LEXICON: Unioni di fatto

Pontificio consiglio per la famiglia (a c. di), Lexicon.
Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, Bologna. EDB, 2003, pp. 835-851.

di Héctor Franceschi
** Dottore in diritto canonico e in diritto civile
(Università di Navarra), avvocato della Rota romana,
vicerettore della Pontificia università della Santa
Croce a Roma. Professore alla Facoltà di diritto canonico
della Pontificia università della Santa Croce, dove è
coordinatore di studi e direttore tecnico del corso di
specializzazione in diritto canonico del matrimonio e
della famiglia. Collaboratore dell’Istituto di scienze
per la famiglia dell’Università di Navarra. È stato
invitato a partecipare a numerosi corsi, convegni e
riunioni in materia matrimoniale e familiare. Autore di
numerose pubblicazioni, tra cui: Curso de actualización
en derecho matrimonial y procesal (2001).
___

Il riconoscimento e la conseguente registrazione, sul
piano legale, in un numero crescente di paesi, delle
«unioni di fatto», sotto forma di «contratti» tra le
parti interessate che accordano a tali unioni uno statuto
e dei vantaggi sociali simili oppure alternativi a quelli
riservati ai matrimoni, ha provocato una reazione,
talvolta indignata, da parte delle popolazioni alle quali
erano imposte senza il loro consenso, e senza che ci
fosse stato un reale dibattito pubblico preliminare.
Ha anche portato, per contraccolpo, a una riflessione
nuova, e salutare, su ciò che costituisce il matrimonio,
e fa sì che nessun «patto», fosse pure «civico» e «di
solidarietà» (ad esempio il PACS francese), può
pretendere di sostituirsi a questa istituzione naturale,
con cui un uomo e una donna si danno l’uno all’altra
per la vita, in un’unione permanente ed esclusiva, aperta
alla procreazione.
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Premessa

Le unioni di fatto, fenomeno che negli ultimi anni si è
diffuso nella società, soprattutto in quella occidentale,
interpellano la coscienza di tutte le persone che credono
alla famiglia fondata sul matrimonio come un bene per la
persona e per la società umana.
La Chiesa, più intensamente negli ultimi tempi, ha fatto
uno sforzo per ricordare la fiducia dovuta alla persona
umana e alla sua libertà, dignità e valori, nonché la
speranza che proviene dall’azione salvifica di Dio nel
mondo, la quale aiuta la persona a superare ogni debolezza.
Allo stesso tempo, ha manifestato la sua grande
preoccupazione di fronte ai diversi attentati alla persona
umana e alla sua dignità, rendendo noti anche alcuni
presupposti ideologici propri della cultura «postmoderna»,
che rendono difficile comprendere e vivere i valori che
esige la verità sulla persona umana.
Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali,
ma di una messa in discussione globale e sistematica del
patrimonio morale, basata su determinate concezioni
antropologiche ed etiche.
Alla loro radice sta l’influsso più o meno nascosto di
correnti di pensiero che finiscono per sradicare la
libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto
con la verità [1].

Quando si produce questo svincolamento tra libertà e
verità, viene meno ogni riferimento a valori comuni e a
una verità assoluta per tutti: la vita sociale si
avventura nelle sabbie mobili di un relativismo totale.
Allora tutto è convenzionabile, tutto è negoziabile: anche
il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita [2].

Certamente, si tratta di una messa in guardia anche per
quanto riguarda la realtà del matrimonio e la famiglia,
unica fonte e cammino pienamente umano di realizzazione
della propria tendenza sessuale mediante la fondazione di
un rapporto proprio in quanto si è uomo e donna, il quale
richiede un’adeguata comprensione della libertà umana,
contro quella frequente corruzione dell’idea e
dell’esperienza della libertà, concepita non come la
capacità di realizzare la verità del progetto di Dio sul
matrimonio e la famiglia, ma come autonoma forza di
affermazione, non di rado contro gli altri, per il proprio
egoistico benessere [3].

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Nel contesto di una società frequentemente lontana dai
valori della verità della persona umana, tenteremo ora di
sottolineare precisamente il contenuto di quel patto
matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro
la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al
bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della
prole [4], tale quale fu istituito da Dio «al principio» [5].
Vale a dire, conviene ora spiegare l’essere intimo del
matrimonio in quanto realtà inerente alla persona umana e
alla sua modalizzazione sessuale, nonché i presupposti
antropologici sui quali si basa la realtà matrimoniale.

Soltanto in questo modo si potrà capire la radicale e non
soltanto formale o culturale differenza tra la famiglia
fondata sul matrimonio e le cosiddette «unioni di fatto»,
siano queste eterosessuali od omosessuali [6].

Sin dalla sua fondazione, la Chiesa ha fatto sentire la sua
voce circa gli aspetti morali della sessualità umana, e di
conseguenza ha affermato l’immoralità oggettiva degli atti
sessuali avuti fuori dall’unione matrimoniale e, pertanto,
l’immoralità delle diverse unioni o modi di coabitazione
sessuale al di fuori del vincolo matrimoniale [7].

Ciononostante, la cultura odierna ci pone di fronte a una
nuova sfida: infatti, la mentalità contemporanea ha portato
a considerare socialmente e giuridicamente uguali 4 o,
almeno, equiparabili 4 codeste unioni di fatto nei confronti
della vera unione matrimoniale.

Di fronte a queste pretese, conviene ricordare la natura
della famiglia fondata sul matrimonio, il carattere
soprastorico di cui è rivestita, al di sopra dei cambiamenti
temporali, di luogo e di cultura, nonché la dimensione di
giustizia che scaturisce dallo stesso essere della famiglia
e dalle relazioni che la costituiscono [8].

Le unioni di fatto e la loro disfunzione sociale

Alla luce della verità sul matrimonio come l’unico cammino
degno della persona umana per stabilire una relazione che
implichi la donazione della propria condizione sessuale, e
quindi dell’identità propria della famiglia fondata sul
matrimonio, analizzeremo il fenomeno delle unioni di fatto,
descrivendo gli elementi che le caratterizzano, siano esse
omosessuali o eterosessuali.

In questo modo, attraverso una valutazione razionale, e non
confessionale o tanto meno ideologica, si potranno costatare
le differenze abissali che distinguono l’una e l’altra
realtà (matrimonio e unioni di fatto) e, quindi,
l’ingiustizia che comporterebbe la loro equiparazione
giuridica, cosi come i mali sociali – per l’intera comunità
umana – che deriverebbero dal riconoscimento pubblico di
tali unioni non matrimoniali.
Partiremo dall’analisi dell’espressione del matrimonio come
frutto dell’esperienza giuridica plurisecolare della Chiesa,
per poi vedere il graduale svuotamento che questa realtà ha
subito negli ultimi secoli e, infine, il modo in cui il
fenomeno delle unioni di fatto e i diversi tentativi di
riconoscimento è stato affrontato dal magistero più recente
della Chiesa.

La necessità di un’adeguata comprensione dell’espressione
canonica del matrimonio

Prima di addentrarci nell’analisi della complessa realtà
delle unioni di fatto, è d’obbligo un seppur breve
riferimento all’espressione canonica del matrimonio o,
detto con altre parole, al modo in cui è contemplata la
realtà naturale del matrimonio nella legge vigente della
Chiesa.
La legge descrive nella sua sostanza l’essere naturale
del matrimonio, tanto nel suo momento in fieri – il
patto coniugale – quanto nella sua condizione di realtà
permanente – chiamata dalla tradizione matrimonio in
facto esse – nella quale si inseriscono vincolarmente non
soltanto la relazione coniugale ma anche le altre
relazioni propriamente familiari.
In questo senso, la giurisdizione sul matrimonio che compete
alla Chiesa è, in questi momenti, decisiva come baluardo e
salvaguardia dei valori intrinsecamente matrimoniali e
familiari.

