Se l’essere di Dio sia una verità indubitabile [1][3]
Si domanda anzitutto se l’essere di Dio sia una verità indubitabile. Che sia così si dimostra seguendo una triplice via.
La prima è questa: ogni verità naturalmente impressa in tutte le menti è indubitabile.
La seconda è la seguente: ogni verità proclamata da ogni creatura è indubitabile.
La terza via è questa: ogni verità certissima ed evidentissima in se stessa è indubitabile.
Quanto alla prima via si procede in questo modo; dimostrando con argomenti di autorità e di ragione che l’essere di Dio è impresso in tutte le menti razionali.
1. Giovanni Damasceno, nel primo libro (De fide orthod.), al capitolo terzo, afferma che: «La cognizione dell’esistenza di Dio è impressa naturalmente in noi ».
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2. Cosi Ugo di San Vittore (De Sacram. p. iii, c. i) sostiene che: «Dio ha regolato a tal punto la nozione di sé presente nell’uomo che, siccome egli non avrebbe mai potuto comprenderne l’essenza nella sua totalità, non ne potesse almeno ignorare l’esistenza ».
3. Parimenti Boezio (iii De consol., prosa 2): « È impresso nelle menti degli uomini il desiderio del vero e del bene »; ma il desiderio del vero bene presuppone la conoscenza di esso, perciò nelle menti degli uomini sono impresse la nozione del vero bene ed un desiderio di ciò che è sommamente desiderabile. E questo bene è Dio; dunque ecc.
4. Agostino in più passi del De Trinitate (ix, 2, 2, ss.; xii, 4, 4 nss.; xiv, 8, ll ss.), dice che l’immagine consiste nella mente, nella notizia e nell’amore, e che il carattere di immagine si scopre nell’anima in relazione a Dio; se dunque è naturalmente impressa nell’Anima l’immagine di Dio, l’anima ha naturalmente innata la conoscenza di Dio. Ma la prima cosa che si conosce di Dio è la sua esistenza; dunque la conoscenza di essa è naturalmente innata nella mente umana.
5. Aristotele (ii, Poster., 15) afferma che « non sarebbe conveniente che possedessimo cose nobilissime e non lo sapessimo »; perciò, essendo l’esistenza di Dio una verità nobilissima, presentissima a noi, non è conveniente che tale verità rimanga nascosta all’intelletto umano.
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6. Inoltre: è innato nelle menti degli uomini un desiderio di sapienza, poiché, dice Aristotele (i, Metaf., I): « Tutti gli uomini per natura desiderano sapere »; ma la sapienza sommamente desiderabile è quella eterna; perciò è profondamente insito nella mente umana il desiderio di tale sapienza. Ma, come si è detto prima, non c’è amore se non di ciò che è in qualche modo conosciuto; perciò è necessario che una qualche nozione di quella somma sapienza sia impressa nella mente umana. Ma questo è in primo luogo sapere che Dio stesso o quella sapienza esiste.
7. Inoltre, il desiderio della beatitudine è insito a tal punto in noi che a proposito di nessuno si può dubitare se voglia o no essere beato, come dice in più passi Agostino (De Trin. XllI, 3, 3; 4, 7 ss.; 20, 25); ma la beatitudine consiste nel sommo bene che è Dio; perciò, se tale desiderio non può esistere senza una qualche notizia, è necessario che tale nozione mediante la quale si conosce che esiste il sommo bene, ossia Dio, sia impressa nella stessa anima.
8. È impresso pure nell’anima un desiderio di pace ed impresso a tal punto che lo si ricerca anche nel suo contrario; e questo desiderio non può essere neppure tolto ai dannati ed ai demoni, secondo quanto si dimostra nel libro diciannovesimo del De civitate Dei (13,lss.). Se, dunque, la pace di una mente razionale non si trova se non in un ente immutabile ed eterno ed il desiderio presuppone una nozione od una conoscenza, la conoscenza di un ente immutabile ed eterno è innata nello spirito razionale.
9. Inoltre, è insito nell’anima l’odio della falsità; ma ogni odio nasce dall’amore; perciò è molto più radicato nell’anima l’amore della verità e specialmente di quella verità per la quale l’anima è stata fatta. Se dunque Dio è la verità prima, consegue necessariamente che la nozione della prima verità è insita nell’intelligenza razionale. Che l’odio dell’errore, poi, sia insito nella mente umana, appare dal fatto che nessuno vuol essere ingannato, come dice Agostino nel libro decimo delle Confessioni (23, 33 ss.). Che l’odio sia causato dall’ amore mostra ancora Agostino nel libro quattordicesimo del De civitate Dei (7, 2); nessuno infatti odia qualcosa se non perché ama il suo opposto.
