
Mi chiamavo Amahd Ora sono Cristiano
«Chi sono io? Ero Ali’ ho 22 anni. Il mio paese? Era l’Afghanistan. Dove quelli come me venivano perseguitati dai sunniti pashtun. Sono arrivato in Italia e da questa Pasqua urlo al mondo che non ho più paura. La mia nuova vita mi ha regalato la libertà»
Questa è la storia del viaggio di Ahmad e Cristiano. Inizia nove anni fa nel paese delle invasioni, delle guerre civili, dei turbanti e dei burqa azzurri, delle barbe e dei kalashnikov, delle condanne a morte per apostasia e degli aquiloni che non possono volare. Ahmad e Cristiano non sono due amici, né fratelli, ma si conoscono bene. Sono la stessa persona. Sì, perché Ahmad durante il suo viaggio fa una scoperta che gli “cambia la vita”, tanto da scegliere un nuovo nome con cui ora potersi identificare veramente. La scoperta è quella di Cristo.
«Chi sono io? Ero Alì e ho 22 anni, sono azaro. Il mio paese? Era l’Afghanistan. Qui quelli come me, dell’etnia di minoranza e di fede sciita, venivano perseguitati e oppressi dai sunniti pashtun. Sono arrivato in Italia nel 2001 e dalla Pasqua del 2008 mi chiamo Cristiano, per urlare al mondo che non ho più paura, perché la mia nuova vita mi ha regalato la libertà». Se fosse ancora a Kabul su Ahmad penderebbe una fatwa, l’avrebbe emessa uno dei tanti mullah, che lì come in Europa non perdonano chi lascia l’islam. «Ma io non tremo né provo vergogna – dice convinto – sento solo molta compassione per i miei amici musulmani, indottrinati e schiavizzati dall’ideologia». Anche a loro con tutti i rischi della situazione, non si priva della «gioia di testimoniare anche a loro» la bellezza di questo suo inatteso incontro.
Ahmad parte da Kabul nel 1999. In tempo per non vedere l’ennesima guerra – quella degli Usa contro i talebani –, troppo tardi per non essere testimone degli orrori sovietici. Suo papà era un comunista di fede, ateo di religione. Difficile, ma vissuto nell’amore e nel rispetto, il suo matrimonio con la mamma di Alì, invece fervente musulmana. Un’infanzia tra il sogno represso di studiare e la consapevolezza di doversi accontentare dei vecchi carriarmati sovietici come unici banchi di scuola. «Da piccoli io e il mio migliore amico Sarwar volevamo diventare attori: quando recitavamo per gioco lui voleva fare il principe, io invece volevo fare il re, perché solo il re ha il potere di tenere aperte tutte le scuole. Quanto ridevamo!».
Ma il sorriso di Ahmad si è spento presto. Una bomba contro la macchina del padre di ritorno da un viaggio di lavoro nel sud, la malattia della madre senza che in città ci fosse un solo ospedale aperto. Finiscono i soldi. Per mangiare. Per riscaldarsi. I nemici del padre, considerato un traditore perché lavorava con i sunniti. La guerra dei talebani. Troppo pericoloso rimanere. Ahmad parte per il Pakistan con la sorella. Ma non sono al sicuro neppure qui. La passione per l’arte, il teatro. Quella dannata passione. Arriva un regista, finalmente Ahmad può recitare in uno spettacolo, anche se solo amatoriale. Il problema è che lui, sciita, interpreterà uno dei tre profeti più cari ai sunniti. Non gli verrà mai perdonato. E dopo settimane di minacce viene rapito da un gruppo di estremisti che lo tengono in uno scantinato senza luce per sei mesi. Salvo per miracolo, ormai deve ripartire.
Migliaia di dollari ai trafficanti di clandestini: Teheran, Macu, Van, Istanbul, un naufragio fortunatamente finito bene. Fucili alla frontiera, ricatti, mazzette, schiavitù, la morte, gli amici che lascia per strada. E poi un canotto gonfiabile comprato al mercato delle illusioni. Per solcare il Mediterraneo. L’isoletta di Lessus e poi Atene, Patras e un camion pieno di scatole che ti fa da culla. La laguna veneziana non ha niente di romantico quando scendi dopo giorni di viaggio senza esserti potuto lavare e mentre i trafficanti ti picchiano su tutto il corpo. Via verso Ancona e da lì il treno per Roma e la “gioia di vedere per la prima volta la bandiera italiana”, rendersi conto che non stai sognando.
