Il velo della discordia (Barbara Spinelli)

Foto di abeer muted da Pixabay

Se la laicità fosse una fede che rivaleggia con altre fedi, avrebbero senz’altro ragione le due ragazze del liceo di Aubervilliers, espulse in settembre per aver voluto indossare, nelle ore scolastiche, il velo musulmano che copre tutto il corpo tranne il volto. Sarebbe stato ingiusto imporre alle due sorelle Alma e Lila Lévy un altro credo, diverso da quello che esse avevano scelto per se stesse. Il divieto sarebbe stato una violenza, esercitata dallo Stato francese in nome di una religione civile che si proclama neutrale ma che neutrale non è, essendo anch’essa una forma di culto: con le sue liturgie, i suoi libri sacri, le sue abitudini etiche.
Sarebbe stato anche il trionfo dell’astrattezza sulle concrete esperienze vissute da professori e studenti: in nome di un principio superiore, venerato con cieca devozione, si offenderebbe la libertà e la dignità della singola persona, della singola donna. Lo Stato stesso e le sue istituzioni pubbliche si comporterebbero in maniera integralista: tu, cittadino, non condividi la mia religione dello scetticismo e del relativismo, e dunque non sei ammesso nei miei spazi. Tu credi con un’intensità e un ardore che in Europa non hanno più ragion d’essere da quando sono finite le guerre di religione, e quindi non potrai entrare nelle nostre scuole pubbliche.
Così direbbe l’Europa alla sua popolazione musulmana, se la laicità fosse una religione, e probabilmente lo scontro di civiltà comincerebbe davvero perché l’Islam è una fede ormai radicata nel nostro continente: più di sei milioni in Francia, tre milioni e duecentomila in Germania, due milioni e mezzo in Inghilterra, ottocentomila in Italia. La questione del velo è sentita con forza in Francia e Germania, perché questi paesi ospitano una minoranza musulmana imponente, e in parte molto integrata. L’Italia non ha ancora compiuto queste scelte e si trova alle prese con organizzazioni musulmane ancor più disordinatamente rivendicative, che impongono persino di togliere crocifissi dalle aule come è avvenuto in una scuola elementare a seguito di una sentenza del tribunale dell’Aquila.
La laicità non è in realtà una convinzione, e tantomeno è una fede. In passato forse, quando si trattava di separare il potere religioso della Chiesa cattolica dal potere politico, l’uomo laico combatteva opponendo una specie di credo a un altro credo. Ma oggi non è questo – o non dovrebbe esser questo – il comportamento che lo contraddistingue. L’uomo laico non è un uomo che crede poco o che addirittura non crede affatto: non è uno scettico, che aborre le fedi quando son troppo vigorose o troppo mistiche e smisurate. La fede religiosa può infatti essere anche questo: una dismisura della devozione, della dedizione, del sacrificio di sé, e solo il fondamentalista immagina che la dismisura non produca altro che terrorismo kamikaze. La fede smisurata produce anche santità, grande letteratura, immensa poesia, scintillanti solitudini: la storia dei tre monoteismi ne è ricolma. Avere un’idea dominante, per tutta una vita, può esser cosa misteriosa, generosa e nobile: Alma e Lila aspiravano forse anche a questo, quando hanno giudicato troppo secolarizzati il padre ebreo, la madre algerina. La laicità non è un’ideologia che modera quest’intensità, che l’intiepidisce.

Non esiste una scuola filosofica o religiosa cui i cittadini o gli immigrati siano chiamati a conformarsi, quando entrano in Europa.
La laicità è di contro un metodo una procedura elaborata lungo i secoli, il cui obiettivo è la convivenza non violenta tra religioni differenti, e tra persone che vivono la rispettiva fede più o meno intensamente. Non è un metodo che trasforma le fedi in nutrimenti tiepidi dello spirito ma le lascia così come sono, limitandosi a metterle tra parentesi in alcuni luoghi pubblici precisi: scuole, uffici postali, commissariati, ospedali, parlamenti. In questi luoghi si entra lasciando fuori dalla porta la propria appartenenza a una famiglia religiosa, o a una tribù. Si rinuncia a un pezzetto della propria libertà personale perché sia protetta la libertà di tutti. La laicità è come un cartello affisso sui cancelli – entri come individuo e non come collettivo, entri se non porterai con te le intolleranze del tuo gruppo – e in realtà tutela le religioni e la libertà di ciascuno. In particolare, tutela la libertà di tutti i musulmani che non desiderano il velo, o che hanno fatto propri i costumi d’Europa: sono la grande maggioranza dei musulmani che oggi devono esser difesi dal ghetto in cui una minoranza integralista e semplificatrice dell’Islam vuole rinchiuderli, nei paesi musulmani e in quelli occidentali.
Proprio perché è un metodo e non una religione, la laicità non ha trionfi da celebrare quando in Francia si vieta il velo, o quando in Germania si discute sul velo di Fereshda Ludin, professoressa in una scuola del Baden-Wurttemberg. Questi eventi sono un fallimento della convivenza, e come tali sono vissuti dai professori che hanno deciso l’espulsione di Alma e Lila dalla scuola di Aubervilliers. Un insegnante di quel liceo, Philippe Darriulat, lo ha spiegato bene in un articolo su “Le Monde” del 15 ottobre: «La laicità non è un concetto vuoto di senso ma un problema concreto che riassumerei in una questione semplice: nei luoghi della scuola pubblica dobbiamo applicare regole comuni all’insieme delle persone che vi lavorano, o invece dobbiamo accettare che ognuno adotti comportamenti dettati dalle convinzioni personali o incoraggiati da raggruppamenti esterni alla scuola?».
C’è una cosa che colpisce, nel caso della Germania. Molto spesso sono le scuole religiose, e in particolare le protestanti, ad avere una visione veramente laica dello spazio pubblico. Il più delle volte esse proibiscono il velo, mentre nelle scuole pubbliche lo si ammette (tranne in sei Lander dove una legge regionale li vieta).