10. Inoltre, è impressa nell’anima razionale la conoscenza di sé, perché l’anima è presente a se stessa e conoscibile per se stessa; ma Dio è presentissimo all’anima e conoscibile per se stesso; perciò è impressa nella stessa anima la nozione del suo Dio. Se tu dicessi che non è la stessa cosa perché l’anima è proporzionata a sé ma Dio non è proporzionato all’anima, risponderei: la tua obiezione non vale, perché se la proporzionalità fosse necessaria alla conoscenza, l’anima non giungerebbe mai alla conoscenza di Dio poiché non può essere paragonata a Lui né per natura, né per grazia, ne per gloria.
Con queste ragioni, dunque, si dimostra che l’esistenza di Dio è una verità indubitabile naturalmente impressa nell’intelligenza umana; nessuno infatti dubita se non di ciò di cui non possiede una conoscenza certa.
Questo si dimostra per la seconda via così; ogni verità proclamata da tutte le creature è indubitabile; ma ogni creatura proclama l’esistenza di Dio. Che, poi, ogni creatura proclami Resistenza di Dio, si dimostra in base a dieci aspetti delle cose ed a proposizioni immediatamente evidenti.
11. La prima è questa: se c’è l’ente che vien dopo c’è l’ente che vien prima poiché l’ente che vien dopo dipende da quello che vien prima; se dunque vi è l’insieme degli enti che vengono dopo, e necessario che vi sia un primo ente. Se, pertanto, è necessario ammettere un prima e un poi nelle creature, è necessario che l’insieme delle creature implichi e proclami l’esistenza di un primo principio.
12. Inoltre, se esiste un ente che dipende da un altro, esiste anche l’ente che non dipende da un altro, poiché nulla può far passare se stesso dal non essere all’essere; dunque, è necessario che vi sia una prima ragion d’essere che è nell’ente primo, il quale non è stato prodotto da un altro. Se dunque l’ente che dipende da un altro è detto ente creato e l’ente che non dipende da un altro è detto ente increato ed è Dio, tutti i diversi tipi di ente implicano l’esistenza di Dio.
13. Inoltre, se vi è l’ente possibile deve esserci l’ente necessario perché il possibile dice indifferenza all’essere e al non essere; ma non può un ente essere indifferente ad essere e a non essere se non in virtù di qualcosa che è pienamente determinato all’essere. Se dunque l’ente necessario che non ha assolutamente alcuna possibilità di non essere è soltanto Dio ed ogni altro ente ha qualche possibilità di non essere, ogni differente tipo di ente implica l’esistenza di Dio.
14. Inoltre, se vi è un ente relativo deve esserci anche l’ente assoluto poiché il relativo non è tale se non rispetto all’assoluto; ma l’ente assoluto non può essere detto dipendente da nessun altro se non perché non riceve nulla da un altro; e questo è l’ente primo; mentre ogni altro ente ha una qualche dipendenza; quindi è necessario che ogni differente tipo di ente implichi l’esistenza di Dio.
15. Inoltre, se vi è un ente limitato o parziale vi è l’ente che è assolutamente, perché l’ente parziale non può né essere, né essere concepito se non per mezzo dell’ente che è assolutamente; e l’ente limitato non può esistere ed essere concepito se non in virtù dell’ente perfetto, come la privazione non si concepisce se non per mezzo del positivo. Se pertanto ogni ente creato è parziale, solo l’ente increato è ente che è assolutamente e perfetto; perciò è necessario che ogni diverso tipo di ente implichi e supponga l’esistenza di Dio.
16. Inoltre, se vi è un ente ordinato ad altro deve esserci un ente autosufficiente, altrimenti non esisterebbe il bene; ma l’ente autosufficiente non è se non quell’ente di cui non può esservi migliore, cioè lo stesso Dio; perciò, poiché la totalità degli altri enti è ordinata a lui, la totalità degli enti implica l’esistenza e la nozione di Dio.
17. Inoltre, se vi è un ente per partecipazione deve esserci un ente per essenza, perché la partecipazione non si riferisce se non a qualcosa di posseduto essenzialmente da qualcos’ altro poiché ogni predicato accidentale si riconduce a un predicato essenziale; ma qualunque ente diverso dall’ente primo che è Dio, ha l’essere per partecipazione, mentre solo Lui ha l’essere per essenza.
