Il grande affamatore del XX secolo (Bruto Maria Bruti)

Nel decennio 80-90 quasi tutte le vittime della fame nel mondo si sono concentrate nell’ Africa e precisamente in quei paesi africani che hanno avuto un regime politico comunista o socialista: l’Etiopia, il Madagascar, il Mozambico, l’Angola.

Scrive Jean Francois Revel che nessuno ha il coraggio di dire che il grande affamatore del XX secolo è stato il socialismo (cfr. Jean Francois Revel, La conoscenza inutile, Longanesi ’89, pag. 151).

Le collettivizzazioni sono tristemente famose nella storia per aver provocato una strage di morti per fame: basti pensare alle cifre che nessuno mai ricorda e cioè ai 12 milioni di morti per fame in Ucraina negli anni ’30 ed ai 60 milioni di morti per fame in Cina, tra il ’59 ed il ’62, a causa delle collettivizzazioni agricole (Cfr.; cfr. Jasper Becker, La Rivoluzione della fame, Cina 1958-1962: la carestia segreta, Il Saggiatore, Milano 1998; Luca Pietromarchi, Il mondo sovietico, Bompiani ’63, pag.651, C. e J. Broyelle, Apocalypse Mao, ed. Grasset, Parigi ’80, pag.71, J.F. Revel, La patacca terzomondista, Il Giornale 7-2-85, pag.1,Robert Conquest, Il grande terrore, ed. Mondadori ’70, pag. 43, Il Comunismo realizzato, ed. Fogli ’85, Verona, pag.57).

C’è un dato che deve far riflettere: il 95% dei profughi di tutto il mondo, nel decennio 80-90- proveniva dai paesi social-comunisti.

Fa parte della guerra psicologica degli analisti marxisti utilizzare il procedimento delle parti uguali, cioè non potendo nascondere all’opinione pubblica i mali del comunismo, questi vengono posti sullo stesso piano di altre ingiustizie sociali per renderli a queste equivalenti.

Si tratta di una logica destinata a diminuire la coscienza del pericolo mondiale rappresentato dallo statalismo e dall’abolizione della proprietà privata: infatti il medico che pone sullo stesso piano il cancro con la tubercolosi rende oggettivamente un favore al cancro perché riduce le attenzioni, le difese e la pre-venzione verso ciò che per la salute rappresenta il pericolo maggiore (Cfr. Verenfried van Straaten, L’Eco dell’amore, n.3, aprile 84, Vladimir Volkoff, Il Montaggio, Rizzoli ’83, pag. 95).

Non bisogna dimenticare che i campi di concentramento nei paesi social-comunisti non hanno avuto tanto un significato poliziesco ma un significato primariamente economico. Nell’assenza dell’iniziativa economica personale, l’economia può funzionare solo con il lavoro coatto. Come insegna Giovanni Paolo II, il mancato rispetto della proprietà privata, tanto del datore di lavoro che dell’operaio, produce danni incalcolabili e nel processo economico e nell’uomo stesso (Laborem exercens n.15).

Lenin, con l’istruzione del 23 luglio 1918, istituì i campi di concentramento.

L’esule sovietico Avraham Sifrin aveva pubblicato una guida dettagliata di 2.500 campi di concentramento esistenti ancora nella Russia di Gorbaciov, con 6 milioni di prigionieri: le informazioni della guida furono confermate da 4 fonti indipendenti (una perizia geografica, le fotografie scattate dai satelliti della NASA, una inchiesta condotta dai servizi diplomatici occidentali, l’analisi demografica applicata alle statistiche ufficiali dell’URSS)

(Cfr. Quaderni di cristianità, anno II, n.5, pag. 57-64).

Gorbaciov, nel suo libro sulla perestroika, ammetteva che erano state le ricchezze enormi dell’URSS ad aver permesso un minimo di movimento economico e non il socialismo che era sopravvissuto consumando e distruggendo queste ricchezze.

