
Come tutte le esperienze che in qualche modo e secondo accenti diversi segnano la vita e, segnando la vita, rimangono memorabili, posso dire di ricordarmi la prima volta che il problema dell’affido si è -piuttosto brutalmente- proposto come possibilità concreta nella mia vita. Avevo 14 anni ed ero in macchina con mia madre; stavamo guidando verso Canazei attraverso le piantagioni di mele che coprono alcune valli del Trentino. Non sono sicuro di cosa stessimo parlando, ma ricordo con precisione il momento nel quale lei mi accennò di una bambina cieca di sei anni -Giusi- che aveva bisogno di una famiglia. Mentirei se dovessi dire che la mia prima reazione fu di spassionata gioia e caritatevole dedizione. Infatti, la possibilità di accogliere in casa mia quella che per me era una totale sconosciuta mi sembrò un’invasione della mia vita personale e, soprattutto, della nostra famiglia.
Ovviamente mi sono accorto di tutto questo solo negli anni e ripensando a quel primo momento; tuttavia direi che i miei primi sentimenti di fronte alla possibilità di un’accoglienza così estrema furono piuttosto di sconforto. Colpito così un po’ a tradimento – questa era almeno la mia percezione di allora – accettai solo perchè l’alternativa alla nostra famiglia sarebbe stata un centro per disabili gravi, i quali tendenzialmente passavano tutto il giorno legati al letto per evitare che si facessero del male. Ancora una volta, un po’ inconsciamente e quasi per buonismo, non mi sentii di far andare questa bambina – già rifiutata, bistrattata e tremendamente abusata da parte della sua famiglia naturale – in una struttura di quel tipo. Non direi quindi che il mio primo contatto con la concretezza dell’affido sia stato vissuto all’insegna della promessa contenuta in quello che l’affido di fatto rappresenta, ovvero la promessa della carità profonda e di una umanità compiuta.
Gli anni successivi, almeno fino a quando mi sono trasferito da Genova a Milano per l’università, sono stati vissuti un po’ come il riflesso di questa prima reazione. Senza voler addurre facili scusanti alla mia iniziale e persistente resistenza nei confronti dell’affido (e quindi di Giusi), questa bambina arrivava anche in un periodo per me segnato dall’emergere confuso di tutta una serie di domande legate alla morte di mio padre. La necessità inconscia di una stabilità, che era già stata dissestata dal lutto e dall’incipiente adolescenza, sembrava destabilizzarsi ulteriormente per via dell’arrivo di Giusi. Inoltre, la percezione di un costante abbandono sembrava essere aggravata dal fatto che ora mia madre avrebbe dovuto dedicare molto del suo tempo a questa sconosciuta.
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Capisco che questo possa sembrare contraddittorio con l’esperienza dell’affido e che idealmente l’accoglienza rappresenti l’apice di una posizione realmente umana; ciononostante, non posso negare che la traumatica esperienza legata all’arrivo di Giusi mi sia servita a capire, più tardi, in che cosa l’affido realmente consista. In tutti questi anni di continuo e persistente rifiuto da parte mia, infatti, la testimonianza di mia madre e l’apparente irragionevolezza della sua scelta – apparentemente irragionevole per via della sua condizione (vedova e madre di due figli già di loro piuttosto irrequieti) – hanno accompagnato silenziosamente la mia resistenza. Quello che nel tempo mi ha permesso di comprendere meglio il valore dell’accoglienza puramente gratuita non è stato altro che la fedeltà (non scevra di sviste, ma comunque sempre genuina) di mia madre a Chi le chiedeva di essere incontrato attraverso l’accoglienza di Giusi senza pretendere di salvarla, cioè Gesù. Nel tempo, infatti, la sua costante passione per il fatto di Gesù incontrato carnalmente in chi concretamente chiedeva, seppur silenziosamente, di essere accolto, ebbene questa passione ha come scrostato la mia resistenza. non direi che ci sia stato un momento preciso in cui mi ricordi di aver cambiato idea o percezione dell’affido. Direi, invece, che quasi per osmosi il cambiamento sia avvenuto come una graduale apertura, un graduale cedimento al fascino di una posizione umana – quella della gratuita accoglienza che mia madre incessantemente proponeva con la sua testimonianza – più conveniente perchè più bella. Dopo Giusi, infatti, molti altri sono arrivati; mi colpisce però il fatto che ora, quando torno a casa, non potrei più concepire la mia famiglia senza gli accolti (che io ironicamente chiamo “i matti”) che oramai popolano la casa famiglia di mia madre. Di più, quando ora penso a cosa significhi avere una famiglia, a cosa sia una famiglia o quale sia la famiglia che voglio per me, non riesco a svincolare il concetto di famiglia da quello di accoglienza.
Ad anni di distanza da quel primo giorno, infatti, mi sono accorto di come una famiglia che non sia aperta al mondo e disponibile all’accoglienza del mondo – cioè che non faccia esperienza di se stessa come carità – non possa finire altrimenti se non in un annullamento di se stessa e del mondo che la circonda. L’affido, in questo senso, forse rappresenta la modalità ad oggi più diretta per l’incarnarsi della carità, cosa che ho visto accadere con i miei occhi in mia madre.
Paolo