18. Inoltre, se vi è l’ente in potenza deve esserci l’ente in atto poiché la potenza non può passare all’atto se non in virtù di un ente in atto e la potenza non sarebbe tale se non potesse passare all’atto; se, dunque, quell’ente che è atto puro e non ha in sé alcuna possibilità non può essere che Dio, è necessario che ogni ente diverso dal primo implichi l’esistenza di Dio.
19. Inoltre, se vi è un ente composto deve esserci un ente semplice perché il composto non ha l’essere da sé ed è perciò necessario che abbia la sua origine da un ente semplice ma l’ente semplicissimo, che non ha in sé alcuna composizione, non può essere che l’ente primo; perciò ogni altro ente implica Dio.
20. Inoltre, se vi è un ente mutevole deve esserci un ente immutabile, perché, secondo quel che prova Aristotele (Fis. viii, 5; Metaf. xi, 7), il moto proviene da un ente immobile e ha per fine un ente immobile; se, dunque, l’ente del tutto immutabile non può essere se non quell’ ente primo che è Dio e gli altri enti creati per il fatto stesso di essere creati sono mutevoli, è necessario che l’esistenza di Dio sia inferita da ogni differente tipo di ente.
Da questi dieci presupposti necessari ed evidenti si inferisce che tutti i diversi tipi o zone dell’ente implicano e proclamano l’esistenza di Dio. Se, dunque, ognuna di queste verità è indubitabile, è necessario che l’esistenza di Dio sia una verità indubitabile.
La medesima conclusione è dimostrata per la terza via così: ogni verità così certa da non poter essere negata senza contraddizione è una verità indubitabile; ma l’esistenza di Dio è tale; dunque ecc. La maggiore è immediatamente evidente, la minore si dimostra in vari modi.
21. Infatti Anselmo, nel capitolo quarto del Proslogio, dice: « Ti ringrazio. Signore buono, poiché quello che prima credevo per tuo dono, ora lo capisco per influsso della tua luce, sicché, se anche non volessi credere che tu esisti, non potrei non saperlo ».
22. E questa verità è provata da Anselmo come segue: Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore; ma ciò che non può essere pensato non esistente è più vero di ciò che può essere pensato non esistente; dunque, se Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore. Dio non può essere pensato non esistente.
23. Inoltre, l’ente di cui non si può pensare il maggiore è di tale natura che non può essere pensato se non esiste anche nella realtà; poiché se esistesse nel solo pensiero non sarebbe l’ente di cui non si può pensare il maggiore; dunque, se un tale ente è pensato, è necessario che esista in realtà in tal modo da non poter essere pensato non esistente.
24. Ancora Anselmo (Prosl. 5) affermia : « Tu sei tutto ciò che è meglio esista piuttosto die non esista »; ma ogni verità indubitabile è migliore di ogni verità dubbia; perciò a Dio si deve attribuire piuttosto l’essere indubitabile che l’essere dubitabile.
25. Inoltre Agostino dice nei Soliloqui (i, 8,5) che nessuna verità può essere vista se non nella prima verità; ma la verità nella quale è vista ogni altra verità è sommamente indubitabile; perciò l’esistenza di Dio non è solo una verità indubitabile, ma anche una verità di cui non si può pensare nulla di più indubitabile; dunque è una verità tale da non poter essere pensata non esistente.
26. Agostino (Sol. I, 15, 27 ss.; II, 2,2; e 15,28) dimostra questa stessa verità come segue: tutto ciò che si può pensare si può anche enunciare; ma in nessun modo si può enunciare che Dio non esiste senza affermare insieme che Dio esiste. E questo si dimostra come segue: poiché se non vi è alcuna verità è vero che non c’è la verità, e, se è vero queste, esiste qualche verità e, se esiste qualche verità, esiste la verità prima, pertanto, se non si può affermare che Dio non esiste non lo si può neppure pensare.
27. Quanto maggiore e più universale è una verità tanto è più nota; ma questa verità con la quale si dice che esiste il primo ente è la prima fra tutte le verità sia nell’ordine ontologico che in quello logico; perciò è necessario che essa stessa sia certissima ed evidentissima. Ma la verità degli assiomi e delle proposizioni più universali è a tal punto evidente a causa della loro priorità che essi non possono essere pensati come inesistenti; pertanto nessuna intelligenza può pensare che la stessa prima verità non esista o dubitare della sua esistenza.
28. « Nessuna proposizione è più vera di quella nella quale la stessa proprietà è predicata di se stessa » (Boezio, Periherm. Arìstot., i, 14); ma quando dico che Dio è, l’essere detto di Dio è identico con Dio perché Dio è il suo stesso essere; dunque nessuna proposizione è più vera ed evidente di quella che dice: Dio è, dunque nessuno può pensare che essi sia falsa o dubitarne.