Egli faceva riferimento al fatto che Lenin sapeva perfettamente che il socialismo incontrava problemi enormi in campo economico per cui, quando la macchina economica si fermava a causa del socialismo, bisognava riaccenderla facendo ricorso alle leggi economiche oggettive, cioè alla iniziativa privata: infatti Lenin con la NEP ( nuova politica economica) fece ricorso più volte alla proprietà privata; appena la macchina economica cominciava a rifunzionare, la proprietà privata veniva di nuovo abolita. La Nep fu messa a punto da Lenin nel X congresso del PCUS, il 27 marzo 1921.
Questa politica economica consisteva nel concedere una temporanea forma di proprietà ai cittadini nel momento in cui il comunismo provocava il collasso dell’economia a causa della morte dell’iniziativa privata. Appena l’economia tornava a funzionare, l’iniziativa privata doveva essere stroncata dal collettivismo.

Lenin aveva riconosciuto ai contadini il possesso di piccoli appezzamenti di terreno e il diritto di venderne liberamente i prodotti.

Superata la crisi, le concessioni venivano annullate: a partire dall’inizio degli anni trenta questa strategia di dare e togliere si era ripetuta ben tre volte e i contadini avevano sempre abboccato (Cfr. Giovanni Cavallotti, Mosca: dalla Nep alla Gep, Il Giornale 18 ottobre 87, pag. 8, Mikhail Gorbaciov, Perestroika, Mondadori ’87, da pag.15 a pag.26).

Dopo 70 anni di comunismo, la situazione socio-economica del mondo sovietico era analoga a quella dei paesi più poveri del terzo mondo che non avevano conosciuto la rivoluzione industriale.

Gorbaciov, nel tentativo di salvare il comunismo, dando vita a una nuova forma di NEP, non aveva potuto nascondere i seguenti dati: i due terzi degli adulti erano alcolizzati e mentre la vita media aumentava in ogni paese del mondo, nel mondo sovietico la vita media, negli ultimi 40 anni, si era abbassata.

Un altro aspetto inquietante era la mortalità infantile che superava di 4 volte tutte le nazioni economicamente sviluppate.

Il livello di criminalità era superiore a quello dei paesi occidentali nonostante che il possesso delle armi da fuoco fosse rigorosamente vietato:
La possibilità di venire assassinati per strada era 5 volte superiore rispetto a quella di un paese europeo.

Chi lavorava doveva essere considerato un -sottoccupato-: quando si mangiava il pane non c’erano sono i soldi per la frutta e la verdura.

La casa in proprietà non esisteva: c’era la coabitazione forzata, 5 metri quadrati a persona, e lo Stato riscuoteva l’affitto. L’agenzia Moskovskie novosti faceva sapere che nella città di Kimry (a cento Km da Mosca) la popolazione era di 61.300 abitanti e le persone senza casa erano 25.000, cioè quasi la metà.

I privilegiati che avevano la casa abitavano in alloggi con il tetto in legno marcito, senza acqua, senza riscaldamento, ammassati in pochi metri quadrati: baracche dove 6 persone vivevano in 16 metri quadrati, i letti non bastavano per tutti e nello stesso armadio c’erano pentole e vestiti.

I negozi erano vuoti e la gente doveva andare a comprare i generi alimentari a Mosca, a 100 Km di distanza. Prima del comunismo, Kimry era la capitale dell’industria calzaturiera.

L’ottanta per cento (80%) degli studenti che riuscivano ad accedere alle scuole superiori erano soltanto i figli della nomenklatura comunista.

Oltre alla miseria della sottoccupazione, esisteva una disoccupazione enorme che non aveva nulla a che vedere con la disoccupazione intellettuale dell’occidente, anche perché l’80% degli intellettuali erano figli dei dirigenti del partito.

Moskovskie novosti ammetteva che la storia ripetuta nei manuali comunisti, secondo cui la disoccupazione scomparve con il primo piano quinquennale, era una menzogna perché la piena occupazione consisteva nella deportazione.

