
1. Un passo indietro: la profetica e scomoda voce di Augusto Del Noce
Quella di Augusto Del Noce (1910- 1989), è da considerarsi una delle voci più attente e lungimiranti dell’area cattolica politica italiana. Nato a Pistoia ma torinese di adozione (studia e si laurea a Torino nel 1932), si avvicina al pensiero di Maritain per poi aderire, in una prima fase, allo schieramento dei cattolici comunisti, le cui idee successivamente criticherà aspramente. Pur insegnando dapprima nei licei e poi nelle Università di Treviso e di Roma ed affiancando la sua attività di docente a quella di pubblicista e divulgatore (importante la sua collaborazione con la rivista Europa negli anni settanta), Del Noce è sempre rimasto un pensatore isolato e scomodo, antifascista e contemporaneamente anticomunista nonché cattolico fortemente critico nei confronti di un cattolicesimo progressista egemone in quegli anni. Emarginato quindi dalla cultura italiana, il suo pensiero si è rivelato estremamente lungimirante a cominciare dalle sue previsioni, più volte formulate nel corso degli anni Settanta, circa l’imminente ed inevitabile crollo del comunismo, verificatosi proprio a partire dall’anno della sua morte.
Importante quanto singolare la sua interpretazione del fascismo come “inveramento del marxismo”, ossia tentativo, operato dallo stesso Mussolini, di mettere in pratica le idee di Marx adattandole alla cultura italiana considerata superiore a quella russa. L’illusione mussoliniana dell’inveramento del marxismo, in altre parole, sarebbe consistita nel cercare di salvare gli elementi positivi, progressisti, del messaggio di Marx evitando e scartando quelli negativi, involutivi, che hanno, ad esempio, portato allo stalinismo.
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In un’ottica ermeneutica assolutamente nuova nei confronti del pensiero che ha animato gli avvenimenti del Ventennio – pensiero, per altro, spesso considerato scarno e ben poco consistente – per Del Noce il fascismo non fu l’antitesi del marxismo, bensì rappresentò proprio il tentativo di inverare la miscela marx-nietzschiana. Mussolini “intendeva cioè, attraverso l’inveramento nietzschiano, recuperare lo spirito rivoluzionario che, nelle mani dei socialdemocratici, si era ridotto ad un «consiglio di prudenza ai rivoluzionari»“, così come scrive in Fascismo e antifascismo errori della cultura.
L’incontro tra il duce e Giovanni Gentile, il quale tendeva a “salvare” ed a valorizzare la filosofia della prassi marxista separandola però dal suo materialismo, avrebbe scatenato, per Del Noce, il fenomeno del fascismo, da intendersi dunque non come corrente reazionaria e meramente repressiva, bensì come movimento rivoluzionario e, in tutto il suo sviluppo, fortemente legato alla sua radice socialista. Un fascismo che il nostro filosofo interpreta come rivoluzione dissolutiva: “Rivoluzione in cui il momento costruttivo della nuova realtà è, per così dire, assorbito in quello dissolutivo.” Che questo progetto mussoliniano “si sia poi risolto in una sconfitta completa, non deve meravigliare; non diversa […] è stata la sorte degli inveramenti tentati nel dopoguerra“.
Del Noce, all’inizio degli anni ’70, dalle pagine di Europa riuscì a prevedere sia il superamento del comunismo – cui rimproverò sempre la sua posizione di forza esclusivamente dissolutiva, costantemente anti qualcosa: anti capitalistica, anti fascista, eccetera senza mai essere propositiva e capace di costruire qualcosa di nuovo, così da porsi come una “posizione politica in cui la prevalenza del «contro» sul «per» porta inevitabilmente ad una rivoluzione troncata, in quanto limitata al momento dissolutivo.” (L’Europa, V, 5, 15 aprile 1971) – sia il superamento del fascismo: “La lotta contro il comunismo e contro il fascismo è ormai lotta contro due ombre del passato; quel che avanza è il permissivismo, che minaccia tutte le religioni, tutte le libertà, l’Italia, l’Europa, l’Occidente, e che porta ad un totalitarismo di tipo nuovo“
2. Un’ipotesi sul fondamento dell’essenza dissolutiva del marxismo e del suo inveramento fascista
La critica delnociana nei confronti di questo “vuoto ideologico” che caratterizza il pensiero comunista e, di conseguenza, quello fascista, offre un importante spunto di riflessione utile anche per meglio capire l’epoca attuale.
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Da decenni, ormai, il clima politico internazionale sembra vuoto di ideali. I governi democratici sia progressisti sia conservatori si muovono in direzioni molto simili, e da molte parti, ormai, ci si chiede quale sia il significato vero dell’essere di destra piuttosto che di sinistra.