29. Inoltre nessuno può ignorare che questa proposizione: l’ottimo è ottimo, sia vera, oppure pensare che sia falsa; ma l’ottimo è un ente completissimo ed ogni ente, per il fatto stesso di essere completissimo, è anche in atto; pertanto, se l’ottimo è ottimo, l’ottimo è. Similmente si può argomentare: se Dio è Dio, Dio è; ma l’antecedente è vero a tal punto che non può essere pensato non esistente; pertanto l’esistenza di Dio è una verità indubitabile […].
rispondo. Per la comprensione delle cose predette occorre notare che una cosa si dice indubitabile per privazione del dubitabile; ora il dubitabile si dice in due sensi: o per il discorso della ragione o per difetto di ragione. Il primo modo di intendere riguarda il conoscibile ed il conoscente; il secondo modo di intendere solo il conoscente. Dubitabile nel primo senso è detta qualche verità perché le manca il carattere di evidenza o in sé, o in rapporto ad un medio probante, o in rapporto all’intelletto che apprende. Ma in nessuno di questi modi di intendere manca la certezza a questa verità che è l’esistenza di Dio.
È certo infatti allo stesso intelletto conoscente che la conoscenza di questa verità è innata nella mente razionale in quanto la mente ha carattere di immagine grazie alla quale sono insiti in lei il naturale desiderio, la nozione e la memoria di Colui ad immagine ilei quale è stata creata e verso il quale tende naturalmente per poterne essere beatificata.
La verità dell’ esistenza di Dio è ancora più certa in rapporto alla ragione probante. Infatti tutte le creature, sia considerate secondo le loro proprietà positive che difettive, con voci altisonanti proclamano l’esistenza di Dio del quale hanno bisogno a causa della loro mancanza di perfezione e dal quale ricevono perfezione. Per cui secondo la loro maggiore o minore perfezione proclamano alcune con grande, altre con maggiore, altre con grandissima voce che Dio esiste.
E tale verità è anche certissima in sé per il fatto che è una verità prima e immediatissima nella quale non solo la nozione del predicato è contenuta nel soggetto, ma è lo stesso l’essere che è predicato e il soggetto di cui è predicato. Perciò, come ripugna sommamente al nostro intelletto l’unire termini differentissimi fra loro, perché nessun intelletto può pensare che qualche cosa esista o non esista al tempo stesso, così ripugna la divisione di qualche cosa che è totalmente uno e indiviso; per cui, come è evidentissimamente falso che una stessa cosa esista e non esista, o che esista in modo sommo o non esista affatto, così è una verità evidentissima che il primo e sommo ente esiste. Pertanto, se si ritiene indubitabile ciò che toglie ogni dubbio per discorso della ragione, l’esistenza di Dio è una verità indubitabile poiché, sia che l’intelletto penetri in se stesso, sia che esca fuori di sé, sia che guardi sopra sé, se procede razionalmente conosce con certezza ed indubitabilmente l’esistenza di Dio.
Se poi si considera l’indubitabile nel secondo senso, in quanto cioè toglie il dubbio che deriva da un difetto di ragione,allora si può concedere che per un difetto degli uomini qualcuno possa dubitare che Dio esiste, e ciò per un triplice difetto dell’intelletto conoscente:
1) o quanto all’atto dell’apprendere,
2) o quanto all’atto del giudicare,
3) o quanto all’atto di ricondurre a un primo principio.
1) Quanto all’atto dell’apprendere, il dubbio si inserisce quando il significato del nome Dio non è assunto in modo reno e nella sua pienezza ma solamente per qualche suo aspetto, come hanno fatto i pagani i quali pensavano che Dio fosse tutto ciò che era superiore all’uomo e poteva prevedere in qualche modo il futuro e perciò credevano che gli idoli fossero dei e li adoravano come dei perché davano talvolta responsi veritieri sul futuro.
2) Quanto all’atto del giudicare, il dubbio si ha quando il giudizio è parziale, come quando lo stolto vede che non si fa manifestamente giustizia dell’empio e ne conclude che non esiste provvidenza nell’universo e, perciò, che non esiste in esso un rettore primo e sommo come Dio eccelso e glorioso.