La Pravda scriveva che solo nelle repubbliche dell’Asia centrale e nel Kazakhistan si contavano circa 6 milioni di disoccupati.

Da Moskovskie novosti si veniva a sapere che in Moldavia, su 4 milioni di abitanti, 150.000 persone non avevano né lavoro, né mezzi di sostentamento. In Uzbekistan i disoccupati erano un terzo della forza lavoro.

A Khabarovsk, su 600.000 abitanti, vi erano almeno 10.000 barboni e si trattava di medici, operai, avvocati.

Gorbaciov aveva promesso ai sovietici che, se avessero avuto successo le sue iniziative per realizzare un grande sforzo produttivo, avrebbero avuto nel 2.000, tre paia di scarpe a testa e otto paia di calzini (Cfr. Silos Labini, le classi sociali negli anni ’80, Laterza ’86, pag.93, Avvenire 18-8-88, pag.9, Avvenire 28-8-88, pag.3, Ilya Zemtsov, la vita privata della nomenklatura, reverdito ’86, pag.11,12,73, Il Giornale 26-10-85, pag.4, Il Giornale 20-1-86, pag;4, L’altro femminismo, la casa di matriona ’83, pag.98,106, Juri Teplyakov, Kimry: la città chiede aiuto, Mosca news-Moskovskie Novosti ed. Italiana, anno I, n.2, aprile ’89, pag.23, Gennadij Vedernikov, Vita da barbone, Mosca news- Moskovskie Novosti ed. Italiana, anno I, n.2, aprile ’89, pag.22, Vladimir Gurevic, La disoccupazione c’è, Mosca news-Moskovskie Novosti ed. Italiana, Anno I, n.8, ottobre ’89, pag.6, Aleksandr Bekker, Braccia in vendita, Mosca news- Moskovskie Novosti ed. Italiana, anno I, n.8, ottobre ’89, pag.7, Vladimir Volin, Moldavia ex paradiso terrestre, Mosca news-Moskovskie novosti ed. Italiana, anno I, n.8, pag.7, Alexei Iziumov, Un triste record, Tempi nuovi, ed. Italiana, 24 novembre ’89, pag.55).

Il comunismo, In Russia, non riuscendo a sopravvivere è imploso ma dal punto di vista del potere, i comunisti, dopo essersi riciclati in socialdemocratici, nazionalisti, ecologisti e società finanziarie sono rimasti al potere anche in quelle situazioni dove è avvenuta la privatizzazione. Infatti le uniche oligarchie che hanno potuto comprare i beni statali che sono stati venduti venduti, come Solzenicyn aveva previsto, erano le oligarchie della nomenklatura comunista (Cfr. Aleksandr Solzenicyn, Come ricostruire la nostra Russia, Rizzoli ’90, pag.35-36).

Il grande affamatore del XX secolo è il comunismo: in Africa la quasi totalità dei morti per fame si concentrava – nel decennio 80- 90 – nei paesi che avevano portato avanti i progetti di collettivizzazione.

Nella Etiopia marxista la collettivizzazione forzata delle campagne provocò le più grandi carestie della sua storia.

Per anni il regime comunista etiopico aveva cercato di nascondere le cause della fame con le motivazioni metereologiche ed il mancato aiuto dei paesi capitalisti.

I casi di siccità non costituiscono un problema quando esistono le riserve di cereali ma con dieci anni di riforma agraria collettivista la produzione era stata distrutta.

La maggior parte degli aiuti occidentali era stata utilizzata per l’acquisto delle armi e la collettivizzazione aveva gettato nella fame milioni di persone costringendole ad un esodo di proporzioni bibliche.

Nel 1986 si ebbe verso la Somalia un esodo di 14 milioni di persone costituito dalla etnia degli oromo, in maggior parte coltivatori diretti. Questo esodo fu causato dal processo di collettivizzazione delle campagne voluto dal regime comunista di Menghistu e chiamato col termine di cooperativizzazione.