Ciononostante, certe prassi pastorali – e alcune decisioni
giudiziarie – non comprendono adeguatamente i principi
nucleari dell’essere del matrimonio, almeno in queste due
aree di conoscenza: quella dell’amore coniugale e quella
della sacramentalità del matrimonio cristiano.
Per quanto riguarda la prima, si parla frequentemente
dell’amore come base del matrimonio, e di questo quale
comunità di vita e di amore, ma non di rado non si
capiscono convenientemente queste espressioni, dimenticando
di metterle in connessione con la coniugalità come elemento
intrinseco, lasciando anche fuori dalla definizione
dell’amore coniugale la sua dimensione di giustizia.

Questo fa si che per questa via si tralascino gli argomenti
possibili contro le unioni di fatto, e persino che queste
espressioni possano servire alle unioni di fatto come
«alibi» per affermare la loro «identità»: anche coloro che
difendono l’unione di fatto potrebbero dire che la loro
unione è fondata sull’amore, o che costituisce una comunità
di vita e di amore.

Il problema è, invece, che non può essere tale se non è,
realmente e intrinsecamente, «coniugale», cioè, unione nella
propria condizione maschile e femminile, dovuta in giustizia,
e per la sua stessa natura fedele, indissolubile e aperta
alla vita.

Nei confronti della sacramentalità, la questione è più
complessa, perché i pastori della Chiesa non possono mettere
in disparte l’immensa ricchezza che scaturisce dall’essere
sacramentale del matrimonio tra battezzati.
Dio ha voluto che il patto coniugale «del principio», il
matrimonio della creazione, fosse segno permanente
dell’unione di Cristo e la sua Chiesa, e fosse perciò vero
sacramento della Nuova Alleanza.
Il problema risiede nel comprendere adeguatamente che la
sacramentalità non è qualcosa di sopraggiunto o qualcosa di
estrinseco all’essere naturale del matrimonio, bensì lo
stesso matrimonio voluto dal Creatore, il quale viene
elevato alla dignità di sacramento mediante l’azione
redentrice di Cristo, senza che questo supponga uno
snaturamento della realtà naturale.

A causa della mancata comprensione del significato della
sacramentalità e della peculiarità di questo sacramento
nei confronti degli altri sacramenti della Nuova Alleanza,
appaiono delle imprecisioni, persino terminologiche, che
finiscono per oscurare l’essenza del matrimonio e, di
conseguenza, l’essenza della propria sacramentalità.

Questo ha una speciale importanza nella preparazione al
matrimonio: i lodevoli sforzi nel formare i fidanzati,
per la celebrazione del sacramento, possono lasciare in
ombra una chiara comprensione di quello che è il
matrimonio che stanno per contrarre, senza che pertanto
si rendano conto che non si presentano dinanzi alla
Chiesa primariamente per celebrare il sacramento mediante
determinati riti, ma per contrarre un matrimonio che è
sacramento in virtù dell’inserzione nella Nuova Alleanza
di Cristo e la Chiesa che si è attuata mediante il battesimo
di coloro che per il patto coniugale divengono coniugi [9].

Una siffatta visione della sacramentalità, in qualche modo
estrinseca e legata a determinati riti sacri, in non poche
occasioni spinge i contraenti che non hanno fede alla
celebrazione del matrimonio civile o, persino, alla
costituzione di un’unione di fatto, la quale verrebbe
percepita come un modo alternativo di unirsi, e nella
quale la differenza essenziale con il matrimonio cristiano
sarebbe soltanto la mancata osservanza di determinati
requisiti formali.
Da lì l’importanza di recuperare una visione unitaria e
intrinseca della sacramentalità del matrimonio dei
battezzati [10].

Il graduale svuotamento dell’istituto matrimoniale negli
ordinamenti secolari

Questa espressione canonica del matrimonio, che era
patrimonio comune della cultura occidentale, ha subito
grandi mutamenti nei sistemi giuridici moderni.
Per capirne il perché, prima di analizzare l’evoluzione
degli ordinamenti statuali sul matrimonio, conviene
soffermarsi sulla comprensione culturale del diritto al
matrimonio che è alla base delle grandi trasformazioni
delle leggi riguardanti il matrimonio.

Il diritto di contrarre il matrimonio non può essere
interpretato come un semplice diritto di libertà, senza
tener conto della verità sul matrimonio e sulla famiglia.
Non è un diritto alla libertà nell’esercizio della
sessualità, bensì il diritto a contrarre matrimonio come
l’unica strada umana e umanizzante nell’uso della
sessualità, che non è un istinto corporale, ma una
tendenza che ha il suo fondamento nella persona umana
sessuata e, quindi, nella complementarità tra persona-uomo
e persona-donna, e che implica tutta la persona nei suoi
diversi elementi: corporale, degli affetti e spirituale.

La concezione del diritto al matrimonio come un frutto
della cultura, suscettibile perciò di superamento, ha fatto
sì che questo diritto sia stato inteso in modo sbagliato.
Più che un diritto alla realizzazione della vocazione
all’amore nel matrimonio, è stato inteso come diritto alla
libertà assoluta di scelta – senza nessun rapporto con la
verità dell’uomo – nell’esercizio della sessualità.

Questa impostazione, d’accordo con l’imperante concezione
della libertà – libertà come assenza assoluta di
determinazioni o di finalità, anziché come capacità di
scegliere il bene, di autodeterminazione verso il bene –
ha portato gravi conseguenze.
Tutti i successi dei difensori dell’amore libero, del
divorzio, dell’unione tra omosessuali, sono stati impostati
come una vittoria della libertà contro le imposizioni
della cultura di un determinato momento storico, ormai
superate.
Partendo da una visione del matrimonio come un frutto della
cultura, nel quale poco o nulla avrebbe da dire la natura,
oggi è frequente una visione secondo la quale se, per la
cultura e la morale classiche dell’occidente, il matrimonio
era l’unione di un uomo e una donna per sempre, unione
peraltro aperta alla fecondità, la cultura odierna avrebbe
smontato, a uno a uno, i fondamenti di questa concezione
del matrimonio.

Il primo elemento a subire questo assalto è stata
l’indissolubilità: perché solo per sempre? Dovremmo avere
il diritto a un’unione transitoria, non solo fino a che
la morte ci separi, ma finché vi sia l’amore, inteso come
un sentimento.
La conseguenza di questa prospettiva è stata l’introduzione
del divorzio.

Nella stragrande maggioranza delle legislazioni questo
atteggiamento ha portato non soltanto a una modificazione
del contenuto del diritto al matrimonio, nel senso che le
persone avrebbero il diritto a contrarre un matrimonio che
si può dissolvere, ma ha portato anche al diniego
dell’autentico diritto al matrimonio di molte persone, nel
senso che lo Stato non ha voluto riconoscere il diritto a
contrarre il matrimonio cosi come esso si intende, e cioè
uno, indissolubile e aperto alla vita [11].

