove era riuscito ad ascendere sino ai vertici del Komintern, l’internazionale comunista, si ebbe il 14 ottobre 1926. Gramsci, a nome dell’intero Ufficio politico del Partito italiano, scrisse una lettera al Comitato centrale del partito comunista dell’Unione Sovietica nella quale si pronunciò a proposito della lotta che già travagliava la vecchia guardia leninista e bolscevica.

Fu una mossa sincera e fatale.

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Gramsci espresse la preoccupazione che lo scontro in atto danneggiasse l’unità del “nucleo che aveva guidato la Rivoluzione”. Su un punto egli fu ancora più netto: non si schierò dalla parte di Stalin. Di più: lodò gli avversari del despota, Trotzkij, Zinovev, Kamenev che saranno tutti fucilati selvaggiamente nelle grandi “purghe” del regime.

Togliatti affidò la sua immediata risposta ad un corriere diplomatico sovietico per contestare radicalmente e brutalmente gli argomenti di Gramsci. Accusò l’interlocutore di astrattezza. Lo invitò “a tenere i nervi a posto”, gli fece intendere che bisognava prendere posizione a fianco di Stalin. Gramsci replicò irritato, anzi furioso, respinse con energia l’ingiunzione di Togliatti che giudicò “penosissima”, di fatto aprì una separazione strategica e ideologica insanabile che gli costerà l’estromissione anche dal gruppo dirigente italiano e la fisica ostilità da parte degli altri carcerati comunisti.

Il 27 febbraio 1933 Gramsci individuò il pericoloso sistema che stava ormai assediandolo. In una lettera a Tania, la cognata russa che lo visitava assiduamente in carcere ed in tal modo fu assieme soccorritrice e vigilatrice, scrisse duramente: “Chi mi ha condannato è un organismo più vasto di cui il Tribunale fascista non è stato che l’indicazione esterna e materiale che ha compilato l’atto legale dì condanna. Altri sono stati i miei condannatori. Tra questi condannatori c’è mia moglie Julca ed una serie di persone meno inconsce e consapevoli”, ossia tutto l’apparato coercitivo del Partito bolscevico ed i suoi manovratori italiani. Non a caso, Tugliatti nascose e omise questa lettera illuminante sin dalla prima raccolta da lui curata delle “Lettere del carcere”, pubblicata nei 1947 dall’editore Einaudi.

Negli anni ’30, si concretarono le condizioni per uno scambio del prigioniero Gramsci con alcuni prelati incarcerati in Urss. Il Vaticano appoggiò concretamente l’iniziativa impegnando la propria Segreteria di Stato. I dirigenti del Partito comunista italiano, lo scaltro Togliatti in testa, invece ritardarono, ostacolarono, complicarono lo scambio così che questo non fu mai effettuato, nonostante che il Governo fascista non si fosse mai espresso negativamente.

Riacquistata la piena libertà per successive riduzioni di pena e amnistie, Gramsci, uscito dal carcere di Turi di Bari, in degradate condizioni di salute, fu ricoverato nell’agosto del 1935 nella clinica Quisisana di Roma. Vi morì il 27 aprile 1937 e le sue ceneri vennero frettolosamente inumate nel cimitero acattolico degli Inglesi a Roma. Molte circostanze della morte sono ancora problematiche e inspiegabilmente confuse. Così disumanamente si concluse un episodio grande e terribile dell’oppressione comunista su un proprio Capo, su un intellettuale critico che Benedetto Croce considerò, per acutezza e originalità, “uno dei nostri”.

Cronologia:

22 gennaio 1891. Antonio Gramsci nasce ad Ales, in Sardegna. Da piccolo è colpito da una malattia che lo renderà deforme.
1915. Collabora a Il Grido del popolo. Entra nella redazione torinese dell’Avanti.
1917. Gramsci diventa segretario della commissione esecutiva provvisoria della sezione socialista di Torino. Dirige di fatto Il Grido del popolo, che cessa le pubblicazioni nell’ottobre 1918.
1919. Gramsci ed altri (tra cui Tasca, Terracini, Togliatti) danno vita al settimanale L’Ordine Nuovo (maggio) che si schiera per l’adesione del Psi all’internazionale comunista e in favore del movimento dei consigli di fabbrica.
1921. L’Ordine Nuovo, diretto da Gramsci, diventa quotidiano. Gramsci entra nel comitato centrale del neonato Partito comunista d’Italia.
Maggio 1922. Parte per Mosca, delegato dei Partito comunista d’Italia nell’esecutivo dell’internazionale. A settembre viene ricoverato in sanatorio e lì conosce Julca Schucht, che diventerà sua moglie e gli darà due figli.
Febbraio 1924. Esce a Milano, su indicazione dl. Gramsci, il quotidiano l’Unità. Gramsci viene eletto alla Camera dei deputati il 6 aprile e rientra in italia in maggio. Entra nel comitato esecutivo del Partito comunista e viene eletto segretario generale.
Marzo-aprile 1925. Partecipa a Mosca ai lavori dell’esecutivo allargato dell’Internazionale.
Ottobre 1926. Invia a nome dell’Ufficio politico del Partito comunista d’Italia una lettera ai comitato centrale del partito sovietico in cui esprime la preoccupazione che le lotte interne al partito comunista sovietico giungano a liquidarne la funzione dirigente. in novembre viene arrestato dal regime fascista e tradotto a Ustica.
Maggio 1928. Viene processato a Roma. il 4 giugno è condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. In luglio raggiunge il carcere di Turi, a Bari.
Febbraio 1929. Inizia la stesura dei Quaderni.
1932. Non ha esito il progetto di scambio di prigionieri politici, che avrebbe incluso anche Gramsci, tra l’Italia e l’Unione Sovietica. Nel 1934 ottiene la libertà condizionale.
Giugno 1935. Aggravamento delle condizioni di salute. in agosto si trasferisce nella clinica Quisinana di Roma. Lo stato di salute impedisce a Gramsci di lavorare ai Quaderni.
1937. Riacquista la piena libertà, ma muore per emorragia cerebrale il 27 aprile. Le sue ceneri sono inumate al cimitero del Verano a Roma e trasferite dopo la liberazione al cimitero degli Inglesi.

IN UN LIBRO IL DRAMMA DI UN UOMO

Davvero tragica la vicenda umana e politica di Antonio Gramsci: sposato a una donna sovietica che, pur amandolo, lo lascia per seguire le direttive della G.PU., il servizio segreto del Partito comunista sovietico; incarcerato dal regime fascista, ma perseguitato, più che da Mussolini, dai compagni comunisti ispirati da Togliatti, per il suo dissenso da Stalin; insomma sempre più isolato… Su queste vicende Massimo Caprara – oggi senz’altro il massimo esperto, anche per la personale conoscenza dei fatti, della storia del Pci – indaga con delicatezza e grande acume psicologico, illuminando le varie sfaccettature del dramma di Gramsci, fino a farne una vera e propria “storia di un’anima”: dalla quale emerge una conclusione amarissima, con un Gramsci chiuso in se stesso, che vede spegnersi le ragioni stesse della vita: come non può non accadere allorché manca una prospettiva trascendente, e quindi la vita interiore si inaridisce, e l’intelligenza e la sensibilità non bastano più (Paolo De Marchi).
di Massimo Caprara

[Da “il Timone” n. 17, Gennaio/Febbraio 2002]

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