La conversione di Max Jacob

drancy

Lo seppellirono al cimitero d’Ivry, col rosario che gli trovarono in tasca, fra centinaia d’esili croci, prima di trasportarlo nell’amata Saint-Benoit-sur-Loire: e qui, da sessant’anni, riposa il corpo del poeta e pittore Max Jacob, dopo la morte avvenuta il 5 marzo del 1944 nel campo di concentramento nazista di Drancy. Era nato nel 1867 a Quimper, in Bretagna, da una famiglia ebraica di sarti e antiquari. Compagno di stanza di Picasso, amico di Apollinaire e Jabés, protagonista dell’estrosa Parigi bohémienne d’inizio secolo, Jacob destò scandalo con la sua conversione, fra le più stravaganti di quell’eroica stagione.

Negli stessi anni in cui Claudel, Huysmans, Péguy, Maritain e molti altri intellettuali francesi approdavano al cattolicesimo, Max Jacob fece l’esperienza di una folgorante apparizione del Cristo: «Dopo un tranquillo lavoro alla Biblioteca nazionale, a Parigi, me ne tornavo a casa, con una grossa busta di pelle sottobraccio piena di note e manoscritti. Ero vestito come si usava allora, con un cappello alto e la redingote. Dato che faceva caldo, non vedevo l’ora di rimettermi in libertà. Mi ero tolto il cappello e stavo per infilarmi le pantofole, da buon borghese, quando gettai un grido. Sul muro vi era l’Ospite. Caddi in ginocchio, gli occhi mi si empirono di lacrime. E subito, appena s’incontrarono con l’Essere ineffabile, mi sentii spogliato della mia carne umana, colmato solo da due parole: morire, nascere».
Nessuno, in principio, volle credere al saltimbanco di rue Ravignan. Le ripetute visioni e il battesimo furono interpretati come un’estrema provocazione artistica, almeno fino a quando il poeta non decise di ritirarsi presso una vecchia sacrestia, a Saint-Benoit-sur-Loire, in un esilio volontario rotto solo da una breve ricaduta e dalle poche visite di amici. Lontano dai rumori e dal bel mondo di Parigi, Jacob persegue una ferrea disciplina: accostarsi quotidianamente all’Eucaristia, stilare una meditazione ogni mattina (secondo il modello di san Francesco di Sales), nutrire una fittissima corrispondenza (fino a sei lettere al giorno), dedicarsi alla propria intensa attività letteraria e apostolica.
«Acrobata assoluto», «funambolo di Dio», «clown mistico»: le definizioni per la sua leggenda volatile e leggera non si contano, e hanno spesso contribuito a nascondere un’opera di grande spessore, troppo poco conosciuta (anche in Italia, se non fosse per qualche editore coraggioso, fra cui Marietti e La Locusta, o Mondadori, che di recente ha pubblicato un racconto per l’infanzia). La sua Arte poetica, improntata a un terso classicismo, è un miracolo di chiarezza nel cielo scuro del Novecento.

Durante il suo viaggio verso la morte, ebbe il tempo di scrivere le sue ultime, toccanti righe, indirizzandole a un amico sacerdote: «Caro Signor Curato, scusate questa lettera da naufrago, scritta per la compiacenza dei gendarmi. Tengo a dirvi che sarò a Drancy fra pochissimo. Ho delle conversioni in corso. Ho fiducia in Dio e nei miei amici. Lo ringrazio del martirio che comincia. Rispettosamente e amichevolmente, Max Jacob. Non dimentico nessuno nelle mie continue preghiere». Se è vero che un albero si vede dai frutti, non vi dovrebbero esser dubbi sulla bontà di quell’apparizione, nel lontano settembre dei 1909. Per chi non crede, resta l’umile testimonianza, in parole ed in sangue, di un poeta che giunse al martirio come ebreo e come cattolico.
Luigi Walt

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