Un’ulteriore tappa in questo svuotamento – sebbene molti
lo intendano come una conquista – è stata la mentalità
contraccettiva, che ha portato alla scissione tra
sessualità e fecondità.
Non sarebbe più un’unione tra uomo e donna aperta alla
fecondità, ma un’unione con una qualunque finalità, che
cercherebbe soltanto di soddisfare il desiderio di piacere
e di realizzazione: un altro passo nel cammino verso
l’intendimento dello ius connubii come semplice diritto
di libertà nell’esercizio della sessualità.

La situazione è più grave nei paesi in cui lo Stato obbliga
i coniugi a regolare la natalità o impone e promuove
campagne di sterilizzazione o, ancora più grave, di aborto
come mezzo di controllo delle nascite.
Lo stesso si potrebbe dire della possibilità di separare la
filiazione dalla sua dimensione coniugale, mediante
l’utilizzo dei metodi di fecondazione artificiale che non
tengono conto dell’inseparabilità tra coniugalità e
procreazione, o con il dilagare dell’aborto, che fa perdere
l’idea basilare del figlio come un dono e della famiglia
come la cornice nella quale la vita concepita, frutto della
coniugalità, si dovrebbe trovare più protetta.

L’ultimo passo, al quale abbiamo assistito con la
risoluzione del Parlamento europeo sul diritto al
«matrimonio» fra gli omosessuali [12], è stata la
negazione dell’esigenza della eterosessualità: perché uno
con una, solo un uomo con una donna?
Respingere il diritto al matrimonio a due uomini o a due
donne, affermano, sarebbe negare l’esercizio del diritto
al matrimonio.
È questo l’ultimo gradino nello svuotamento dello ius
connubii, che non sarebbe più un diritto con un contenuto
determinato dalla stessa natura dell’uomo e del matrimonio,
ma un semplice diritto di libertà, intesa questa come
libertà assoluta di scelta.

Più che di diritto a contrarre matrimonio, si dovrebbe
parlare di diritto di contrarre: che cosa?
Nessuno lo sa.

Contro questa impostazione del diritto al matrimonio,
conviene ritrovare una visione conforme alla verità
sull’uomo e sul matrimonio, che tiene conto della natura
della sessualità umana come essenzialmente diversa da
quella animale in tutti i suoi piani o livelli.

Lo ius connubii ha un contenuto che va specificato – più
che limitato – dalla stessa natura umana.
Quello che ha fatto il sistema giuridico matrimoniale
della Chiesa durante i secoli, e che era stato accolto
dalla cultura e dai sistemi giuridici occidentali, è stato
delineare questo diritto, sempre nel rispetto del suo
contenuto naturale, anche tenendo conto della condizione
di persona-fedele dei contraenti del matrimonio tra
cristiani.

In questo modo, possiamo affermare che il diritto al
matrimonio, dal punto di vista del suo contenuto
essenziale, determinato dalla sua natura, implicherebbe
le seguenti realtà:
a) diritto a contrarre matrimonio uno, indissolubile e
aperto alla fecondità, e al riconoscimento, difesa e
promozione di questo diritto da parte della comunità
ecclesiastica e civile;
b) diritto di fondare una famiglia. Il diritto al
matrimonio e il suo riconoscimento sarebbero la prima
manifestazione di una realtà: la sovranità della
famiglia in quanto realtà in se stessa [13];
c) diritto di strutturare la propria famiglia secondo
le proprie convinzioni. Il diritto al matrimonio è
diverso da altri diritti individuali, ma è in stretto
rapporto con essi: la libertà religiosa, la libertà
delle coscienze, la libertà di pensiero, la libertà di
educazione ecc.;
d) diritto della famiglia di essere riconosciuta come
parte del bene comune e come soggetto del dialogo sociale.

Alla luce di questi principi, possiamo ora analizzare
le trasformazioni della comprensione del matrimonio e
della famiglia negli ordinamenti secolari.
Agli esordi del cosiddetto processo di secolarizzazione
dell’istituzione matrimoniale, la prima e quasi unica cosa
che venne secolarizzata furono le nozze o forme di
celebrazione del matrimonio, almeno nei paesi occidentali
di radice cattolica.
Furono mantenuti negli ordinamenti secolari, almeno per un
certo tempo, i principi basilari del matrimonio, tra i
quali il principio vincolare indissolubile.

L’introduzione generalizzata in questi ordinamenti di
quello che il concilio Vaticano Il denomina «la piaga del
divorzio» diede origine a un progressivo allontanamento
da quello che costituì durante secoli una grande conquista
dell’umanità, grazie allo sforzo della Chiesa primitiva,
non già per sacralizzare o cristianizzare la nozione
romana del matrimonio, bensì per restituire questa
istituzione alle sue origini creazionali, alla «verità
del principio».
È vero che nella coscienza di quella Chiesa primitiva
c’era la chiara persuasione che l’essere naturale del
matrimonio era stato pensato da Dio creatore per essere
il segno dell’amore di Dio verso il suo popolo e, nella
pienezza dei tempi, dell’amore di Cristo per la sua
Chiesa.
Ma la prima cosa che fa la Chiesa, guidata dal vangelo e
dagli espliciti insegnamenti di Cristo, «è quella di
ricondurre il matrimonio ai suoi principi, consapevole
che è Dio stesso l’autore del matrimonio, dotato di
molteplici valori e fini; tutti quanti di somma importanza
per la continuità del genere umano, il progresso personale
e il destino eterno di ciascuno dei membri della famiglia,
per la dignità, la stabilità, la pace e la prosperità della
stessa famiglia e di tutta la società umana» [14].

Man mano che trascorre il tempo, il principio consensuale
perde vigore in quanto causa effettiva di un vincolo
giuridico, fino a diventare una mera formalità, circondata
di alcuni riti che danno alle nozze, al fatto di sposarsi,
una qualche solennità e riconoscimento pubblico, la quale
culminerebbe con l’iscrizione in un registro civile.

Con la scomparsa graduale di impedimenti importanti, gli
ordinamenti secolari si allontanano ogni giorno di più da
quello che è l’essere naturale del matrimonio,
avvicinandosi invece a quello che sarebbe una mera unione
di fatto.
Secondo questo modo di capire il matrimonio, la
differenza «essenziale» tra il matrimonio e l’unione di
fatto sarebbe che il primo è stato celebrato con i requisiti
di forma e le solennità richieste dalla legalità vigente ed
è stato iscritto nel registro ufficiale, ricevendo quindi
il «nome» di matrimonio, mentre le unioni di fatto non
si legherebbero a nessuna regola stabilita, oltre a
quelle estrinseche dei requisiti formali per ottenere
un qualche riconoscimento.
Ad ogni modo, le distinzioni, nella pratica, resterebbero
molto vaghe, soprattutto nella misura in cui
l’equiparazione fosse più forte.

Da un lato, nelle unioni di fatto riconosciute vi è una
qualche formalizzazione.
D’altro lato – come si preciserà di seguito – si mantiene
una differenza di nomen iuris, la quale ha non poca
importanza di fatto nei confronti della volontà reale
delle parti.
Inoltre, nelle unioni di fatto riconosciute, la tendenza
è quella di stabilire una qualche procedura di «divorzio»
– altrimenti il caos giuridico sarebbe insostenibile – e
quindi ci sarebbe una certa «stabilità» riconosciuta.

Con questo si vuol dire che la proliferazione di certe
unioni di fatto, lasciando a parte le argomentazioni
antropologiche e ideologiche, trova un buon terreno di
crescita nel declino progressivo che hanno subito le
leggi matrimoniali statuali nei confronti di quella che è
la sostanza del matrimonio e della famiglia.