3) Similmente, quanto al difetto nel ricondurre a un primo principio: il dubbio subentra quando un intelletto carnale non sa arrivare se non sino a quello che i sensi mostrano, vale a dire, alle realtà corporee; per il qual motivo alcuni ritennero che questo sole visibile che occupa un posto preminente fra le creature corporee fosse Dio, perché non erano capaci di giungere sino alla sostanza incorporea, né sino ai primi principi delle cose. E così nella proposizione Dio esiste può sorgere un dubbio causato da un difetto dell’intelletto che apprende, o che giudica, o che riconduce a un primo principio; e secondo un tale modo difettoso di intendere, qualche intelletto può pensare che Dio non esiste, perché esso non comprende con sufficiente integrità il significato del termine Dio. Ma quell’intelletto che comprende appieno il significato di questo nome: Dio e ritiene che Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore, non solo non dubita che Dio esiste, ma anche in nessun modo può pensare che Dio non esiste. Perciò dobbiamo ammettere come vere le ragioni che lo dimostrano esistente.
La contemplazione di Dio per mezzo della sua immagine impressa nelle potenze dell’anima[2][4]
1. Poiché i due gradi precedenti, guidandoci a Dio attraverso le sue orme per mezzo delle quali Egli risplende in tutte le sue creature, ci hanno condotti sino al punto di rientrare in
noi, nel nostro spirito nel quale risplende l’immagine divina, ora, in terzo luogo, rientrando in noi stessi e lasciando fuori l’atrio, dobbiamo sforzarci di vedere Dio come in uno
specchio, nel santo[3][5]3, nella parte anteriore del tabernacolo; lì la luce della verità brilla come un candelabro di fronte alla nostra mente nella quale risplende l’immagine della beatissima Trinità.
Entra, dunque, dentro di te e osserva con quale ardore la tua mente ama se stessa; ora, essa non potrebbe amarsi se non si conoscesse e non potrebbe conoscersi se non avesse il ricordo di sé, poiché la nostra intelligenza non apprende se non ciò che è presente alla nostra memoria; vedi, perciò, non con l’occhio della carne, ma con quello della ragione, che la tua anima possiede una triplice potenza. Considera le attività e i rapporti di queste tre potenze e potrai vedere Dio in te stesso come nella sua immagine, il che significa vedere in uno specchio « in aenigmate ».
2. L’attività della memoria consiste tiri ritenere e rappresentare non solo le realtà presenti, corporee e temporali, ma anche le realtà che si susseguono, che sono semplici ed eterne.
Infatti la memoria ritiene il passato col ricordo, il presente con l’apprensione e il futuro con la previsione. Ritiene anche le cose semplici, cioè i principi delle quantità continue e discrete come il punto, l’istante e l’unità senza cui sarebbe impossibile il ricordare o il pensare quelle cose che da essi hanno principio. Ritiene anche i principi e gli assiomi delle scienze come realtà eterne e in modo eterno poiché mai può dimenticarli sin tanto che conserva l’uso della ragione, e se li sente nominare, non può non approvarli e concedere ad essi il suo assenso, e non come se li percepisse di nuovo, ma come se li riconoscesse come innati e familiari.
Per convincersene basta proporre a qualcuno « Il principio di non contraddizione » (Arist., i , Post. ,10) od il principio: « II tutto è maggiore della parte», o qualunque altro principio che la « ragione interiormente» non può contraddire. Ritenendo attualmente tutte le cose temporali, ossia il passato, il presente e il futuro, la memoria porta in sé l’immagine dell’eternità il cui presente indivisibile si estende a tutti i tempi. Con la capacita di ritenere le cose semplici, la memoria dimostra di possedere non solo la possibilità di essere informata dalle immagini esteriori, ma anche da un principio superiore, possedendo in se stessa delle forme semplici che non possono entrare per le porte dei sensi e delle fantasie sensibili. Ritenendo i principi e gli assiomi delle scienze, essa dimostra di possedere una luce immutabile sempre presente a sé, nella quale si ricorda delle verità che non cambiano mai. E così, dalle attività della memoria risulta che l’anima stessa è immagine e similitudine di Dio, a tal punto presente a sé ed avente Dio così presente da poterlo comprendere in un atto ed essere «potenzialmente capace di possederlo e di parteciparne » (Agostino, De Trin. xiv, 8, 11).
