Il paziente in “Stato vegetativo”: un caso di manipolazione del linguaggio

Foto di Ryan McGuire da Pixabay

Nelle questioni bioetiche relative alla fase “terminale” della vita si celano numerosi fraintendimenti e ambiguità, già percepibili ad una superficiale ricognizione linguistica. La stessa parola appena usata, “terminale”, si presta ad interpretazioni affatto differenti, e configura posizioni etiche contrastanti. Espressioni come “morte cerebrale”, “eutanasia passiva”, “diritto di morire degnamente”, “accanimento terapeutico”, “futilità medica” sono usate con scarsa accuratezza, talora in modo strumentale, per proporre una determinata visione del mondo e della persona.

Di recente l’attenzione della medicina e dell’opinione pubblica è tornata a focalizzarsi sul concetto di “stato vegetativo persistente” (SVP). Ne avevamo sentito parlare anni fa, negli Stati Uniti, quando i casi di pazienti come Karen Ann Quinlan (SVP nel 1975, morta nel 1985) e Nancy Cruzan (SVP nel 1983, morta nel 1990) avevano acceso il dibattito oltreoceano sull’eutanasia e sui testamenti di vita.

Ne abbiamo sentito parlare in Italia a proposito del caso Eluana Englaro, la ragazza che da oltre dodici anni (18 gennaio 1992) si trova in SVP. Ora se ne parla soprattutto sulla scia del caso di Terri Schiavo, la donna trentanovenne della Florida che si trova in presunto stato vegetativo da quattordici anni: per lei una sentenza aveva decretato nel settembre 2003 la sospensione dell’alimentazione artificiale, divenuta esecutiva il 15 ottobre, tuttavia, per diretto intervento del governatore dello stato Jeb Bush, la nutrizione è stata ripristinata grazie alla Terri’s law (cfr. http://terrisfight.org/ ), in vigore dallo scorso 21 ottobre 2003.

SOSTIENI GLI AMICI DI LAZZARO E QUESTO SITO.
Abbiamo davvero bisogno di te!
IBAN (BancoPosta intestato ad Amici di Lazzaro)
IT98P 07601 01000 0000 27608 157
PAYPAL Clicca qui (PayPal)
SATISPAY Clicca qui (Satispay)

Si è reso quindi urgente perfezionare la definizione di questo “stato”, prima di tutto attraverso una precisa diagnosi clinica e poi chiarendone gli aspetti antropologici ed etici. La Federazione Mondiale delle Associazioni dei Medici Cattolici e la Pontificia Accademia per la Vita hanno presentato a questo proposito un documento congiunto (http://www.vegetativestate.org/documento_FIAMCITA.htm) al termine dei lavori del Congresso Internazionale su “Life-Sustaining Treatments and Vegetative State: Scientific Advances and Ethical Dilemmas” (Roma, 17-20 marzo 2004), che recepisce gli studi sul tema più accreditati degli ultimi anni.

In sintesi, si può dire che lo “stato vegetativo” si caratterizza dal punto di vista clinico come una condizione di compromissione (talora parziale) della corteccia cerebrale, che presenta le seguenti manifestazioni: nessuna evidenza di autocoscienza o consapevolezza, nessuna evidenza di comportamenti volontari o finalizzati, nessuna evidenza di linguaggio, presenza di cicli sonno-veglia, presenza di funzioni troncoencefaliche e ipotalamiche sufficienti, incontinenza, presenza di riflessi dei nervi cranici e spinali, presenza di funzioni cardiocircolatorie autonome, termoregolazione normale, incoscienza anche ad occhi aperti (cfr. Gigli G.L., Lo stato vegetativo “permanente”: oggettività clinica, problemi etici e risposte di cura, “Medicina e Morale”, 2002/2, pp. 207-228).

Dal punto di vista etico, lo “stato vegetativo” è la condizione di una vita umana debole, che come tale va difesa, mentre dal punto di vista assistenziale è la condizione di un paziente cui spettano tutte le cure ordinarie. In nessun modo si può sostenere che lo “stato vegetativo” sia una fase terminale di malattia, dal momento che, come dimostrano i casi riportati, può protrarsi per molti anni; analogamente, fraintendono coloro che lo identificano con la “morte encefalica” o con il coma.