Ciò non significa, però, che chi si sposa secondo le
formalità stabilite dalla legge dello Stato non possa o
non voglia contrarre un vero matrimonio, perché la
tendenza all’unione coniugale è inerente alla persona
umana sessualmente differenziata, e nella sua decisione
sovrana – e non nelle leggi dello Stato – trova il suo
fondamento la giuridicità del patto coniugale e la nascita
di un vero vincolo coniugale.

Sposarsi in questo modo, cioè con le solennità richieste e
con l’esigenza dell’iscrizione registrale, conferisce al
patto coniugale la dimensione pubblica e sociale inerente
alla sua natura, il che non succede con le cosiddette
«unioni di fatto».
Qui risiede in buona parte la ragione di fondo della
necessità di distinguere tra il matrimonio e la famiglia
fondata sul matrimonio – con gli effetti giuridici sociali
che il suo riconoscimento pubblico implica – e le unioni
di fatto, che per la loro propria natura deliberatamente
intendono mantenersi al di fuori del sistema legale.

Qualunque sia la valutazione morale o etica del fatto, è
certo che in una società come quella attuale è difficile
pensare a una restrizione della libertà di convivere o
coabitare privatamente, incluso more uxorio, delle
persone che cosi lo desiderino.
Cosa ben diversa è che a queste unioni gli si trasferisca
il nome di matrimonio e gli si riconosca uno status
giuridico identico – o almeno analogo – con il matrimonio e
con la famiglia d’origine matrimoniale.

Le unioni di fatto nel recente magistero ecclesiastico

Tenuto conto di quanto abbiamo detto sull’importanza della
difesa della famiglia fondata sul matrimonio per la
protezione del bene della società, faremo riferimento al
modo in cui il magistero della Chiesa ha affrontato
l’argomento delle unioni di fatto negli ultimi anni.
Non si tratta, però, di una «visione di fede», ma di una
necessità che riguarda tutte le persone nel loro bene,
nella misura in cui questi interventi del magistero, più
che rivolti ai soli cristiani, sono uno sforzo per chiarire
quale sia la verità della persona e della sua dimensione
sessuale, al di sopra dei singoli credi e delle culture,
cioè con un fondamento nella natura stessa della persona
umana, come ben esprime Giovanni Paolo II nel suo
discorso alla Rota romana dell’anno 2001: «Ma tale
donazione personale ha bisogno di un principio dì
specificità e di un fondamento permanente. La
considerazione naturale del matrimonio ci fa vedere che i
coniugi si uniscono precisamente in quanto persone tra cui
esiste la diversità sessuale, con tutta la ricchezza anche
spirituale che questa diversità possiede a livello umano.
Gli sposi si uniscono in quanto persona-uomo ed in quanto
persona-donna.
Il riferimento alla dimensione naturale della loro
mascolinità e femminilità è decisivo per comprendere
l’essenza del matrimonio. Il legame personale del coniugio
viene a instaurarsi proprio al livello naturale della
modalità maschile o femminile dell’essere persona umana»
[15].

Alla luce di questa «natura del matrimonio», vedremo gli
interventi del magistero nei confronti delle unioni di
fatto.
Nella Costituzione sulla Chiesa nel mondo attuale, il
concilio Vaticano II ha fatto vedere come la salvezza della
persona e della società umana e cristiana è strettamente
connessa con una felice situazione della comunità coniugale
e familiare.
E avverte in seguito come non dappertutto la dignità di
questa istituzione brilla con identica chiarezza, poiché è
oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, del
cosiddetto libero amore e da altre deformazioni [16].
I Padri conciliari ebbero la consapevolezza del fatto che
il cosiddetto «amore libero» costituiva un elemento
dissolvente e distruttore del matrimonio, perché mancante
dell’elemento costitutivo dell’amore coniugale, il quale
si fonda sul consenso personale e irrevocabile mediante il
quale gli sposi si danno e si ricevono mutuamente, dando
cosi origine a un vincolo giuridico e a un’unità sigillata
da una dimensione pubblica di giustizia.

Il fenomeno dell’amore libero, contrapposto al vero amore
coniugale, ora – ed è – il seme che ha fatto germogliare in
grande misura le unioni di fatto, in un primo momento e,
successivamente, e con la rapidità con cui si operano oggi
i cambiamenti culturali, ì tentativi dei poteri pubblici
di equiparare queste unioni di fatto con la famiglia di
fondazione matrimoniale, almeno in alcuni livelli giuridici
e di riconoscimento pubblico.

Il recente magistero pontificio spiega con grande chiarezza
questo processo di assimilazione.
Nel 1981, quando Giovanni Paolo Il scriveva l’esortazione
apostolica Familiaris consortio, le unioni senza un vincolo
istituzionale pubblicamente riconosciuto – né civile né
religioso – costituivano un fenomeno sempre più frequente
che attirava l’attenzione dell’azione pastorale della
Chiesa.
Per dare un’adeguata risposta alle singole situazioni, il
pontefice invita a distinguere i diversi elementi e fattori
che originano queste unioni di fatto.
In effetti, non sono la stessa cosa le unioni alle quali
alcuni si vedono come portati da situazioni difficili
– economiche, culturali e religiose – e quelle volute in
se stesse con un atteggiamento di disprezzo, di
contestazione o di rigetto della società, dell’istituto
familiare, dell’ordinamento sociopolitico, o di sola
ricerca del piacere [17].

Il papa aggiunge un terzo tipo di unioni di fatto: quelle
di coloro che si trovano in queste situazioni spinti
dall’estrema ignoranza e povertà, talvolta da
condizionamenti dovuti a situazioni di vera ingiustizia,
o anche da una certa immaturità psicologica, che li rende
incerti e timorosi di contrarre un vincolo stabile e
definitivo [18].

Il modo di affrontare il fenomeno dovrà necessariamente
tenere conto della molteplicità di realtà che si trovano
sotto la stessa categoria di «unioni di fatto» [19].
Quelle che siano le cause che originano queste unioni
senza vincolo giuridico valido a causa della mancata
formalizzazione adeguata del consenso, l’irregolarità di
queste situazioni – riconosce il pontefice – pone alla
Chiesa ardui problemi pastorali, per le gravi conseguenze
che ne derivano, sia religiose e morali (perdita del
senso religioso del matrimonio, visto alla luce
dell’alleanza di Dio con il suo popolo; privazione della
grazia del sacramento; grave scandalo), sia anche sociali
(distruzione del concetto di famiglia; indebolimento del
senso di fedeltà anche verso la società; possibili traumi
psicologici nei figli; affermazione dell’egoismo) [20].

Queste parole rispecchiano la preoccupazione del pontefice
dinanzi a queste unioni non soltanto non riconosciute, ma
che in molti casi rifiutano in partenza l’idea di un
impegno stabile.
Ma non si intuisce ancora il problema che si sarebbe
presentato con forza posteriormente alla Familiaris
consortio – dovuto alla pretesa di poteri pubblici – di
equiparare, in un modo o nell’altro, queste unioni di
fatto alla famiglia fondata sul matrimonio.

