
“Sono nata devadasi. Non per mia scelta. La mia casta è così bassa e io così povera. Un tempo sarei stata una danzatrice al servizio delle divinità installate nei templi. Oggi non più. Oltre alla danza mi viene insegnato come servire e assecondare l´uomo ricco che presto mi verrà a prendere e farà di me la sua schiava personale, per sempre. Da danzatrice sacra a mantenuta di qualche ricco o in qualche pubblico intrattenimento. Presto sentirò il rombo di un motore, sarà il mio padrone che mi verrà a reclamare e mia madre, devadasi come me, potrà sopravvivere con una manciata di monete. Per me è giusto. Non conosco che questo. Non c´è contrasto, non c´è conflitto. Ho undici anni”.
Il racconto di Elisabetta Zerial, vincitrice del premio “Tiziano Terzani” per le scuole nel 2010, denuncia la drammatica realtà delle donne e delle bambine dei Paesi in cui essere nate femmine è ancora considerata una “cattiva idea”. Dopo avere incontrato e intervistato diverse donne e bambine, alcune delle quali costrette a prostituirsi, Zerial ha raccontato la loro tragica esperienza.
Parvatamma è una delle tante donne costrette a prostituirsi, una devadasi che ha contratto l’AIDS e ora è tornata al suo villaggio perché troppo debole per lavorare. La donna ricorda come la sua verginità sia stata venduta al miglior offerente quando aveva appena raggiunto la pubertà, come era successo a sua madre prima di lei e come succederà a sua figlia dopo di lei, nonostante la pratica sia ormai vietata. Le bambine-prostitute costrette a vendere il loro corpo per pochi centesimi sono le vere “serve della dea”, costrette a chiedere l’elemosina quando la stanchezza e le malattie le rendono incapaci di lavorare. Quando superano i 45 anni, non sono più ritenute attraenti e non resta loro che vivere per strada. Le devadasi “fortunate” sono quelle che riescono a diventare jogathis, anziane venerabili per la loro conoscenza di arti, musica e tradizioni. È una realtà drammatica che ancora oggi affligge molte donne e bambine in questi Paesi, una vera e propria violazione dei diritti umani che non può essere tollerata.
La storia di Chennawa è una testimonianza cruda e amara della tragica realtà delle devadasi, donne costrette sin da bambine a prostituirsi per sopravvivere. A 12 anni, Chennawa è stata costretta a dormire con uomini molto più grandi di lei, inviando i pochi soldi guadagnati alla famiglia. Ma la sua famiglia non le ha dato alcun aiuto, anzi, sua madre, a sua volta una devadasi, l’ha mandata sulle strade ad essere presa a calci, picchiata e violentata. Ora, a 65 anni, Chennawa vive di elemosina e non ha più nulla da perdere.
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Roopa, invece, è stata votata alla dea all’età di 9 anni con il matrimonio sacro, ma come da rito, la sua verginità è stata venduta all’asta. La sua prima volta è stata un’esperienza traumatica, con l’uomo che l’ha lacerata con un rasoio. Una pratica crudele e disumana che viene ancora perpetrata in nome della devozione religiosa.
Shobhsa Dasti, ex devadasi di 31 anni, ha subito una violenza simile, venduta dai suoi genitori e sistematicamente stuprata in nome della devozione religiosa:
“La cerimonia di iniziazione a devadasi è molto simile ad un tradizionale matrimonio hindu, ma senza marito. L’intera comunità si è riunita e mi sono stati comprati dei vestiti molto elaborati, collane d’oro, gioielli, anelli d’argento e tutti gli altri simboli del matrimonio. Ero solo una bambina e non capivo il significato di quello che stava succedendo. Ero felice di essere al centro dell’attenzione, e di poter indossare un vero sari per la prima volta. Mi ricordo che mio fratello e mia sorella erano molto arrabbiati per quello che stava accadendo. Continuavano a litigare con mia madre, dicendole “E la scuola? Perché vuoi rovinarle la vita?” Ma a me sembrava il giorno più bello della mia vita.”
“Dopo la cerimonia di iniziazione per quasi un anno e mezzo la mia vita è tornata alla normalità, vivevo a casa e andavo a scuola come al solito. Ora so che la comunità aspettava che raggiungessi la pubertà. Poi una mattina, avevo più o meno 13 anni, un impiegato di un ospedale locale ha offerto a mia madre 500 rupie (6€) in cambio della mia verginità. È tradizione che siano la madre o la nonna di una devadasi a decidere i suoi partner sessuali, e quindi è stata mia madre che mi ha mandato, quella notte, nella stanza buia di radiologia di quell’ospedale perché venissi sessualmente abusata da un totale estraneo. Non avevo idea di quello che mi stava per succedere, ma ero terrorizzata. Anche dopo tutti questi anni, il ricordo di quella notte mi fa sciogliere in lacrime. Come da tradizione, il mecenate di una devadasi ha sempre il diritto di avere un ritorno del suo investimento, quindi non appena ha scoperto che era stato perpetrato il primo abuso ha iniziato a seccare mia sorella dicendo, “Ora voglio usare questa ragazza, voglio che lei venga da me. ” Le disse che se non l’avesse fatto succedere l’avrebbe lasciata, e nel frattempo ha iniziato a corrompere mia madre, dandole dei soldi ogni settimana.”
“Durante la settimana continuavo ad andare a scuola e a vivere a casa mia, ma non appena si avvicinava il venerdì cominciavo a stare male dalla paura, visualizzando il mio molestatore e quello che mi stava per succedere. Era come vivere all’inferno. L’abuso è continuato per quasi cinque anni, durante i quali sono rimasta incinta e ho partorito due dei suoi figli – un maschio e una femmina.”
“Quando mia figlia aveva un anno, mi sono segretamente iscritta ad un programma di informazione e protezione per devadasi della zona e ho iniziato a fare del lavoro volontario per loro.
Mi ricordo vividamente uno dei primi meeting a cui ho partecipato, quando un avvocato mi si è avvicinato per parlare dei diritti legali delle donne. E’ stata la prima volta in tutta la mia vita in cui ho sentito parlare di “sesso consensuale,” e del fatto che la pratica delle devadasi non era permessa dalla legge indiana. E’ stato come se mi fosse esplosa una bomba in testa. Suona ridicolo, ma prima non avevo nemmeno lontanamente pensato che potesse essere illegale che qualcuno mi toccasse senza il mio consenso.
Allora ho cominciato a pensare alla mia situazione. Con il passare dei mesi, l’organizzazione ha cominciato a pagarmi una piccola somma di denaro ogni mese, denaro che infine mi ha dato il coraggio di dire di no al mio abusatore. Mi hanno reso indipendente. Sapevo che sarei stata in grado di prendermi cura di me stessa e dei miei bambini senza tornare da lui. Dopo il primo anno di lavoro, sono stata promossa da volontaria a leader di un gruppo di donne, guadagnando 1000 rupie al mese, 800 dei quali ho dato a mia madre perché la smettesse di fare pressioni per farmi tornare da quell’uomo. Finanziariamente è stata una lotta riuscire a comprarmi da mangiare e a sostenere economicamente i miei figli, ma ne è valsa la pena, ero libera.”
“Per via del mio passato non mi potrò mai sposare, ma la mia vita ora è molto diversa da come era prima. Guido un’organizzazione femminile chiamata MASS composta da 2,500 membri, e sono diventata rappresentante della comunità. Nonostante quello che mi è successo quand’ero bambina, ora sono una donna libera, ma ci sono ancora centinaia di bambine in tutto il paese a rischio di sfruttamento sessuale – e sono i genitori che fanno loro da papponi.”