3. L’attività della potenza intellettiva, poi, consiste nel comprendere il significato dei termini, delle proposizioni e delle argomentazioni. Ora l’intelletto comprende il significato
dei termini quando apprende mediante la definizione che cosa è una cosa. Ma ogni definizione si fa per mezzo di termini generali, e questi si definiscono per mezzo di termini ancor più generali, sinché si arriva alle nozioni supreme e generalissime senza le quali non possono essere definiti neppure i concetti più specifici. Se dunque non si conosce che cos’è l’ente per sé, non si può conoscere adeguatamente la definizione di alcuna sostanza specifica. E l’ente per sé non può essere conosciuto se non in unione con le sue proprietà che sono: unita, verità e bontà. L’ente, poi, può essere pensato: parziale o completo, imperfetto o perfetto, in potenza o in atto, come modo di essere o come ente simpliciter, come parziale o totale, transeunte o permanente, condizionato o incondizionato, come misto al non essere o come ente puro, come dipendente o assoluto, successivo o antecedente, mutevole o immutabile, semplice o composto; e siccome « le privazioni ed i difetti non possono essere conosciuti se non per mezzo di concetti positivi» (Averroè, De Anima, text. 25), il nostro intelletto non si rende conto pienamente del concetto di nessun ente creato se non ha l’idea dell’ente purissimo, attualissimo, completissimo e assoluto che è l’ente senza altre aggiunte ed eterno, nel quale si trovano nella loro purezza le ragioni di tutte le cose. Come, dunque, l’intelletto potrebbe sapere che quest’ ente è manchevole e incompleto se non avesse alcuna cognizione dell’ente privo di ogni difetto? Lo stesso dicasi delle altre proprietà ricordate. Diciamo, poi, che il nostro intelletto intende veramente le proposizioni, quando sa con certezza che sono vere; e saper questo vuol dire che non può ingannarsi in quella conoscenza.
Esso sa, infatti, che quella verità non può essere diversa e che, dunque, è immutabile. Ma poiché la nostra mente è mutevole, essa non potrebbe vedere quella verità risplendere immutabilmente se non con l’aiuto di una luce che risplende immutabilmente, la quale non può essere una creatura mutevole. Esso conosce dunque in quella luce che illumina ogni uomo veniente in questo mondo, la quale è vera luce, il Verbo che fin dal principio è presso Dio (Giov. 1,1 e 9).
Il nostro intelletto percepisce veramente una conseguenza quando vede che la conclusione segue necessariamente dalle premesse. E questo può vedere non solo quando le premesse sono necessarie, ma anche quando si riferiscono a realtà contingenti come: « se un uomo corre, un uomo si muove». Ed il nostro intelletto percepisce questo rapporto necessario non solo a proposito di enti, ma anche a proposito di non enti. Come infatti quando un uomo esiste, segue: « se un uomo corre, si muove », questa proposizione condizionale vale anche se un uomo non esiste.
La necessità di tale conseguenza non deriva pertanto dall’esistenza materiale della cosa, perché essa è contingente, né dall’esistenza della cosa nella nostra anima, perché allora sarebbe una finzione se non esistesse nella realtà; ma deriva da un modello che è nell’arte eterna, in virtù della quale le cose hanno un ordine e un rapporto fra loro modellato sulla rappresentazione di quell’arte eterna. Ogni intelligenza dunque che ragiona con verità, dice Agostino nel De vera Religione (39, 72), è illuminata da quella verità eterna e ad essa si sforza di pervenire. Da ciò appare manifestamente che il nostro intelletto è unito alla stessa verità eterna poiché non può cogliere con certezza nessuna verità se quella verità non gliela insegna. Tu puoi dunque vedere, riflettendo su di te, questa verità che ti istruisce se le passioni e i fantasmi sensibili non tè lo impediscono frapponendosi come nubi fra tè e il raggio della verità.
4. L’operazione della facoltà che porta alla scelta si esplica nella deliberazione, nel giudizio e nel desiderio. La deliberazione consiste nel ricercare che cosa sia meglio, se questo o quest’altro. Ma il meglio non può essere definito tale se non in rapporto all’ottimo; ed il rapporto consiste nella maggiore o minore somiglianza di esso rispetto all’ottimo; nessuno dunque sa se una cosa è migliore di un’altra se non sa che essa è più simile all’ottimo. E nessuno sa se essa è più simile a un’altra se non conosce quest’altra; infatti non posso sapere se un tale è simile a Pietro se non so chi è o non conosco Pietro. Pertanto la nozione del sommo bene è necessariamente impressa in chiunque debba deliberare.
Ma non si arriva a un giudizio certo sulle cose da deliberare se non in virtù di una legge. E nessuno giudica con certezza secondo una legge se non è certo che quella legge è retta e che egli non deve giudicare di essa. Ora la mente umana giudica se stessa ma non può giudicare la legge per mezzo della quale essa giudica; perciò quella legge è superiore alla mente umana la quale giudica mediante questa in quanto le è impressa. Ma niente è superiore alla mente umana se non Colui che l’ha creata; pertanto l’attività deliberativa, se agisce in piena consapevolezza, quando giudica attinge alle leggi divine.