Invece, in un discorso del 1998, il papa mostra in modo
più chiaro la sua preoccupazione al riguardo: «Ancora
più preoccupante è l’attacco diretto all’istituto
familiare che si sta sviluppando sia a livello culturale
che nell’ambito politico, legislativo e amministrativo.
E’ chiara infatti la tendenza ad equiparare alla famiglia
altre e ben diverse forme di convivenza, prescindendo da
fondamentali considerazioni di ordine etico e
antropologico» [21].

Più di recente, nel suo discorso al tribunale della Rota
romana del 21 gennaio 1999, il romano pontefice affronta
direttamente il problema, descrivendolo con chiarezza e
sottolineando la gravità e l’insostituibilità di alcuni
principi, che sono basilari per l’umana convivenza, e
ancor prima per la salvaguardia della dignità di ogni
persona.
Le ragioni invocate dal papa non sono teologiche o
sacramentali, né ricorda questi principi basici soltanto
a coloro che fanno parte della Chiesa di Cristo Signore,
ma altresì a tutte le persone sollecite del vero progresso
umano, perché è l’essere stesso del matrimonio come realtà
naturale e umana quello che è in gioco, ed è il bene di
tutta la società quello che si mette in pericolo.

Come tutti sanno – afferma il papa – oggi non si mettono
in discussione soltanto le proprietà e le finalità del
matrimonio, ma il valore e l’utilità stessa dell’istituto.
Pur escludendo indebite generalizzazioni, non è possibile
ignorare, al riguardo, il fenomeno crescente delle
semplici unioni di fatto (cf. Familiaris consortio, 81: AAS
74 [1982] 181S) e le insistenti campagne d’opinione volte
a ottenere dignità coniugale a unioni anche fra persone
appartenenti allo stesso sesso [22].

In tal modo, non è la finalità del pontefice, nell’ambito
di questa allocuzione, quella di insistere nella
«riprovazione e la condanna», bensì quella di indicare
positivamente i binari entro i quali deve trascorrere la
riflessione circa quello che è il matrimonio nel suo
essere naturale.
In questo senso, il nucleo centrale ed elemento portante
di tali principi è l’autentico concetto di amore coniugale
fra due persone di pari dignità, ma distinte e
complementari nella loro sessualità [23].

Si tratta di un principio centrale che il papa sviluppa in
continuazione e al quale abbiamo già fatto riferimento,
cioè di un amore che, per essere qualificato come vero
amore coniugale, deve essere trasformato in un amore dovuto
in giustizia, mediante l’atto libero del consenso
matrimoniale.
Alla luce di questi principi – conclude il papa – può
essere stabilita e compresa l’essenziale differenza
esistente fra una mera unione di fatto – che pur si
pretenda originata da amore – e il matrimonio, in cui
l’amore si traduce in impegno non soltanto morale, ma
rigorosamente giuridico.
Il vincolo, che reciprocamente si assume, sviluppa di
rimando un’efficacia corroborante nei confronti dell’amore
da cui nasce, favorendone il perdurare a vantaggio della
comparte, della prole e della stessa società [24].

Per tutto questo – aggiunge il papa – si rivela anche
quanto sia incongrua la pretesa di attribuire una realtà
«coniugale» all’unione fra persone dello stesso sesso.
Vi si oppone, innanzitutto, l’oggettiva impossibilità di
far fruttificare il connubio mediante la trasmissione
della vita, secondo il progetto inscritto da Dio nella
stessa struttura dell’essere umano.
È di ostacolo, inoltre, l’assenza dei presupposti per
quella complementarità interpersonale che il Creatore
ha voluto, tanto sul piano fisico-biologico quanto su
quello eminentemente psicologico, tra il maschio e la
femmina [25].

Nel suo discorso alla Rota romana del l’ febbraio 2001,
egli ribadisce come queste pretese di equiparazione tra
il matrimonio e le unioni di fatto, persino quelle tra
omosessuali, traggano origine da una visione del
matrimonio come realtà meramente culturale, senza un
solido fondamento nella natura: «Questa contrapposizione
tra cultura e natura lascia la cultura senza nessun
fondamento oggettivo, in balia dell’arbitrio e del
potere. Ciò si osserva in modo molto chiaro nei tentativi
attuali di presentare le unioni di fatto, comprese quelle
omosessuali, come equiparabili al matrimonio, di cui si
nega per l’appunto il carattere naturale» [26].

La problematicità del riconoscimento delle unioni di fatto

Le unioni di fatto e l’inadeguatezza del loro
riconoscimento giuridico e pubblico.

Una volta studiato il fenomeno delle unioni di fatto e il
modo in cui il magistero della Chiesa è venuto incontro a
questo, incentriamo la nostra analisi nel problema di
queste unioni ai nostri giorni e nell’inadeguatezza del
loro riconoscimento come realtà di diritto pubblico negli
ordinamenti statuali.

a) Che cosa si intende oggi per «unioni di fatto» alle
quali alcuni ordinamenti civili vogliono dare uno statuto
giuridico-pubblico, equiparandole – in molti dei loro
effetti – all’unione matrimoniale?

Non è facile elaborare una nozione unica che coinvolga i
molteplici ed eterogenei fenomeni implicati nell’espressione
«unioni di fatto».
L’elemento comune che le configura è il loro carattere di
unioni non matrimoniali, vale a dire fondate sul rifiuto
dell’impegno matrimoniale.
Di conseguenza, tutto ciò che si può predicare del
matrimonio, in ordine al bene delle persone e della
società intera, deve porre su un piano negativo le unioni
di fatto.
Nel matrimonio si assumono pubblicamente, mediante il
patto coniugale, tutte le responsabilità che nascono dal
vincolo creato, il quale costituisce un bene per gli
stessi coniugi e per il loro perfezionamento; per i figli
nella loro crescita affettiva e di formazione; per gli
altri membri della famiglia estesa fondata sulla
coniugalità e la consanguineità; e per la società tutta
la cui trama più solida poggia sui valori che scaturiscono
dalle diverse relazioni familiari [27].
Continua a essere vera la massima secondo la quale la
salute dell’umanità passa attraverso la salute della
famiglia: «L’avvenire dell’umanità passa attraverso la
famiglia» [28].
Le unioni di fatto costituiscono, in questo senso, una
malattia che intaccherà tutto il corpo sociale se,
anziché provvedere alla sua guarigione, viene stimolata
la loro propagazione e le si etichetta pubblicamente con
il nome e lo statuto del matrimonio e la famiglia, almeno
in modo analogo.

La società odierna porta l’uomo a ritenere che può
desiderare e optare per un uso della sessualità diverso
da quello previsto dalla stessa natura e dalle sue
finalità proprie.
Privatamente può vivere in coppia in modo stabile o
transitorio, in relazioni eterosessuali od omosessuali.
Da un punto di vista morale è chiaro che questi
atteggiamenti non rispettano la dinamica dell’amore
coniugale proprio della condizione di persona-maschio e
persona-femmina e quindi non sono degni della persona
umana, più radicalmente nel caso delle unioni tra
omosessuali, che snaturano alla sua radice la sessualità
umana e rendono impossibile la comprensione della sua
struttura e finalità.
Ma la questione non è ora quella di insistere nella
condanna morale di questi atteggiamenti, bensì di mettere
in guardia sull’inadeguatezza di elevare questi interessi
privati alla categoria di interesse pubblico, sancito e
riconosciuto dalla legge alla stregua o in maniera
analoga alle relazioni matrimoniali e familiari, come se
nella loro essenza fossero un bene da tutelare e persino
da promuovere.
Seguendo il paragone precedente, una cosa è convivere con
la malattia per il fatto che molti scelgono liberamente
quello stato, pensando forse che sia uno stato di
perfetta salute, e tutt’altra cosa sarebbe quella di dare
impronta pubblica di salute a degli atteggiamenti che, in
quanto sono in relazione con l’istituto matrimoniale,
potrebbero recare un danno grave a questa istituzione
naturale e a tutto il corpo sociale, che trova in essa
il suo fondamento basilare.