Tre milioni e mezzo di persone dovettero abbandonare le proprie case e dovettero trasferirsi nella regione dell’Hararghe (scelta per questo esperimento socialista) dove dovevano coabitare in capannoni di fango popolati da più di 200 persone (Cfr. A. Glucksmann e T. Wolton, Silenzio, si uccide, ed. Longanesi ’87, Alastair Matheson, Esodo biblico, Il Giornale 22-6-’86, pag.8).

Abbiamo detto che i casi di siccità non costituiscono un problema quando esistono le riserve dei cereali: l’India è, oggi, un caso tipico che dimostra come le riserve dei prodotti agricoli è in grado di far fronte ai problemi metereologici.

L’India aveva uno stato socialista che controllava tutto: le imprese erano sottoposte ad un regime minuzioso di autorizzazioni e licenze.

Le licenze stabilivano ciò che si può produrre e in quale quantità: la legge proibiva di produrre oltre una certa quantità. Questo regime aveva provocato la corruzione e la penuria generalizzata dei beni di consumo. La burocrazia statale era talmente totalitaria e corrotta che era persino impossibile ottenere la licenza dei risciò: per questo a Calcutta c’erano 30 mila conducenti clandestini di risciò. Dal ’70, grazie alle terre del Punjab, che il governo indiano dette ai Sikh, che hanno una religione fondata sul Dio unico, respingono il sistema delle caste, non credono nella predestinazione e privilegiano l’iniziativa individuale, si ebbe la cosiddetta rivoluzione verde (espressione coniata dalla banca mondiale per indicare il successo agricolo) che i Sikh hanno ottenuto costruendo una civiltà di proprietari agricoli individuali e intraprendenti. La rivoluzione verde ha liberato l’India dalla carestia cronica: grazie a questa sola regione di proprietari del Punjab, l’India dispone oggi di stock di grano equivalenti a quelli del Canada (Cfr. Guy Sorman, La nuova ricchezza delle nazioni ed. Longanesi ’88, pag.64-87, e pag.166-169).

Il Senegal, negli anni 70, si diceva che fosse vittima della siccità e del calo dei prezzi sul mercato mondiale. Ma la verità venne dimostrata dai fatti: dal 1985, da quando il Senegal abbandonò il socialismo agrario grazie alla nuova politica agricola del governo di Abdou Diouf, il prudentissimo successore di Senghor, la siccità passò e la produzione si riprese, le eccedenze rispuntarono dai granai (cfr. Guy Sorman, ibidem, pag.191-192).

In Tanzania il partito della rivoluzione di Julius Nyerere costruì il socialismo Ujamaa, villaggi collettivi costruiti con la forza, costringendo la popolazione dei contadini ad abbandonare le loro capanne e facendo violenza ai nomadi.

Dopo la creazione di questi villaggi collettivi si è avuto in dieci anni un regolare e continuo impoverimento e la produzione agricola continuò a diminuire (Cfr. Guy Sormann, ibidem, pag.88-95).

Il Mozambico un tempo era un paese ricco: si tratta di un paese con 13 milioni di abitanti, grande due volte e mezzo l’Italia, con sbocchi sul mare, terra fertile e sottosuolo ricco. Samora Machel, comunista, leader del fronte di liberazione nazionale, statalizzò l’economia gettando il paese nella fame.

Dal Mozambico i neri cercavano di poter fuggire in Sudafrica (Famiglia cristiana n.44, 5 novembre 86, pag.36).