La mia impressione è che il fondamento di questo sostanziale crollo di contenuti politici così tanto lamentato e profetizzato da Del Noce sia da riscontrarsi, a livello embrionale, nelle origini stesse del marxismo e dunque, in linea con quanto teorizzato dal nostro filosofo, anche in quelle del conseguente pensiero fascista. Sono da cercarsi, cioè, nella concezione hegeliana di dialettica, che così tanta influenza ha esercitato sul pensiero occidentale, politico e non, dal secondo decennio dell’Ottocento in poi. A cominciare da Marx, che hegelianamente edifica la propria riflessione sull’idea di una teoria e, soprattutto, di una prassi basate sullo scontro dialettico visto però in quell’ottica dissolutiva che Del Noce critica, ottica che fonda la costruzione di una posizione politica sulla necessità di annullarne un’altra. Concezione, quella marxiana, che nasce dal rimprovero, nei confronti dello stesso Hegel, di aver concepito una visione della realtà troppo semplificata. Nella politica, così come in generale nel mondo, non esiste la sintesi, tutto è scontro, è lotta senza alcuna conseguente armonia. La pace non può che collocarsi esclusivamente alla fine della storia, quando il nemico di ogni giustizia – il capitalismo, in questo caso – sarà definitivamente abbattuto, dissolto appunto. Ma come ha fatto Marx ad arrivare ad una tale concezione dissolutiva della politica? Come è nato questo bisogno di un nemico da annientare come imprescindibile ed unico obiettivo dell’agire politico?
A ben guardare il pensiero marxiano è da considerarsi il risultato di un incontro tra la concezione eraclitea di dialettica e la nozione cristiana di tempo lineare, integrata a sua volta dal concetto illuministico di progresso.
La dialettica eraclitea dell’armonia dei contrari, del logos come sapienza filosofica fondamentale tipica del saggio, afferma che se l’essenza della realtà consiste nel suo divenire, tale cambiamento è permesso ed alimentato proprio dalla lotta incessante che scaturisce tra gli opposti. Il saggio è l’unico in grado di capire che gli opposti sono necessari affinché il loro rapporto dialettico permetta il divenire stesso dell’essere.
Ma Eraclito appartiene al mondo greco, e la sua visione del tempo è ciclica. Ciò significa che da sempre e per sempre la lotta tra gli opposti ha alimentato, alimenta ed alimenterà il divenire della realtà. Nessuna definitiva risoluzione dell’opposizione è prevista, pena la dissoluzione dell’essere stesso, poiché la lotta è l’autentico carburante dell’esistenza. Nel pensiero del filosofo di Efeso non la dialettica bensì la sua negazione, produce la dissoluzione della realtà.
Con l’avvento del cristianesimo, però, emerge e prende il sopravvento la concezione agostiniana del tempo lineare, del semel. Ogni evento accade una e una sola volta.
L’incontro tra la dialettica eraclitea e la dimensione cristiana della storia lineare, influenzato per di più dall’idea illuministica di progresso, avviene in Schelling. La nozione di progresso è offertagli dai philosophes, i convinti sostenitori della teoria secondo cui la storia possa essere una continua evoluzione a condizione che sia fondata sulla razionalità (Voltaire, Condorcet). Questa idea illuminista spinge in questo modo la filosofia dell’Ottocento a considerare i moderni più evoluti degli antichi, a patto che alla razionalità essi si affidino, spogliandosi di ogni pregiudizio e superstizione.
Schelling, per altro inizialmente molto ammirato da Hegel, prende a considerare la storia come un inevitabile e necessario cammino di perfezionamento destinato, alla fine dei tempi, al raggiungimento della piena realizzazione dell’Assoluto. In Schelling la perfezione arriverà incondizionatamente. La clausola illuminista dell’uso della ragione viene abbandonata.
Hegel – che non accetta da Schelling che la perfezione debba verificarsi solo alla fine dei tempi, scorgendola invece in atto nella realtà – ripropone l’idea eraclitea del logos re-interpretata in chiave illuministico-cristiana, scremandola così della sua originaria componente ciclica ed eterna, tipica della grecità classica: il logos non è solo più la legge della comprensione della realtà, bensì la struttura stessa del reale. Il logos, a questo punto, comprende il logos, comprende se stesso. In questa sorta di corto circuito, la razionalità si estende dal piano logico a quello ontologico, da condizione illuministica per un perfezionamento del mondo essa diventa struttura del mondo stesso. Tutto è perfetto, tutto è completamente razionale.
