
Le necessità dei malati di tumore non passano per l’eutanasia. Non solo, le testimonianze dei medici che lavorano sul campo confermano che le (rarissime) richieste di qualche paziente di anticipare la fine della propria vita discendono per lo più dal dolore, dall’angoscia per il futuro, e dalla paura di essere un peso per la propria famiglia. E dagli stati depressivi cui i malati oncologici possono andare incontro. Sono temi emersi dal convegno tenutosi tempo fa alla Fondazione Irccs Istituto dei tumori di Milano, sul tema «Eutanasia in oncologia: tentazione dei sani, necessità dei malati, esigenza sociale?». Un incontro in cui il cardinale Javier Lozano Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, disegnò un’ampia cornice filosofica per spiegare come nel mondo moderno sia cresciuta la figura dell’«uomo radicale», che fa piazza pulita di tutte le visioni precedenti (greco-romana, cristiana e moderna), per favorire solo l’autodeterminazione assoluta della persona. A giustificare il ricorso all’eutanasia secondo questa visione è la distinzione di diverse categorie: accanto alla persona agente morale, vi sono bambini, chi non può relazionare, i dementi e gli individui in stato vegetativo che invece potrebbero essere eliminati.
Nonostante campagne mediatiche talora
cerchino di dimostrare il contrario, nella prassi
l’eutanasia tra i malati oncologici in Italia non è
percepita come un’esigenza: «In 25 anni, su 40mila
pazienti oncologici seguiti nel nostro ospedale,
solo in quattro ci hanno chiesto l’eutanasia» ha
riferito Carla Ripamonti, oncologa dell’Istituto dei
tumori. Precisando che «in tre hanno cambiato idea
dopo siamo riusciti a togliere loro il dolore». Una
tendenza che si riscontra anche nelle indagini: se
il 60,2 per cento di un campione di 988 malati
terminali (studio pubblicato nel 2000 sul «Journal
of the American medical association») considera
possibile l’eutanasia in una situazione ipotetica,
solo il 10,6 per cento la vede applicabile a sé. In
più i pazienti che si sentivano stimati pensavano
meno all’eutanasia (e al suicidio assistito)
rispetto a coloro che avevano sintomi depressivi,
che avevano più bisogno di assistenza e più dolore.
Ma significativo, nella stessa indagine, anche il
dato del cambiamento nel tempo dell’opinione del
paziente: «Circa la metà dei pazienti inizialmente
interessati a eutanasia e suicidio assistito ha
cambiato idea». Inoltre il 3,5% dei pazienti e il
7,2% dei familiari temevano che qualcuno praticasse
l’eutanasia a loro insaputa. E uno studio di
Chochinov (sull’American Journal of Psychiatry nel
1995) mostrava che «il desiderio di morire cambia
nel tempo, spesso si riduce ed è strettamente
associato alla depressione clinica, una condizione
potenzialmente trattabile». I «sani» temono il
dolore fisico, ha puntualizzato la dottoressa
Ripamonti, mentre nei pazienti pesano molto di più i
problemi psicologici, la depressione e il non
sentirsi amati, e la paura di essere di peso.
Per indicare i pericoli che sono presenti nella
legalizzazione dell’eutanasia, Augusto Caraceni,
direttore della Struttura complessa di Cure
palliative dell’Istituto dei tumori, ha presentato
il documento stilato dalla commissione etica della
Società europea di cure palliative: «Pressioni sulle
persone vulnerabili, scarso sviluppo delle cure
palliative, conflitti tra requisiti legali e valori
personali e professionali, ampliamento dei criteri
clinici, aumento delle uccisioni medicalizzate non
volontarie e che l’omicidio divenga una pratica
sociale accettata». E passando ai casi concreti,
Zbigniew Zylicz, direttore di un hospice in Gran
Bretagna dopo avere lavorato per molti anni in
Olanda, avendo visto molti pazienti andare incontro
all’eutanasia, ha presentato ragioni pragmatiche per
opporsi: «La prognosi è spesso incerta, e i pazienti
possono vivere spesso molto più di quanto in origine
stimato. Inoltre le persone cambiano frequentemente
opinione e infine il dolore intrattabile è difficile
da definire».
Gli articoli del codice penale condannano in modo chiaro l’omicidio del consenziente e l’istigazione al suicidio. E quanto alle direttive anticipate (che talora includono forme di eutanasia), la Costituzione non si basa sul rispetto della libertà individuale, ma sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, tra cui quello alla vita. «Il diritto a morire (che non esiste) postula che qualcuno vi si impieghi, corrisponderebbe al dovere di un altro a uccidere. Questo esclude che possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento.
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parzialmente di Enrico Negrotti