Per questo Buthelezi, leader degli Zulu, una delle più grandi etnie del Sudafrica, ben consapevole della schiavitù comunista, dichiarava che “L’apartheid era una tirannia, ma sarebbe stato ancora più tragico sostituirla con una tirannia comunista”. La propaganda mondiale social-comunista ha mobilitato per anni l’opinione pubblica per i problemi sudafricani, facendo passare pressoché inosservate le ingiustizie enormi dei socialismi africani. La verità sull’ideologia sudafricana della discriminazione razziale, nata in ambiente calvinista, era stata aumentata in maniera spropositata. Di fatto l’apartheid restava soltanto nel settore delle abitazioni e delle scuole.

Il pilastro centrale della discriminazione razziale, cioè il divieto dei matrimoni misti, era stato abolito già nel 1985.

Storicamente, in Sudafrica, le varie etnie nere giunsero e si stabilirono nel territorio solo dopo che i bianchi ebbero creata la nazione: l’insediamento dei bianchi nel territorio sudafricano aveva preceduto quello delle tribù nere le quali, tuttavia, godevano di autonomia politica all’interno dei loro cantoni.

Tuttavia in Sudafrica il tenore di vita dei neri era 4 volte superiore a quello degli abitanti degli altri stati africani e nonostante l’esistenza di 8 popolazioni nere, insieme alle etnie degli indiani, dei meticci e dei boeri, non esisteva né la fame né il fenomeno dei profughi (Mario Cervi, il sogno anti-apartheid di Buthelezi, Il giornale, 16 dicembre ’86, pag.3, Massimo Introvigne, rapporto sul Sudafrica, Cristianità, ottobre ’85, n.126, pag.5-8, E’tudes, ottobre 87, Paris).

La guerra psicologica social-comunista, aveva fatto dimenticare che il vero stato razzista dell’Africa era lo stato del Burundi dove l’etnia nera al potere sterminava sistematicamente l’etnia nera degli Hutu ma nessuno ne parlava perché il gruppo razziale al potere si ispirava al socialismo di Mitterand e perseguitava anche la Chiesa nonostante che la maggioranza della popolazione fosse cattolica ( circa il 70 %): il Burundi era l’unica nazione africana a maggioranza cattolica ma il governo socialista e razzista, il cui leader Bagaza aveva studiato in Belgio, aveva abolito gli ordini religiosi, chiuso le chiese e vietato il culto.

Altri regimi razzisti di cui non si parlava erano quelli comunisti dell’Angola e dell’Etiopia: in Angola l’etnia degli ovimbundu veniva esclusa dalla vita politica e così gli eritrei che dovevano essere subordinati agli amhara etiopici
(Walter Gatti, Missionario vattene. Il diavolo in Burundi, Il Sabato anno X, 14 febbraio ’87, pag.9-10, Paolo Biondi, Si chiama Bagaza il nuovo Nerone, Il Sabato anno X, 23 maggio 87, pag.9, Jean Francois Revel, La conoscenza inutile, longanesi’88, pag.90-93).

(Bruto Maria Bruti)

Bruto Maria Bruti
LA NOSTRA SESSUALITÀ
Felicità, desiderio e piacere nell’essere umano

pp. 168 – € 15,50
ISBN 978-88-7198-593-0

Questo libro è un sollievo. Il professor Bruti ci parla di cose belle, grandi, importanti. Ci parla di amore, di un progetto personale che si compie nell’unione con l’altro, del desiderio di potersi abbandonare nel completo godimento di un eterno abbraccio. È un sollievo, dicevo, leggere di noi stessi, della nostra sessualità e della persona che amiamo in questi termini. Dopo anni in cui gli «esperti» hanno tentato di convincerci che la gioia è «nient’altro che» un «orgasmo», che la persona amata è «nient’altro che» un «oggetto sessuale», che il sesso è «nient’altro che» un «meccanismo relativamente semplice che provvede alla reazione erotica quando gli stimoli fisici e psichici sono sufficienti», finalmente qualcuno ci dice che in realtà dell’altro ci sarebbe: il nostro desiderio di sentirci amati in modo unico, esclusivo, incondizionato, per sempre (dalla Presentazione di Roberto Marchesini).

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