Ed ecco il punto. Se la realtà è perfetta da sempre e non dev’essere cambiata e migliorata in nulla, la progressività illuministica e schellinghiana della storia viene riservata da Hegel al solo ambito della comprensione del reale. Come dire: tutto è, è sempre stato e sempre sarà perfettamente razionale, ma l’uomo ci deve mettere del tempo a capirlo. La storia è quindi l’evoluzione di questa temporale comprensione umana. La dialettica, allora, diventa scontro tra chi è più avanti nella comprensione e chi è più arretrato. La contraddizione diviene conflitto.
Se tutto, infatti, è perfettamente razionale e se ciò che non è ancora perfetto è solo il nostro comprendere tale perfezione, va da sé che i moderni siano sempre e comunque più avanti degli antichi, in questo processo di coscientizzazione dell’Assoluto. Chi viene dopo ha più ragione di chi viene prima. Così, in questa prospettiva hegeliana, la contraddizione, la contrapposizione degli opposti, diviene una tensione ideologica da oltrepassare, non più solo l’attrito esistente tra opposte realtà. Tesi ed antitesi – che per Eraclito erano le diverse e contrapposte dimensioni del reale da comprendere nella loro rispettiva e necessaria opposizione – diventano due diverse idee circa la realtà, due opinioni in conflitto tra loro. Un conflitto da sanarsi ad un livello superiore, attraverso il raggiungimento di una sintesi, di un’armonia che le concili e le superi ad un tempo.
Marx compie il passo definitivo, ponendo l’accento sull’aspetto del conflitto ideologico che scatena la lotta tra gli opposti trasformandosi in prassi, e considerando una mera utopia il raggiungimento di qualsiasi sintesi, sostituita dal più realistico quanto doveroso obiettivo dell’annullamento inevitabile e definitivo dell’antitesi. Il comunismo, in questo modo, non può concepirsi se non come lotta al capitalismo; ed il suo inveramento, ossia il fascismo, come lotta al bolscevismo. Una situazione, questa, che lo stesso Del Noce ha messo in luce in tutta la sua pericolosità, dato che fascismo e anti-fascismo si rivelano due posizioni estremamente necessarie l’una all’altra ed entrambe incapaci di sussistere in modo propositivo una volta dissolto il proprio nemico.
3 La dittatura del permissivismo e la sua valorizzazione “per obiettivi” dell’individuo
Così fascismo ed antifascismo si rivelano ombre senza contenuto, tanto più oggi.
Sono fantasmi del passato su cui si concentrano i discorsi politici che non hanno nulla di nuovo da proporre, o che, forse, mirano a sviare l’attenzione dal vero nuovo pericolo, quello della società permissiva, che in qualche modo va considerata una nuova e più subdola manifestazione di quelle stesse ombre cui sembra sostituirsi. E’ questo un tema fondamentale per Del Noce, un leit-motiv presente in tutto il suo pensiero. La società attuale infatti, che si considera meta ultima del progresso della democrazia, dimensione civile resasi capace di superare lo stato etico accedendo ad un vivere comune libero da moralismi, in realtà secondo il filosofo di Pistoia si rivela chiaramente schiava del conformismo, del mimetismo, dell’inerzia e della più totale estraneità a qualsiasi tipo di valore o di ideale. L’assoluta libertà individuale di cui va fiera, vera libertà non è poiché solo e sempre libertà da e mai libertà di, liberazione da qualsiasi norma, divieto, inibizione o tabù in un’ottica esclusivamente individualista e nichilista, vuota di qualsiasi esigenza di verità e di qualsiasi aspetto propositivo ed innovativo. Siamo di fronte, dunque, ad un retaggio di quella cultura dissolutiva hegeliana e marxiana, che ha trasformato la stessa libertà in una dimensione che non possiede più nulla di propositivo, ma che si concepisce anch’essa come libertà contro. Una libertà che è liberazione da valori interiori in nome di apparenza ed esteriorità, che premia chi più riesce ad ottenere, in totale disprezzo di principi e regole. Una società, questa, che si fa così portavoce di un ritorno alle antiche tesi sofistiche e che pretende di valutare oggettivamente ed infallibilmente l’operato dei suoi organismi e degli individui che la compongono sulla base degli obiettivi esteriori da essi raggiunti, dimenticando l’importanza delle intenzioni e delle aspirazioni umane anche qualora non vengano a realizzarsi concretamente. Una società, quindi, che esalta soltanto le azioni di successo (le uniche che si siano rivelate in grado di produrre un riscontro “quantitativo” notevole, senza considerazione per gli aspetti qualitativi dell’agire umano), e che, svuotata di valori e di ideali, perviene così all’esito borghese dell’uomo in rivolta “che caratterizza oggi l’Occidente e che può portarlo a raggiungere, e a tradurre nella realtà, il suo significato etimologico di «terra del tramonto»“.
di Pietro Ratto – Testo di una conferenza tenuta da Pietro Ratto presso la sede dell’UNITRE’ di Cirié (TO) il 14 Maggio 2005.