Il desiderio ha per oggetto principale ciò che sommamente lo attira. E sommamente attira quel che sommamente si ama; ma quel che sommamente si ama è la felicità; e la felicità non si possiede se non nel fine ottimo e ultimo, perché il desiderio umano non tende se non al bene sommo o a ciò che ad esso conduce o possiede una qualche immagine di quello.
Tanto grande è l’attrattiva del sommo bene che la creatura non può amare nulla se non per il desiderio di esso. E si inganna ed erra quando prende l’immagine e il simulacro per
la vera realtà.
Vedi, dunque, come l’anima è vicina a Dio e la memoria, con le sue operazioni, conduce all’eternità, l’intelligenza alla verità, la volontà alla somma bontà.
5. L’ordine, l’origine e i mutui rapporti di queste facoltà, ci conducono alla stessa beatissima Trinità. Infatti, dalla memoria nasce l’intelligenza come sua prole, perché noi abbiamo intelligenza quando l’immagine che è nella memoria si riflette in quel vertice dell’intelletto e diventa parola; dalla memoria e dall’ intelligenza, poi, sgorga l’amore come loro nesso. Queste tre facoltà, cioè: la mente generatrice, il verbo e l’amore,corrispondono nell’anima, alla memoria, all’intelligenza e alla volontà e sono consustanziali, coeguali, contemporanee e compenetrantesi a vicenda. Se, dunque, Dio è perfetto spirito, possiede memoria, intelligenza e volontà, possiede anche il Verbo generato e l’Amore risultante, i quali sono necessariamente distinti poiché uno è generato dall’altro e non essenzialmente o accidentalmente ma personalmente.
Pertanto quando la mente considera se stessa, allora, come per mezzo di uno specchio, si eleva verso la contemplazione della beata Trinità, del Padre, del Verbo e dell’Amore, delle tre persone coeterne, coeguali e consustanziali, esistenti ciascuna nelle altre senza contendersi con esse, ma essendo tutte e tre un solo Dio.
La contemplazione dell’unità divina nel suo primo nome che è l’essere[4][6]
1. Possiamo contemplare Dio non soltanto fuori e dentro di noi, ma anche sopra di noi; fuori di noi attraverso l’orma che Egli ha lasciato nelle creature, dentro di noi attraverso la Sua immagine impressa nella nostra anima, e sopra di noi attraverso il lume che è segnato sulla nostra mente che è la luce della Verità eterna dalla quale « la nostra mente è immediatamente informata» (Agostino, De div. quaest. lxxxiii, 51, 2-4). Coloro che si sono esercitati nel primo grado sono già entrati nell’atrio che si trova davanti al tabernacolo; coloro che si sono esercitati nel secondo grado sono entrati nel santo; coloro che sono passati per il terzo grado entrano con il Sommo Sacerdote nel santo dei santi dove, sopra l’arca si trovano i Cherubini di gloria ad adombrare il propiziatorio; e questi Cherubini rappresentano i due modi o gradi per mezzo dei quali noi possiamo contemplare le invisibili ed eterne perfezioni di Dio; il primo riguarda gli attributi essenziali di Dio, l’altro le proprietà delle persone divine.
2. Il primo modo. anzitutto e principalmente, ci fa fissare lo sguardo nello stesso essere ed affermare che il primo nome di Dio è: Colui che è. Il secondo modo ci fa fissare lo sguardo nel bene in sé ed affermare che questo è il primo nome di Dio. Il primo si riferisce essenzialmente al vecchio Testamento che proclama soprattutto l’unità dell’essenza divina per il fatto che fu detto a Mosè: Io sono colui che sono (Esodo 3, 14). Il secondo modo di intendere si riferisce al nuovo Testamento in cui si determina la pluralità delle persone divine nella formula del battesimo che viene dato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo (Matt. 28,19). Ecco perché il nostro maestro Cristo, volendo condurre alla perfezione evangelica il giovane che aveva osservato la legge, attribuisce principalmente ed esclusivamente a Dio il nome di buono. Nessuno, dice, è buono se non Dio solo (Luc. 18,19).
[…].
