Storia. La democrazia antica (3)

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La democrazia antica non ha nulla a che vedere con quella moderna. Nell’Atene di Pericle votavano solo i cittadini maschi e liberi che pagavano le tasse, in base al principio che solo chi sovvenzionava la cosa pubblica aveva il diritto di metterci bocca.

Non solo. Si trattava di una comunità di poche migliaia di anime, che votavano su argomenti precisi e alla portata di tutti. Per esempio se dare l’ostracismo (cioè l’esilio) o meno a qualcuno ben conosciuto; naturalmente gli argomenti “alti” erano al di sopra del voto. Infatti Socrate venne condannato a morte perché metteva in dubbio l’esistenza degli dèi.

A Roma era la stessa cosa. Anche ai tempi dell’Impero chi votava erano i cittadini di Roma; e, tra essi, solo quelli provvisti di un certo “censo”, cioè i più facoltosi. Infatti la carica di Censore designava il magistrato che periodicamente immetteva nelle liste elettorali i nuovi aventi diritto e ne espungeva quelli caduti al di sotto di un certo reddito. Com’è noto a un certo punto anche i plebei vollero almeno un magistrato che li rappresentasse collettivamente, il “tribuno della plebe”.

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Schiavi e donne non avevano alcun peso pubblico. Erano letteralmente proprietà del capofamiglia. Lo schiavo fuggiasco veniva inchiodato allo stipes, la stanga che chiudeva la porta della casa. La pena di morte per i non Romani era la stessa, solo che lo stipes veniva sospeso al patibulum, formando una croce. San Pietro, palestinese, venne infatti crocifisso; san Paolo, cittadino romano, ebbe l’onore della decapitazione. La schiavitù era una condizione giuridica che prescindeva dalla ricchezza personale.

Infatti si dava il caso di schiavi ricchi ancora giuridicamente legati al padrone caduto in miseria. Non tutti gli schiavi assurti a ricchezza avevano voglia di spendere per affrancarsi e diventare liberti.

Qualcuno lo faceva, altri no. Il fatto è che la schiavitù era considerata un’istituzione antica come l’uomo, nella natura stessa delle cose. Le rivolte servili (come quella del famoso Spartaco) non erano rivoluzioni tese a sovvertire l’ordine costituito: gli schiavi ribelli volevano affrancare solo se stessi. Va da sé che, potendolo, avrebbero comprato anche loro degli schiavi.

Il Cristianesimo non abolisce la schiavitù: avrebbe provocato solo un bagno di sangue. Si limita a minare l’istituzione dall’interno, dicendo che davanti a Dio siamo tutti uguali e che il padrone deve amare lo schiavo come suo prossimo. Anche quando il Cristianesimo diventa religione, prima autorizzata e poi di Stato, la schiavitù non viene soppressa. La si aggira tramite istituzioni caritative che pagano l’affrancazione di schiavi solo dopo aver potuto garantire ai liberti un pezzo di terra per mantenersi. Diversamente accadrà dopo la Guerra di Secessione americana: gli schiavi, dichiarati liberi, si ritrovarono liberi di morire di fame come disoccupati.

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La condizione della donna nel mondo antico non era dissimile. Nemmeno nel civilissimo mondo romano. Difficilmente, studiando la storia di Roma, ci si imbatte in nomi femminili. Si ricordano madri (come Cornelia) o amanti imperiali (come Messalina). Non solo. I nomi di donna che si incontrano non sono nemmeno nomi: sono cognomi. Giulia, Cornelia, Flavia erano infatti il nome della casata, perché i Romani premettevano il cognome al nome proprio. Poiché le donne non avevano personalità giuridica era inutile fornirle di nome proprio.

Di più: i padri, avendo diritto di vita e di morte sui figli, lasciavano vivere i nati maschi ed “esponevano” la maggior parte delle femmine (le neonate indesiderate, se sufficientemente robuste da sopravvivere, venivano portate via dai mercanti di schiavi).

Sarebbero state un peso: andavano provviste di dote e sposate, cosa non sempre facile. Avendo dunque, il più delle volte, una sola figlia femmina era inutile darle un nome proprio; bastava quello di famiglia. La donna poi passava dalla tutela del padre a quella del marito, e faceva parte della proprietà come i figli e gli schiavi. Il mondo romano era un mondo maschile, di funzionari e soldati.

La novità cristiana consisteva nel dichiarare “persona” anche le donne e gli schiavi. Infatti le martiri dei primi secoli non vennero uccise in quanto cristiane bensì perché, in quanto cristiane, si ribellavano all’autorità del padre. Infatti, rifiutando le nozze per consacrarsi a Dio, infrangevano la struttura più intima dell’ordinamento giuridico col rivendicare un diritto (quello di decidere della propria vita) che non potevano avere. Dunque meritavano la morte. Qui sta l’unica “rivoluzione” (se così la si vuol chiamare) apportata dal Cristianesimo; il quale, tra l’altro, mai si sognò di praticare quel “comunismo primitivo” che alcuni pretendono. I primissimi cristiani (ma non tutti e non in tutti i luoghi) mettevano liberamente a disposizione della comunità i loro averi, cosa fattibile in piccoli aggregati, ma poi lasciata cadere per ovvii motivi pratici appena la cristianità si allargò.

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