Questo significa che esiste oggi, nel pensiero laico europeo, un singolare senso di colpa verso questo spazio pubblico che si presenta come complicato e dunque confuso, che tollera le diversità ma anche alza barriere, tabù. Sono i figli del Sessantotto che oggi insegnano nelle scuole, e la loro tentazione è di condividere tutte le rivolte dei giovani contro le autorità, tutte le libertà che non conoscono limiti nella legge. Ma non c’è solo questo senso di colpevolezza, nella tolleranza di molti indulgenti: spesso il velo è favorito perché in fin dei conti ci si vuol contare, nei conflitti di civiltà che certamente verranno e che forse già stanno accadendo. Le comunità ebraiche difenderanno meglio i propri diritti, i cristiani saranno meno complessati nella difesa delle proprie prerogative. Non si vuole più quello spazio confuso, complicato, che è la laicità: in questi tempi apocalittici si vuole chiarezza, e ci si vuole contare.
Si obietterà che il metodo laico non è applicato integralmente, in Europa.
In Francia non ci sono i crocefissi nelle scuole pubbliche ma in altri paesi sì, e non pochi studenti possono portare la catenina con la croce o indossare la kippah, il copricapo ebraico. Ma oggi, il velo non ha la stessa valenza della croce o della kippah. In gran parte del mondo è un simbolo di oppressione, e chi non lo indossa è guardato dai correligionari come un apostata, contro cui lanciare decreti di morte. La stessa minaccia non grava su chi non porta la croce, o la kippah. Inoltre, chi indossa il velo non si limita a questa forma di secessione, nelle scuole: non frequenta le ore di ginnastica, di musica, di fisica e chimica. Non può, perché i genitori lo vietano, partecipare a gite scolastiche troppo distanti da casa (il limite è ottantun chilometri: lo spazio percorso da una carovana di cammelli in ventiquattro ore). Il velo significa la maggior parte delle volte l’ordine stabilito nelle scuole dalle famiglie e dai clan, contro la libertà dell’individuo (corpo insegnante o studentesco) di credere molto, poco, o niente.
La laicità ha successo solo se non diventa religione di Stato: se non è trionfalista, se non entra in concorrenza con le grandi fedi. Il suo compito deve esser quello di imporre regole comuni a tutti ma ben conoscendo e rispettando il credo di ciascuno, quale che sia il modo in cui esso viene professato in privato. Non ha senso, ad esempio, dire che il velo non ha nulla di religioso, che è un’invenzione esclusivamente politica, esportata dall’Iran nel 1979. Nella Sura 33, versetto 59, si legge: «O profeta, di’ alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro veli; essi permetteranno di distinguerle dalle altre donne e di far sì che non vengano offese». A volte il traduttore scrive mantelli, a volte veli: comunque i versetti del Corano prescrivono alle donne di coprirsi, anche se le interpretazioni restano innumerevoli. Lo spazio della laicità non entra in queste disquisizioni, non gareggia con i mille interpreti del Corano, non si mette a disquisire sulla religiosità o non religiosità d’un mantello. Non punta a intiepidire l’Islam, a relativizzarlo, ma fissa una frontiera, alza una barriera, quando la legge del ghetto tende a prevalere sulla res publica. Non alza barriere solo all’ultimo apocalittico minuto, quando la guerra di religione già è scoppiata e i terroristi già hanno colpito.
Il fondamentalista è convinto che le democrazie liberali non credono in nulla. Questo è l’enorme equivoco, che spinge il pensiero laico ad abbassare le braccia e a colpevolizzarsi. Il laico crede fortemente o non crede, non è questo quello che lo distingue. Quello che lo distingue è il limite che pone alla propria libertà, nel momento in cui entra in contatto con la libertà altrui.

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L’Europa di origine cristiana e umanista è giunta a questa saggezza:
separa lo spirituale dal temporale, il religioso da alcuni spazi pubblici. I due ultimi papi hanno parlato della separazione inequivocabile fra Stato e Chiesa come di un «evento provvidenziale». Forse questa saggezza sarà raggiunta un giorno anche dalle altre religioni monoteiste. Fino ad allora, la scuola laica è un rimedio cui difficilmente si rinuncerà, se si vuol difendere un Islam europeo non monolitico ma per l’appunto confuso, complicato: praticato sia da chi crede nel velo, sia da chi vuol credere senza dover portare il velo.
Barbara Spinelli

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