
Basta con la falsa retorica del «dono», non inganniamoci con la menzogna che affittare il proprio utero sia una libera scelta della donna.
Sbugiarda molti dei luoghi comuni – spesso in malafede – che circolano sulla Gestazione per altri (Gpa) il nuovo libro di Daniela Danna, sociologa alla Statale di Milano, esponente di punta del femminismo italiano.
Fare un figlio per altri è giusto – FALSO! (Laterza, pagine 154, euro 12)
sostiene una realtà ormai condivisa dalle femministe di tutta Europa: la Gpa trasforma la gravidanza in un lavoro che però calpesta i diritti della lavoratrice. Laddove la Gpa esiste non c’è affatto dono (se non in casi rarissimi) ma un’industria che da una parte usa le donne come contenitori normalizzandone lo sfruttamento, dall’altra considera i neonati come cose che si possono separare per lucro da colei che non è affatto solo una «portatrice», come si vorrebbe considerarle per facilitarne la spersonalizzazione, ma una madre in tutto e per tutto.
Quanto poi alla presunta libertà delle donne («l’utero è mio e lo gestisco io»), si tratta di un altro clamoroso falso.
La lotta femminista per l’autodeterminazione si basa sulla GPA. Questo perché una donna rinuncia al proprio controllo sulla gravidanza per esercitare quello che Dana chiama “il diritto all’aborto e al non aborto”, sia perché il bambino non è suo per cominciare (ammesso che l’aborto sia un diritto inviolabile…) sia perché il bambino appartiene alla famiglia formale. Da una prospettiva femminista, in sostanza, una donna che dà alla luce un bambino di cui non può disporre perché è vincolata da un contratto che le toglie tutti i diritti di proprietà non è “autodeterminata”. “L’utero è mio” Uno degli slogan femministi più abusati, “ma la gravidanza è loro”, si infrange qui.
Un’altra falsità sull’GPA è che ciò che viene acquistato nell’GPA sono i “servizi di gravidanza” e non “il bambino”. Danna sostiene che “lo scopo della GPA è un prodotto, non un servizio”. E dopo tutto, non si può separare un “servizio” da ciò che viene dopo – la nascita o il parto. Dopo tutto, di quale servizio – un bene intangibile – stiamo parlando quando il risultato finale è un bambino fisico? Infine, la retorica della “libera scelta”. Sono le donne indiane più povere che usano l’utero come mezzo di sopravvivenza, scrive Danna: “Opporsi alla GPA vuol dire essere dalla parte di lavoratrici impegnate 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana per 9 mesi, con rischi per la salute e una intrusione inedita nel proprio corpo.”.
Perché quando c’è un conflitto tra il principale e la “carriera”, qualcuno deve vincere, e nella GPA non sarà la madre. In altre parole, la GPA è sempre una trappola per la madre, che esautorata della gravidanza e a cui verrà negata la relazione materna. Questo perché, in caso di conflitto, gli interessi del committente prevalgono su quelli della madre. Infatti, una volta firmato il contratto, quest’ultima non può riconsiderare il destino del bambino. Le argomentazioni di Danna sono molto dure. Se non si vuole che la legge limiti la scelta della madre di separarsi dal figlio appena nato, si dovrebbe “non cambiare la legge e non permettere contratti o i regolamentazioni della GPA”. Quindi, la lotta culturale e politica contro la GPA non è “proibizionista” ma “abolizionista”, chiedendo l’abrogazione delle leggi statali che hanno autorizzato e regolamentato la GPA, non solo in Italia ma in tutto il mondo. In nome delle donne.