3. Chi desidera dunque contemplare le invisibili percezioni di Dio nell’unità della sua essenza, rivolga anzitutto il suo sguardo verso l’essere e vedrà che esso è così certo che non può essere pensato non esistente, perché lo stesso purissimo essere non si presenta se non mettendo pienamente in fuga il non-essere così come il nulla non è se non la piena fuga dell’essere. Come, dunque, il nulla assoluto non possiede niente dell’essere né delle sue proprietà, così e inversamente, l’essere non possiede nulla del non essere, né in atto né in potenza, né secondo verità, né secondo il nostro giudizio. Ora, poiché il non essere è la privazione dell’essere, il non essere non può essere conosciuto dalla nostra intelligenza se non mediante l’essere; l’essere, invece, non è concepito in rapporto ad altro poiché tutto ciò che è conosciuto o è conosciuto come non ente o come ente in potenza, oppure come ente in atto. Se, dunque, il non-ente non può essere concepito se non mediante l’ente e l’ente in potenza se non mediante l’ente in atto e l’essere esprime il puro atto dell’ente, ne segue che l’essere è ciò che è primariamente concepito e quell’essere è atto puro. Ma questo non è l’essere particolare perché quest’ultimo è un essere limitato in quanto misto a potenza, né l’essere analogo perché non possiede attualità in quanto non esiste neppure. Perciò il puro essere in atto non può essere che l’essere divino.
4. È una strana cecità quella del nostro intelletto il quale non riflette su quello che vede prima di ogni altra cosa e senza il quale non può conoscere nulla. Ma, come l’occhio intento ad osservare le varie differenze dei colori, non vede la luce grazie alla quale può vedere il resto e, se la vede non se ne rende conto, così l’occhio della nostra mente intento ad osservare gli enti particolari ed universali non avverte l’essere per eccellenza che è al di là di ogni genere, benché esso gli si presenti per primo ed attraverso di esso conosca le altre cose. Per cui appare proprio vero che « l’occhio della nostra mente si comporta nei confronti delle realtà più evidenti della natura come l’occhio del pipistrello di fronte alla luce »
(Aristot., Metaf. Il, 1) perché, abituato alle tenebre degli esseri creati ed alle immagini delle realtà sensibili, quando vede la luce dell’essere supremo gli sembra di non vedere nulla e non capisce che questa stessa oscurità è la più grande illuminazione della nostra mente, come accade all’occhio cui sembra di non vedere nulla quando vede la luce pura.
5. Considera, dunque, se puoi, l’essere purissimo e ti accorgerai che esso non può essere pensato come derivato da altro e che perciò deve essere necessariamente pensato come assolutamente primo, tale che non può venire ne dal nulla né da un altro. Cosa infatti potrebbe considerarsi per sé se lo stesso essere non esiste per sé e non è da sé?
Tale essere ti apparirà come assolutamente privo di non essere e quindi senza principio e senza fine, cioè eterno.
Ti apparirà come non avente in sé altro che lo stesso essere e quindi a nulla unito, cioè semplicissimo.
Ti apparirà come esente da ogni possibilità poiché ogni possibile in qualche modo ha in sé del non essere e ti apparirà quindi come attualissimo.
Ti apparirà privo di ogni possibile difetto e quindi come
perfettissimo.
Ti apparirà, infine, esente da ogni possibile diversità e quindi sommamente uno.
Pertanto l’essere puro, semplice ed assoluto, è l’essere primario, eterno, semplicissimo, attualissimo, perfettissimo e sommamente uno.
Note
3 Quaestiones disputatae. De mysterio Trinitatis, q. i, art. 1; Opera, V, pp. 45-50.
4 Itinerarium mentis in Deum, cap. iii, Opera, v, pp. 303-305.
5 Qui san Bonaventura si riferisce alle tre parti in cui era diviso il
« tabernacolo » di Mosè contenente l’arca dell’alleanza simboleggiata
dalle tavole della legge e di cui si parla in Esodo 26. Tali parti erano:
l’atrio, che per Bonaventura simboleggia il mondo sensibile; il santo,
che simboleggia l’anima umana; ed il santo dei santi, che simboleggia
la visione mistica di Dio
6 Itinerarium mentis in Deum, cap. v, nn. 1-5; Opera v, pp. 308-309.
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[1] 3 Quaestiones disputatae. De mysterio Trinitatis, q. i, art. 1; Opera, V, pp. 45-50.
[2][4] Itinerarium mentis in Deum, cap. iii, Opera, v, pp. 303-305.
[3][5] Qui san Bonaventura si riferisce alle tre parti in cui era diviso il
« tabernacolo » di Mosè contenente l’arca dell’alleanza simboleggiata
dalle tavole della legge e di cui si parla in Esodo 26. Tali parti erano:
l’atrio, che per Bonaventura simboleggia il mondo sensibile; il santo,
che simboleggia l’anima umana; ed il santo dei santi, che simboleggia
la visione mistica di Dio
[4][6] Itinerarium mentis in Deum, cap. v, nn. 1-5; Opera v, pp. 308-309.