C’è poco da fare, Antonio Socci proprio non ce la fa a dire solo quello che si può dire e a tacere quello che si deve tacere. Insomma a comportarsi con educazione. Lo si capisce al volo dall’incipit del suo ultimo libro sull’aborto, Il genocidio censurato (Piemme), una serie di numeri a dir poco indisponenti. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, per esempio, ogni anno sarebbero praticati 53 milioni di aborti, un numero di vittime grosso modo pari a quelle provocate dalla seconda guerra mondiale. La stessa Oms riconosce che le statistiche sono incomplete (per difetto) dal momento che tralasciano spesso gli aborti chimici per Ru 486. Non c’è dubbio quindi che il conto storico – se si considera che da più di trent’anni l’aborto è stato introdotto nei Paesi democratici e molto prima è stato legalizzato in Unione Sovietica e nella Germania nazista – supera il miliardo. Anche senza contare l’uso di milioni di anticoncezionali potenzialmente abortivi, come pillole del giorno dopo, spirali, ecc.
Numeri stratosferici, che dicono da soli la portata del cambiamento avvenuto nella seconda metà del ’900, quando si è avuto il salto qualitativo dall’aborto come pratica tragica ma marginale, all’aborto come diritto rivendicato politicamente, giustificato filosoficamente e codificato nelle leggi. Numeri che danno anche il senso vertiginoso di un vuoto nell’informazione e nella consapevolezza collettiva: «Alle vittime di questa pratica – scrive Socci – viene negata perfino lo statuto di vittima. Semplicemente non esistono. Non debbono esistere. Nemmeno nelle statistiche. Si fanno i conti delle vittime dei totalitarismi, di coloro che sono morti per Aids e perfino per le conseguenze del fumo, ma sui giornali non leggerete le cifre che abbiamo appena visto. Nemmeno sui volumi che si presentano come storia dell’aborto».
Un’afasìa pressoché assoluta e un’ostilità ad affrontare a viso aperto l’argomento, fino a casi paradossali. Ha fatto scandalo una prima pagina del quotidiano Il Tempo, il 9 dicembre scorso: la bella foto di un feto di dieci mesi, che accompagnava un servizio in cui si documentava come a Roma fosse possibile arrivare all’aborto senza incontrare sostegni concreti o inviti alla riflessione. Sempre l’anno scorso il Movimento per la vita è stato costretto a ritirare manifesti con feti di 15 settimane “ecografati” nell’atto di portare il pollice alla bocca, con sotto la scritta «Mamma ti voglio bene. Non uccidermi» e il numero di Sos Vita. Scrive sempre Socci: «È straordinario che un sistema mediatico come quello occidentale che pretende sempre di mostrare tutto, sempre pronto a insorgere e a strapparsi le vesti per qualunque sospetto di censura, continui da anni ad autoimporsi questa ferrea autocensura e a imporla a chiunque voglia avvalersi del diritto di cronaca».
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Ma la parte forse più maleducata del libro del giornalista senese è l’analisi di quelle verità negate che hanno agevolato l’affermarsi imperturbabile di una cultura abortista. Una soprattutto: la legalizzazione dell’aborto ha tremendamente aumentato il numero delle “interruzioni di gravidanza”, comprese quelle clandestine. «In Inghilterra il numero di aborti clandestini stimato dopo il 1967 – anno di introduzione dell’aborto legale – non è affatto diminuito. Stesso discorso deve farsi per la Svezia e più in generale per i Paesi scandinavi. Documentate statistiche confermano queste conclusioni per la Germania, il Giappone, la Russia, la Romania e per molti altri Paesi». Di più: «Due ricercatori dell’Università di Trento, Erminio Guis e Donatella Cavanna, hanno fatto uno studio sociologico sulla pratica abortiva legale in Italia, Maternità negata, e hanno scoperto che il 32 per cento delle donne che hanno abortito non l’avrebbe fatto se non ci fosse stata la legge 194 a permetterlo. Risultati del tutto analoghi in Francia». Il che significa che la legalizzazione fa aumentare e non diminuire il loro numero di aborti, ovvero che la legge incide in modo significativo sui comportamenti: «solo una costante e totalitaria mistificazione ha potuto rendere così invisibile l’evidenza».
Mistificazione come fu anche il “caso Seveso”, quando qualcuno speculò sulla famosa fuga di diossina, con l’allarmismo e la pressione psicologica sulle donne incinte, a rischio di figli malformati. Di aborti ne furono fatti una quarantina. I feti, mandati in Olanda per essere esaminati, risultarono poi tutti sani. I figli delle madri che rifiutarono di abortire si sono ritrovati a Roma vent’anni dopo, il 22 maggio 1998, e hanno reso testimonianza al Papa della grazia di essere vivi.
Altra mistificazione. Scrive Francesco Agnoli, ripreso da Socci, che nel 1978 il Psi presentò al Senato una proposta per l’introduzione dell’aborto legale, sostenendo che si contavano in Italia tra i 2 e 3 milioni di aborti annui (!) e circa 20 mila donne che morivano a causa di questi interventi. Nel successivo progetto di legge del 1971 il numero saliva a 25 mila. Cifra assurda, come si poteva verificare dando un’occhiata all’Annuario statistico. Nel 1972 le donne decedute in età fertile, dai 15 ai 45 anni, furono 15.116. Di cui 409 morte per gravidanza o parto. Quand’anche fossero tutte morte per aborti clandestini – impossibile – il tristissimo numero sarebbe comunque un sessantesimo di quello che fu denunciato dalla propaganda abortista.
Andrea Galli su “Avvenire”, 13 aprile 2006