b) Ma non tutte le cosiddette «unioni di fatto» hanno lo
stesso impatto sociale né le stesse motivazioni. Oltre a
essere unioni non matrimoniali, i tratti che le
caratterizzano si potrebbero descrivere nel seguente modo:
1) il carattere puramente «di fatto» della relazione,
perché sono unioni che mancano di giuridicità intrinseca
propria: i conviventi non hanno titolo alcuno di giustizia
per esigere a vicenda un tipo specifico di condotta, né
per chiedere all’altro ragione delle decisioni prese, il
che non toglie che da quelle relazioni possano derivare
conseguenze giuridiche di carattere privato;
2) una coabitazione nella quale c’è un qualche contenuto
sessuale;
3) un certo carattere di stabilità, che le distingue
dalle unioni sporadiche od occasionali: non si tratta,
pertanto, di una stabilità basata su un vincolo
giuridico, perché la caratteristica di queste unioni è
proprio quella di non accettare alcun vincolo;
4) l’apertura costante alla possibilità di interruzione
della convivenza;
5) nelle relazioni di fatto si verifica anche un qualche
carattere di esclusività simultanea, nel senso che l’unione
non è, in linea di principio, poligamica, benché non
include di per sé alcun dovere di fedeltà;
6) in linea di massima non implicano un rapporto
intrinseco con il debito coniugale né con la prole,
benché quest’ultima si possa accettare come circostanza
occasionale [29].

Benché abbiamo indicato questi tratti comuni delle unioni
di fatto, dobbiamo dire che la loro tipologia è molto varia
a seconda delle circostanze e dei motivi che danno loro
origine.
Ci sono unioni di fatto volute come alternativa al
matrimonio, ma ne esistono altre non cercate come tali, ma
semplicemente tollerate o sopportate.

All’origine delle prime, ci possono essere i motivi più
svariati.
Tra questi:
1) ideologici, di rifiuto del matrimonio, il quale viene
considerato come una forma inammissibile di fare violenza
al benessere personale, per poi optare per altre
alternative o modi dì vivere la sessualità;
2) motivi economici o giuridici;
3) la considerazione dell’unione di fatto come una sorta
di matrimonio «a prova», nella quale la coppia avrebbe il
progetto di contrarre il matrimonio in futuro, ma le
parti non hanno ancora una vera volontà matrimoniale, che
in ogni caso condizionerebbero all’esito positivo
dell’unione «senza vincolo» [30].

Tra le altre possiamo anche distinguere diverse situazioni.
In alcuni paesi, il maggior numero di unioni di fatto si
deve a una disaffezione al matrimonio non basata su
motivi ideologici, bensì sulla mancanza di una formazione
adeguata, conseguenza di una situazione di povertà,
emarginazione o mancata evangelizzazione.
In altri casi, buona parte delle unioni di fatto trovano la
loro spiegazione nella cultura nella quale sono immersi i
conviventi, per esempio in quelle società nelle quali più
di un secolo di legislazione divorzistica ha fatto si che
il matrimonio perdesse quasi tutto il suo senso e il suo
contenuto.
Infine, troviamo delle situazioni nelle quali i
condizionamenti familiari, economici, ambientali portano a
delle situazioni di vera ingiustizia che impediscono o,
almeno, rendono molto difficile la celebrazione del
matrimonio.
In questi casi è possibile trovare delle unioni di fatto
che contengono, persino sin dal loro inizio, una volontà
coniugale autentica, e nelle quali i conviventi si
ritengono vincolati come marito e moglie e si sforzano per
adempiere i loro doveri matrimoniali e familiari.
In queste situazioni, l’azione pastorale molte volte verrà
indirizzata alla «regolarizzazione» di queste unioni,
mediante la celebrazione del matrimonio o tramite la
convalidazione o la sanazione, a seconda dei casi [31].
Altre situazioni di convivenza di fatto possono rispondere
a motivi «assistenziali». Sarebbe il caso, ad esempio,
delle persone in età anziana che stabiliscono relazioni
di fatto per la paura che l’unione matrimoniale causi
loro danni fiscali o la perdita della pensione.
Forse anche in questi casi non è del tutto assente la
volontà di essere e di vivere veramente come coniugi.
Potrebbe anche darsi il caso di persone che abbiano una
vera volontà matrimoniale ma si trovino ingiustamente
impedite per accedere alle nozze alle quali hanno diritto
in virtù dello ius connubii proprio di ogni persona umana
come sarebbe, ad esempio, il caso di un ingiusto divieto
di matrimonio per ragioni eugenetiche [32]. In casi del
genere, se non ci sono altri motivi che si oppongono alle
nozze, pensiamo che si potrebbe presumere l’esistenza di
una volontà matrimoniale.

Come è ovvio, negli ultimi due tipi di situazioni descritte
si dovrà agire partendo dalla pastorale familiare, nel
primo caso, e tentando di rimuovere gli ostacoli ingiusti
per l’esercizio effettivo dello ius connubii, nel secondo.
Perciò, queste situazioni non rappresentano il problema
principale al quale ci riferiamo quando parliamo della
pretesa di riconoscimento pubblico e di
istituzionalizzazione delle unioni di fatto in quanto tali
da parte del legislatore, dato che queste unioni tendono
verso il vero matrimonio, nella misura in cui esiste una
vera volontà matrimoniale, e possono essere ricondotte
verso un’unione matrimoniale.

c) Benché, tenendo conto di queste diverse situazioni, il
modo giuridico pubblico di trattare gli stati delle persone
non può né deve essere identico – come non lo è neanche il
loro giudizio etico o morale, né i mezzi pastorali per
venir loro incontro – conviene, ciononostante, evidenziare
le differenze sostanziali tra il matrimonio e le unioni di
fatto o, se si preferisce – in una visione più ampia – tra
la famiglia fondata sul matrimonio e la comunità affettiva
che nasce da un’unione di fatto.

«Il fatto differenziale, autenticamente sostantivo, è che
i vincoli giuridici delle comunità familiari hanno quella
struttura di riferimento originaria: la famiglia fondata
sul matrimonio, la cui prima giuridicità scaturisce da se
stessa e non invece da una creazione del potere
legislativo, esecutivo o giudiziario dello Stato. Le
comunità affettive, invece, sono quelle che mancano della
giuridicità specifica e intrinseca che trova la sua fonte
nella coniugalità o nella consanguineità. È il caso di
quelle coppie che mettono in comune il “fatto” del loro
reciproco affetto, ma allo stesso tempo rifiutano
espressamente che quel fatto costituisca un vincolo
giuridico tra di loro sul quale si debba articolare una
consanguineità che anche escludono. Manca anche la
giuridicità familiare nelle convivenze affettive tra le
coppie dello stesso sesso, le quali, come è palese,
possono mettere in comune dei legami affettivi, ma gli
manca assolutamente il potere sovrano di originare tanto
la coniugalità, che poggia sulla dualità maschio-femmina,
quanto la trasmissione della vita in modo consanguineo,
la quale pure riposa sulla stessa dualità sessuale» [33].

