Il primo discorso di Arduin (Silvana De Mari)

Mentre il vecchio gentiluomo parlava il viso degli uomini si chiuse nel cordoglio. Alcuni addirittura non riuscirono evitare che le lacrime solcassero il loro viso. Arduink non capiva tutto di quello che l’altro stava dicendo. Era tutto molto difficile. Certo, lui l’òmino lo capiva, ma a patto che si dicessero cose chiare, e che soprattutto avessero un senso, fossero ancorate alla realtà. Il tizio parlava in fretta, non si capiva di cosa, c’erano parole strane, nomi mai sentiti. Arduink capì che doveva trattarsi di un elenco di luoghi dove c’erano stati massacri, o, peggio, nomi di morti ammazzati e si chiese che senso avesse ricordare allo scalcinato esercito tutte le volte che si era fatto prendere a calci. Era sbagliato. Certo bisognava calcolare che erano uomini, individui di ripugnante e strutturale viltà già in origine. Proprio perché già degradati, meglio non degradarli ancora, tanto più che quelli erano gli unici guerrieri di cui disponevano. La frase “un uomo non piange mai” evidentemente non esisteva. Quella di mettersi a fare la lista di morti ad Arduink sembrò un errore insensato la massima forma di imbecillità possibile.
La sua espressione rimase impenetrabile, immobile. Voleva assolutamente evitare che tutti si accorgessero che stava capendo poco e che quello che capiva lo trovava scemo.
Finalmente in un tripudio di singhiozzi il vecchio gentiluomo si levò dei piedi lasciando il posto. Arduink fece una rapida e lista delle parole che pronunciava in maniera perfetta. Quella era gente che si stava piangendo i suoi morti massacrati dagli orchi. Non doveva usare la pronuncia sbagliata. La pronuncia perfetta era la sua parola d’ordine, come avrebbe detto il fringuello. Quelle che conosceva sufficientemente bene da essere certo di pronunciarle senza che si sentisse l’accento orco onestamente non erano molte. Non c’era altra scelta che parlare molto lentamente e ripetere sempre le stesse cose, così non si sbagliava. Meglio andare sul semplice. Veramente molto sul semplice. In effetti altro non poteva fare che ripetere sempre le stesse tre frasi.
«Noi adesso combattiamo», cominciò. Non solo parlava lentamente, ma lasciava anche uno spazio tra una parola e l’altra.
«Noi adesso vinciamo», ripeté. Tanto l’unica alternativa al vincere per essere ammazzati e l’unica alternativa all’essere ammazzati era vincere. Forse era un discorso troppo scemo, ma pazienza, ormai era partito così.
«Noi adesso vinciamo, combattiamo e vinciamo e basta, e non c’è altro da dire», concluse. Per quanto lo riguardava, aveva finito. Tutti però guardavano verso di lui. Tutti aspettavano ancora qualcosa. Comunque stava funzionando. Se non altro avevano smesso di frignare. Lui però non voleva sbilanciarsi a dire altro. Se faceva sentire l’accento orco quella specie di incantesimo si sarebbe infranto. Dopo una lunga pausa, decise di ripetere le stesse tre frasi mettendo voi al posto di noi. Si, con voi, era meglio. Tanto più che lui era un orco, loro gli uomini: con il voi veniva meglio. Prima di dirlo però, cercò di convincersi. Li guardò in faccia e cercò di convincersi sul serio che quegli sfessati avrebbero potuto battere gli orchi. Quando erano incazzati, in effetti potevano fare paura. Avevano già vinto una battaglia.
«Voi adesso combattete. Voi adesso vincete. Come avete già combattuto. Come avete già vinto», scandì la sua voce, mentre il suo viso impenetrabile restava immobile davanti agli uomini. Tutti continuavano a guardarlo in attesa. Imprecò nella sua testa. A lui sembrava di aver detto tutto quello che c’era da dire, ma evidentemente volevano altro. Doveva dire ancora qualcosa.
«Io combatto con quello che ho e combatto solo per vincere. Voi siete la mia armata. Noi vinceremo». L’ultimo pezzo era stato veramente un ammasso di scemenze ovvie. Certo che combatteva con quello che aveva: nessuno poteva combattere con quello che non aveva. È certo che combatteva per vincere. Nessuno al mondo combatte per essere sconfitto, ammazzato e fatto a pezzi. La sua sequenza di cose ovvie ebbe un insperato successo. Quelli lì erano tizi che dovevano avere una predisposizione per l’ovvio. Tutti l’avevano piantata di singhiozzarsi addosso e stavano brandendo le spade. Sembravano quasi dei guerrieri veri. Arduink cercò di farsi venire in mente ancora che accidenti poteva ancora dire, qualcosa che avesse senso e che fosse fatto di parole facili. Hortrus aveva giurato che nel mondo degli uomini un bambino era più importante di un guerriero cresciuto. Anche le femmine erano importanti. Valevano più dell’onore di essere guerriero. Gli era sembrata una boiata, invece era vero, era per i bambini che erano diventati degli eroi.
«Voi combatterete e vincerete per la vostra terra, per il vostro onore, e più ancora per le vostre donne e i vostri figli. Per loro voi vincerete. Ora andate in pace per quest’ultima notte di quiete. Domani ci aspetta la battaglia. Domani ci aspetta la vittoria. I vostri figli vivranno».
Hortrus aveva avuto ragione. Funzionò.
Silvana De Mari in “Arduin il rinnegato”

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