
Non solo i cattolici. Anche i protestanti, talvolta, chiedono perdono. Fu significativo, anni fa, il mea culpa dei calvinisti, di origine olandese, del Sudafrica. Riconobbero che la dura politica di separazione tra bianchi e neri – apartheid, in boero – derivava direttamente dalle loro concezioni religiose, dal loro concetto di persone (e di razze) “predestinate” ed era stata non solo ispirata ma anche favorita dai loro pastori e teologi.
Ora, è la volta di tutte le comunità protestanti della Repubblica Ceca, che hanno dichiarato ufficialmente il loro pentimento per la sorte terribile che fu imposta nel 1945 ai tedeschi di Boemia. Sono (o, meglio, erano) i cosiddetti Sudeti per i quali, nel 1938, stava per scoppiare in anticipo la guerra mondiale. Giustizia impone di riconoscere che in quella crisi la Germania, anche se nazista, non aveva tutti i torti nel pretendere di riunire a sé quei connazionali. In effetti, erano stati i regni boemi medievali a favorire insediamenti germanici sulle montagne alle loro frontiere. Laboriosi e ingegnosi, i tedeschi, conservando la loro lingua e i loro costumi, crearono comunità prospere che vissero in una pace fruttuosa con i cechi, soprattutto nel lungo periodo in cui la regione fu sotto l’autorità dell’impero multinazionale di Vienna.
Alla fine della prima guerra mondiale, non valsero però per loro quei princìpi di rispetto delle nazionalità che Wilson (di cui già parlammo) sventolava a Versailles. I Sudeti, compatti, chiesero infatti di essere riuniti alla Germania, che consideravano la loro vera patria. Ma i vincitori avevano deciso di creare un nuovo Stato, la Cecoslovacchia: creazione artificiosa che in effetti, appena le è stato possibile, si è sciolta. Così i tedeschi, assieme a forti minoranze ungheresi e polacche furono costretti a forza nell’unione anch’essa forzosa di cechi e di slovacchi.
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Non fu dunque Hitler a inventarsi l’irredentismo sudeto, come mostrò la gioia delirante del popolo quando la regione fu annessa alla Germania, con la mediazione, a Monaco, di Mussolini.
Nel 1945, le stesse potenze vincitrici che nel 1919 avevano costretto quei milioni di tedeschi a dipendere da una Praga per loro estranea e ostile, stabilirono – sic et simpliciter – che fossero espulsi con la forza dalla Cecoslovacchia ricostituita e gettati senza complimenti in territorio tedesco.
La spaventosa decisione fu presa non solo dai russi di Stalin, ma anche dai “democratici” e “umanitari” americani, inglesi, francesi. Ne seguì un esodo apocalittico: i Sudeti espulsi erano più di tre milioni, si calcola che almeno trecentomila morirono di fame, di stenti, di malattie già sul cammino. Molti altri, poi, perirono in una Germania dove gli abitanti stessi decedevano per inedia e non c’era alcuna possibilità di soccorrere quei profughi.
Ebbene: le Chiese protestanti ceche riconoscono oggi, contrite, non solo di non esseri opposte ma di avere favorito quell’autentico genocidio (i Sudeti non dovevano più “inquinare” la terra boema) in base al principio – politico e non certo evangelico – della “responsabilità collettiva” del popolo tedesco. Tutti – donne, bambini, vecchi, malati – dovevano subire la vendetta più spietata per ciò che politici e militari avevano compiuto.
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Ma, allora, varrà la pena di ricordare un altro dei tanti, terribili episodi rimossi da chi vorrebbe convincerci che l’umanità è nettamente divisa tra buoni e cattivi: tutto il bene da una parte, tutto il male dall’altra. Una prospettiva manichea dalla quale deve rifuggire soprattutto il cristiano, consapevole che, tra gli umani, solo Maria di Nazareth è stata preservata dalle conseguenze del peccato originale e non ci sono altri “eroi” immacolati, senza colpa alcuna.
Restiamo, allora, all’ultima guerra mondiale, alla fine della quale i “buoni” (naturalmente, i vincitori) sedettero in tribunale a giudicare i “malvagi” (naturalmente, i vinti). Nessuno ha mai chiamato, né mai chiamerà, americani e inglesi a rispondere del più sanguinoso e più cinico – perché militarmente più inutile – massacro aereo della storia. Entrambi gli alleati anglosassoni avevano terribili precedenti: 71 mila morti in un colpo solo a Hiroshima, poco meno a Nagasaki, 60 mila a Tokyo e centinaia di migliaia, in totale, nelle città nemiche d’Europa, a cominciare naturalmente da Berlino. Senza dimenticare l’Italia, dove la distruzione di un terzo degli edifici di Torino e di Milano fu programmata dalla Raf e dalla US Air Force attorno al Ferragosto del 1943: quando, cioè, le trattative per l’armistizio erano già cominciate e l’attacco alle popolazioni civili rientrava più nel terrorismo che nelle esigenze militari.