Questa radicale differenza tra il matrimonio, il quale
ha una dimensione di giustizia intrinseca che esige di
essere riconosciuta, protetta e promossa dallo Stato, e
le unioni di fatto, che acquisiscono uno statuto legale
che trae la sua forza soltanto ed esclusivamente dal
potere dello Stato, fa si che sia una grave ingiustizia
e un abuso da parte delle autorità pubbliche il tentativo
di equiparazione di queste con la famiglia fondata sul
matrimonio.

Di conseguenza, «una prospettiva oggettiva, serenamente
lontana da una posizione arbitraria o demagogica, invita
a riflettere circa le importanti differenze nel
contributo reale al bene comune della società tutta, che
si danno tra gli apporti della famiglia fondata sul
matrimonio e, con essa, delle comunità familiari [], e
di quelle che offrono le mere convivenze affettive. È
un chiaro dato di fatto che, in paragone con le comunità
familiari, le funzioni strategiche di trasmettere la
vita umana, di curarla ed educarla in una comunità di
lacci amorosi e affettivi, e di congiungere la convivenza
e la successione intergenerazionale di valori e di beni
[] non possono essere realizzate in forma massiva,
stabile e permanente dalle convivenze meramente
affettive» [34].

d) Queste differenze sostanziali tra il matrimonio e le
unioni di fatto costituiscono l’argomento principale per
considerare inadeguati i tentativi di equiparare o di
misurare con gli stessi criteri, da parte dei poteri
pubblici, delle realtà così diverse e con dei contributi
al bene comune tanto dispari.
Non si deve confondere una società pluralista con una
società uniforme.

L’uguaglianza dinanzi alla legge deve essere presieduta
dal principio di giustizia, il che significa trattare
come uguale quello che è uguale, e quello che è diverso
come diverso; vale a dire, dare a ognuno quello che gli
è dovuto per giustizia.
Questo principio basilare della società umana verrebbe
infranto se si desse alle unioni di fatto un trattamento
giuridico pubblico identico o assimilato a quello che
spetta alla famiglia fondata sul matrimonio.

Se la famiglia matrimoniale e le unioni di fatto non
sono equiparabili nei loro doveri, funzioni e servizi
alla società, non possono allora essere uguagliate né
nel loro nome né nel loro statuto giuridico.

Diversamente, il tentativo di non discriminare le unioni
di fatto comporterebbe una discriminazione della famiglia
matrimoniale.

Per questo, sarebbe un segno di dittatura ideologica o
di pensiero debole il fatto di promuovere dai poteri
pubblici, con il pretesto del pluralismo democratico, un
trattamento politico e giuridico indifferenziato, che
discrimina le comunità familiari nei confronti delle
comunità di fatto, senza tenere conto del loro contributo
reale al benessere sociale e al bene comune generale [35].

Non si deve dimenticare, nello stesso ambito dei principi,
la distinzione tra interesse pubblico e interesse privato.
Nel primo caso, la società e i poteri pubblici che la
rappresentano devono sviluppare un’azione di protezione e
di promozione.
Nel secondo caso, lo Stato deve soltanto garantire la
libertà. Laddove l’interesse sia pubblico, interviene il diritto
pubblico. Quello che invece risponde agli interessi privati, deve
essere rinviato al diritto privato.

Ai sensi dell’art. 16 della Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo, la famiglia riveste un interesse
pubblico: «La famiglia è nucleo naturale e fondamentale
della società e dello Stato, e come tale deve essere
riconosciuta e protetta. Due o più persone possono decidere
di vivere insieme, con una dimensione sessuale o senza, ma
quella convivenza o coabitazione non riveste un interesse
pubblico. Lo Stato può tollerare il fenomeno privato di
quella opzione libera, ma non equipararla pubblicamente al
matrimonio, e ancor meno riconoscere quegli interessi
privati come se fossero pubblici. Per di più, nel
matrimonio si assumono, dinanzi alla società, delle
responsabilità in modo pubblico e formale, esigibili in
ambito giuridico, cosa che non avviene nelle convivenze
di fatto».

Un’equiparazione giuridico-pubblica delle unioni di fatto
con il matrimonio, vuoi in forma diretta, vuoi per
analogia, oltre a costituire un trattamento ingiusto e
poco ragionevole, sarebbe il frutto di una profonda
incoerenza e ipocrisia giuridica:
a) da una parte, si pretende regolare quello che rifiuta
espressamente qualunque regolamentazione del suo contenuto;
b) inoltre, si stabilisce uno statuto giuridico pubblico
costituito da soli diritti: i conviventi rifiutano per
principio di legarsi con doveri;
c) di fronte alle unioni di fatto che si costituiscono a
causa dell’impossibilità di contrarre matrimonio dovuta
all’esistenza dì un impedimento legale, è difficile che
lo stesso sistema giuridico non apra loro un’altra via
di applicazione degli stessi diritti che il matrimonio
gli proibisce;
d) neanche si riuscirebbe a capire perché regolare
soltanto le unioni di fatto il cui contenuto venga
determinato dal sesso, facendo di esso un elemento
sostanziale, lasciando al di fuori altre forme legittime
di cooperazione e dì convivenza mutua – un anziano con
sua nipote, due fratelli anziani che dipendono e si
sostengono mutuamente ecc. – per il solo fatto che non
esiste un contenuto sessuale nella relazione tra coloro
che convivono;
e) infine, se si attribuisse alle unioni di fatto
determinati effetti giuridici per il semplice fatto di
osservare il requisito di un registro pubblico, le altre
unioni di fatto che rifiutassero di osservare questo
requisito potrebbero esigere con lo stesso fondamento
gli effetti attribuiti alle unioni registrate, o accusare
lo Stato di discriminazione ingiusta, poiché i fatti
reali di convivenza sarebbero gli stessi in entrambi i
casi [36].

Sembra anche inadeguata una regolamentazione specifica
delle unioni di fatto e degli effetti giuridici che
comportano, non già soltanto per quanto riguarda gli
eventuali figli che siano nati da quelle relazioni, ma
anche per la stessa relazione tra i conviventi, quando
quella relazione sì sia protratta nel tempo.

Sono tanto svariate le possibilità di convivenze senza
vincolo e cosi diverse le situazioni, che risulta
difficile e problematico sottometterle tutte a uno
stesso regime giuridico.
Inoltre, il fondamento giuridico-sociale di un tale
regime sarebbe troppo debole, per quanto riguarda una
realtà instabile, giuridicamente e sociologicamente, quali
sono le unioni non matrimoniali.

D’altra parte, difficilmente si potrebbe evitare
l’impressione, nell’insieme dei cittadini, che tale
regolamentazione specifica sia una forma strategica di
eludere l’equiparazione diretta, ma configurando una
specie di «sostitutivo» del matrimonio, nel quale ci
sarebbero quasi tutti i diritti di esso, ma non i doveri,
configurandosi quasi in uno strumento per raggirare le
esigenze del matrimonio, ottenendone però i vantaggi.

Da parte dello Stato, il riconoscimento delle unioni di
fatto potrebbe essere inteso come un tentativo di
controllare socialmente, da parte dei poteri pubblici,
quello che per sua propria natura è un puro fatto,
frutto di un comportamento sociale libero e che vuol
restare tale: controllo che otterrebbe lo Stato dando
come contraccambio determinati benefici in materia
patrimoniale.