Inoltre, l’alimentazione e idratazione artificiali di cui il paziente in SVP necessita per vivere non vanno intesi come atti medici, ma esattamente come cure “ordinarie” o “normali”. Il Santo Padre, nel Discorso ai partecipanti al congresso su “Life-Sustaining Treatments and Vegetative State rileva infatti come “la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso sarà pertanto da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze”.

SOSTIENI QUESTO SITO. DONA ORA con PayPal, Bancomat o Carta di credito

   

L’omissione o la sospensione di tali cure, dunque, si configura non come una rinuncia all’accanimento terapeutico – cosa che alcuni impropriamente sostengono – ma come eutanasia attraverso l’induzione di una penosa morte per fame e per sete. Sulla capacità di provare dolore del paziente in SVP, d’altra parte, esistono attualmente conferme in letteratura (cfr. ad esempio S. Rifkinson Mann, Legal consequences and ethical dilemmas of pain perception in persistent vegetative states, in J. Health Law. 2003/36(4), pp. 523-548).

Ulteriori fraintendimenti risiedono nell’attribuire le qualifiche di “persistente” e di “permanente” allo stato vegetativo. I due termini, infatti, si riferiscono al paziente in stato vegetativo rispettivamente da più di un mese o da più di un anno, intendendo nel secondo caso la condizione irreversibile.

In realtà, mentre la dichiarazione di stato vegetativo si basa su una diagnosi, per quanto ardua ad effettuarsi correttamente, la dichiarazione di “permanenza” è puramente prognostica, si basa cioè su dati statistici, ma non può escludere scientificamente la possibilità di ripresa del malato. In altre parole, non esiste mai un momento in cui la condizione di stato vegetativo può considerarsi definitiva, si può unicamente confermare continuamente la diagnosi attraverso l’osservazione attenta del paziente. Per questa ragione, è preferibile parlare semplicemente di “stato vegetativo”, senza ulteriori distinzioni terminologiche che non hanno nella realtà una corrispondente differenza clinica.

Infine, lo stesso termine “vegetativo” si dimostra infelice, quando dal piano clinico viene trasferito a quello antropologico, insinuando l’idea che il paziente in stato vegetativo possa in qualche modo perdere la sua dignità ontologica di essere umano e divenire una specie di “vegetale”. Già Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli (1888) scriveva che “il malato è un parassita della società. In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo”. E un sito femminile, riferendosi a Eluana Englaro, la definisce “una pianta, un lutto impossibile da elaborare, una figlia ridotta a zombie da una medicina interventista” (http://www.bizywoman.com/benessere/articoli/eluana230202).

La verità che la nozione di “stato vegetativo” rischia così di nascondere è che la realtà personale umana – e dunque la dignità umana – non deriva dalla qualità di vita di un individuo, o dalle sue manifestazioni esteriori, e nemmeno dall’uso delle facoltà intellettive. È piuttosto quella dimensione intrinseca dell’essere umano che lo rende unico nel panorama dei viventi, e che caratterizza la sua stessa vita dal concepimento alla morte.

Poiché la persona in stato vegetativo è un paziente come gli altri, con la stessa dignità e gli stessi diritti, è imperativo che venga assistita adeguatamente, riconoscendola anzi “come un appello alla realizzazione di nuovi e più efficaci modelli di assistenza sanitaria e di solidarietà sociale” (cfr. documento congiunto del Congresso Internazionale su “Life-Sustaining Treatments and Vegetative State”).

Claudia Navarini
www.zenit.org.

SOSTIENI INIZIATIVE MISSIONARIE!
Con il tuo 5 per 1000 è semplice ed utilissimo.
Sul tuo 730, modello Unico, scrivi 97610280014

La storia di Caterina Morelli. Siamo circondati da anime Sante

Preghiera a Sant’Artemide Zatti