Eppure, il record più sanguinoso fu raggiunto a Dresda nelle ultime settimane di guerra, tra il 13 e il 14 febbraio del 1945, contro una città inerme e quando il Reich ormai agonizzava. L’antica capitale dei re di Sassonia era chiamata “la Firenze del Nord”: la città intera era uno scintillante capolavoro di arte medievale, barocca, rococò. Proprio per cercare di preservarla, le autorità tedesche non le avevano conferito alcuna funzione militare ed erano ridotte anche le produzioni industriali. In effetti, per tutta la guerra Dresda non era stata bombardata. Così, fidando in una sorta di garanzia fornita dalla bellezza, almeno mezzo milione di profughi ne aveva raddoppiato la popolazione.
In quel febbraio del 1945 sulla città convergevano le colonne disperate dei civili che fuggivano davanti all’avanzata sovietica. Pochi giorni ancora e i russi sarebbero giunti sin lì: la città non aveva difese. Ma tutta la Germania era ormai alla fine: a Occidente il Reno era stato varcato, a Oriente niente poteva fermare il rullo compressore staliniano, Hitler già si era murato vivo nel suo bunker sotterraneo.
Ebbene: proprio in quelle condizioni, a guerra praticamente già risolta, inglesi e americani decisero di pianificare la totale distruzione di Dresda. Si sapeva bene quale “patrimonio dell’umanità” fosse quel concentrato di capolavori; e si sapeva bene che le vittime sarebbero state solo civili. Ma proprio questo era l’obiettivo: aumentare il panico tra la popolazione dietro le ultime linee di resistenza tedesche.
Insomma, Dresda non fu un deplorevole eccesso come ne capitano in ogni guerra, ma fu una strage premeditata e accuratamente organizzata ai più alti livelli politici e militari. Nessuno è mai riuscito a quantificare esattamente le dimensioni del massacro, vista la massa caotica dei profughi e viste le conseguenze del disastro che costrinse a bruciare i cadaveri, a decine di migliaia, su pire improvvisate con rotaie e traversine ferroviarie. Certamente, le vittime non furono meno di centomila: secondo alcuni si giunse sino a duecentomila. In ogni caso, come si diceva, fu il più sanguinoso bombardamento della storia.
Anche grazie all’apertura recente degli archivi militari, oggi sappiamo bene quale sia stata l’impeccabile pianificazione dell’operazione che doveva cancellare una della più belle città d’Europa.
Alle 22 del 13 febbraio di quel 1945, sul cielo di Dresda apparvero squadriglie incaricate di lanciare le bombe luminose con le quali inquadrare l’area dell’olocausto. Seguì una prima ondata di quadrimotori, che sganciò bombe dirompenti che avevano la funzione di sbriciolare tutti i vetri e scoperchiare i fragili tetti in legno della città antica, così da creare condizioni ottimali per le bombe incendiarie. Queste, nella misura di oltre seicentomila, furono lanciate dalla seconda ondata.
A quel punto, tutta Dresda non era che un mare di fiamme. Ma, a Londra, i pianificatori dell’operazione avevano deciso che questo non bastava: bisognava uccidere anche quelli che erano ammassati nei rifugi sotterranei e distruggere quanto restava della difesa civile in quella zona della Germania. Così, si era previsto di attendere alcune ore, per dare tempo ai soccorritori di accorrere da tutta la regione.
Dunque, solo verso le 2 di quella tragica notte, sul cielo della città si presentò la terza ondata di quattrocento bombardieri che sganciò un tappeto di bombe ad alto potenziale che non avevano solo la funzione di sterminare (come avvenne) pompieri e infermieri, ma anche quella di creare la cosiddetta “tempesta di fuoco”.
Gli Alleati in effetti avevano scoperto, nei molti bombardamenti a tappeto precedenti, che stendere uno strato di esplosivo su una città già in fiamme provocava un vero e proprio uragano: le correnti d’aria arroventata si facevano turbini che producevano una tale saturazione di gas tossici da provocare la morte di coloro che erano nei rifugi. Così, dunque, avvenne per Dresda.
Ma se per caso, malgrado tutto, ci fosse stato qualche superstite? Anche a questo avevano pensato a Londra, e il compito fu lasciato agli americani. Questi, quando già il sole era sorto, giunsero sulla città ormai morta, dalla quale si levava una colonna di fumo e di gas visibile a oltre duecento chilometri. La squadra Usa era composta soprattutto di cacciabombardieri che dovevano completare la pulizia, abbassandosi a mitragliare quanto ancora si muovesse: qualche scampato in fuga sulle strade, gente ammassata sotto le rovine dei ponti, mezzi superstiti dei soccorritori.
Ma non era finita: per convincere davvero ogni tedesco che non c’era per lui alcuno scampo, la notte seguente fu sottoposta a bombardamento a tappeto Chemnitz, la grande città più vicina a Dresda.
Da quella trappola, in effetti, qualcuno era riuscito a scappare, rifugiandosi a Chemnitz grazie a una ferrovia che ancora funzionava: anch’egli doveva morire, sempre in nome del principio della “responsabilità collettiva”. Chiunque fosse in Germania, insomma, doveva rispondere delle colpe di Hitler e soci. Personaggi, questi, che nessuno storico riuscirà mai ad assolvere: val forse la pena di ripeterlo? Ma vale però la pena di convincersi che neppure i “paladini del bene” sono mai senza colpa: come avviene, del resto, per ciascun uomo.
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