Tutte queste ragioni servono a dimostrare l’inconvenienza
di creare uno statuto pubblico nei confronti delle unioni
di fatto.
Ma oltre a questi motivi, c’è una ragione di fondo che
non va dimenticata: il matrimonio e la famiglia fondata
su di esso sono l’unica strada di sviluppo della
dimensione sessuale della persona che è degna di essa e
quindi conforme alla natura umana.
Le unioni di fatto, siano esse eterosessuali od
omosessuali, non rispondono alle esigenze intrinseche
della natura umana, intesa non come una realtà statica
ed estrinseca alla libertà, ma come quello che è «degno
della persona umana».
Inoltre, nel caso delle unioni tra omosessuali, mancano
assolutamente i presupposti per una qualsiasi
integrazione della propria sessualità, la quale, per sua
natura, si fonda sulla diversità e complementarità tra
mascolinità e femminilità in quanto dimensioni intrinseche
della persona umana.

In conclusione, il matrimonio è l’unica unione tra uomo e
donna in quanto tali – nella loro condizione maschile e
femminile – che permette la costruzione di un rapporto
che ha in sé la potenza di condurre verso il bene e la
realizzazione della persona nella donazione totale della
sua dimensione sessuale, e verso il bene della persona
dell’altro coniuge e dei figli nati dalla loro unione.

Il ricorso alle regole del diritto per la soluzione di
alcune questioni patrimoniali

Nella misura in cui si tratta di una questione meramente
di fatto, sembra che quello che dovrebbe fare lo Stato è
determinare le relazioni private di giustizia patrimoniale
che possono essere nate in ogni singolo caso, riguardo ai
figli che siano nati, riguardo al tempo che sia durata la
convivenza e, in alcuni casi, nei confronti dei possibili
svantaggi che la dedicazione della donna alla vita comune
abbia avuto per il suo sviluppo professionale e per le
entrate che avrebbe potuto avere in quel periodo o delle
quali avrebbe disposto nel caso di non aver avuto una
relazione di dipendenza.
Infatti, nulla osta affinché, partendo dall’equità e dai
principi generali del diritto, si riconosca in alcuni
casi l’esistenza di un vero patto implicito in questa
dedicazione, il che esige di conseguenza un risarcimento
da parte di colui che ne abbia ottenuto beneficio
personale.

Proprio per questo non sembra opportuno elaborare delle
regole generali sul momento iniziale di una relazione che
è volontariamente aliena all’impegno di giustizia, la
quale manca in se stessa di una dimensione di giustizia
intrinseca che chieda una protezione giuridica da parte
della società.
Invece, ci sembra che il momento giudiziale – quando sia
il caso – possa essere quello adeguato per risolvere le
esigenze concrete e private dì giustizia le quali, anche
per la via di fatto, possano essere sorte durante una
convivenza more uxorio, non a causa di determinati impegni
assunti in quanto tali, bensì a causa della realtà di
fatto di un patto implicito che genera, con il passare del
tempo, degli obblighi naturali [37].

___
NOTE

[1] Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, 4.

[2] Giovanni Paolo II, enciclica Evangelium vitae, 20;
cf. 19.

[3] Giovanni Paolo II, esortazione apostolica Familiaris
consortio, 6; cf. Id., Lettera alle Famiglie, 13.

[4] CIC 1055; Catechismo della Chiesa cattolica, 1601.

[5] Cf. Concilio Vaticano II, costituzione Gaudium et
spes, 48-49.

[6] È chiaro il più grave disordine antropologico e
quindi morale delle unioni tra omosessuali, nelle quali
è radicalmente impossibile qualsiasi integrazione della
propria sessualità in un rapporto con l’altro, nel quale
mancano la diversità e la complementarità proprie e
specifiche della donazione sessuale.

[7] Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, 2390;
Familiaris consortio, 81.

[8] Cf.Pontificio consiglio per la famiglia, «Famiglia,
matrimonio e «unioni di fatto», Città del Vaticano 2000,
19-22.

[9] Cf. Familiaris consortio, 68; cf. anche Giovanni
Paolo II, «Discorso alla Rota romana del 1° febbraio
2001», in L’Osservatore Romano, 2 febbraio 2001.

[10] Cf. T. Rincón, El matrimonio cristiano. Sacramento
de la creación y de la redención. Claves de un debate
teológico-canónico, Pamplona 1997; Id., «Admisión a la
celebración sacramental del matrimonio de los bautizados
imperfectamente dispuestos, según la Exh. Apostólica
Familiaris consortio», in Sacramentalidad de la Iglesia
y sacramentos, Pamplona 1983, 717-741.

[11] Cf. J.M. Martí, «Ius connubii y regulación del
matrimonio», in Humana Iura 5(1995), 149-176.

[12] Risoluzione dei Parlamento Europeo dell’8 febbraio
1994, sulla Paridad de derechos para los homosexuales en
la Comunidad.

[13] Cf. Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, 16.

[14] Gaudium et spes, 48.

[15] Giovanni Paolo II, «Discorso alla Rota romana del
1° febbraio 2001», 5.

[16] Gaudium et spes, 47.

[17] Familiaris consortio, 81.

[18] Familiaris consortio, 81.

[19] Cf. Pontificio consiglio per la famiglia, Famiglia,
matrimonio e «unioni di fatto», 4-6.

[20] Familiaris consortio, 81.

[21] Giovanni Paolo II, «Discorso al “Forum delle
Associazioni familiari”», 27 giugno 1998, 2.

[22] Giovanni Paolo II, «Discorso alla Rota Romana dei
21 gennaio 1999», 2.

[23] Giovanni Paolo II, «Discorso alla Rota Romana del
21 gennaio 1999», 3.

[24] Giovanni Paolo II, «Discorso alla Rota Romana del
21 gennaio 1999», 5.

[25] Giovanni Paolo II, «Discorso alla Rota Romana dei
21 gennaio 1999», 5.

[26] Giovanni Paolo II, «Discorso alla Rota romana del
l’ febbraio 2001», 3.

[27] Cf. Pontificio consiglio per la famiglia, Famiglia,
matrimonio e «unioni di fatto», 25-28.

[28] Familiaris consortio, 86.

[29] Cf. Pontificio consiglio per la famiglia, Famiglia,
matrimonio e «unioni di fatto», 4.

[30] Cf. Pontificio consiglio per la famiglia, Famiglia,
matrimonio e «unioni di fatto», 5.

[31] Cf. Pontificio consiglio per la famiglia, Famiglia,
matrimonio e «unioni di fatto», 6.

[32] Cf. Pio XI, enciclica Casti connubii, 24; Pio XII,
«Allocuzione ai partecipanti nel Convegno internazionale
di genetica medica, il 7 settembre 1953», in AAS
45(1953), 605-607.

[33] P.J. Viladrich, «Documento sobre la familia de
40 Organizaciones No Gubernamentales 3 ONG’s –
presentado en Madrid el 29 de noviembre de 1994, en
conmemoración del Año Internacional de la Familia», in
Documentos del Instituto de Ciencias para la Familia
dell’Università di Navarra, Madrid 1998.

[34] P.J. Viladrich, «Documento sobre la familia de 40
Organizaciones».

[35] P.J. Viladrich, «Documento sobre la familia de 40
Organizaciones».

[36] Cf. J.I. Bañares, «Derecho, antropología y libertad
en las uniones de hecho», in Ius Canonicum 39(1999)77,
187-204.

[37] Cf. J.I. Bañares, «Derecho, antropología y libertad
en las uniones de hecho».

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