L’ipocrisia degli altri immigrati
Come quello degli altri suoi coetanei e connazionali, il giovane viso ha gli occhi vecchi consumati dall’esperienza sbattuta contro troppi e scogliosi lidi. «Pensavo a tutto quello che era successo alla mia famiglia e a me, e mi dicevo: “Tu non hai un futuro”. Non potevo immaginare il mio avvenire diverso dal mio passato». In Italia, però, succede qualcosa: «Qui ho trovato un ambiente accogliente, ho trovato amici e la fede». Con gli altri afghani immigrati «non riesco a integrarmi: quelli arrivati negli ultimi due anni sono tutti cresciuti a Quetta, in Pakistan, mi preoccupano, sono imbevuti di estremismo: mi deridono o minacciano se non vado in moschea o faccio le loro preghiere. Dicono che le donne sono ****, che l’Italia non ha religione e io gli chiedo se si sono mai innamorati di una ragazza italiana o se sono mai stati in una chiesa. Difendono il terrorismo, l’Iran, criticano tutto quello che è occidentale». Eppure qui, in Occidente, cercano quello che il loro paese gli nega: un futuro libero.
Ahmad non ha mai vissuto a suo agio nell’ipocrisia di chi «inneggia alla morale, al rispetto dei valori musulmani e poi appena può si ubriaca e va a cercare donne in discoteca anche durante Ramadan, solo perché è in un paese straniero. Ho passato parte della mia vita attraversando vari Stati per lo più musulmani, e l’accoglienza che ho trovato in Italia è impareggiabile. In Iran, soprattutto, ho incontrato molto razzismo, gli iraniani trattano gli afghani da inferiori, che così vivono isolati, senza grandi possibilità di costruire un futuro», racconta Ahmad.
Le foto, una ragazza, la Messa
«A Roma ho iniziato a frequentare una scuola gestita da suore. Mi sono iscritto ad un corso di fotografia appassionandomi a questa arte. Le suore mi hanno chiesto di fare foto durante una Messa e io ho accettato e da lì ho iniziato ad andare saltuariamente in chiesa. A frequentare la Messa. Le cose che sentivo dire dal sacerdote mi incuriosivano e volevo saperne di più. L’idea che maggiormente mi colpiva all’inizio era che tutti gli esseri umani sono uguali tra loro, fratelli. Ma anche il rifiuto delle guerre e della violenza, per me che ne avevo vista tanta, è un messaggio rivoluzionario: ero abituato alla legge musulmana che invece ti invita a fare la guerra per difendere l’islam».
Per due anni Ahmad è andato a Messa, seguendo più una curiosità che una vocazione. L’amore per una ragazza italiana e cristiana lo avvicina di più al messaggio di Cristo. «Con lei andavo tutte le domeniche in chiesa. Lì mi sentivo sicuro, a mio agio, sentivo che c’era qualcuno che mi ascoltava. Anche prima di convertirmi mi trovavo spesso ad andare in chiesa anche solo per pregare, per cercare conforto. A differenza dell’ateismo che praticava mio padre, la fiducia nell’esistenza di un Dio è quello che poteva darmi la forza di andare avanti, dare un senso al mio dolore».
Per Ahmad inizia il pellegrinaggio nelle parrocchie della capitale per «chiedere informazioni», come dice lui stesso. Finalmente al sesto tentativo trova la sua strada: «Per due anni tutte le domeniche ho frequentato il catechismo, un appuntamento che ho sempre vissuto come una festa con molta gioia. Con gli amici che mi chiedevano dove andavo ogni domenica pomeriggio, inventavo scuse e finti appuntamenti. Non mi avrebbero capito. Il mio catechista è diventato un po’ come un padre per me». Per il giovane afghano ogni passo avanti in questo cammino era un pizzico di forza in più, di sicurezza, di libertà. «Quel che mi affascina del cristianesimo è la presenza concreta di Dio tra noi. L’islam ha come figura centrale il profeta Maometto, che però è morto. Mentre i cristiani hanno Gesù, che è risorto e quindi vivo. Questa è la cosa più bella e che ti dà speranza».
Ahmad è pronto per la «scelta che cambierà la mia vita». A Pasqua di quest’anno arriva il battesimo: «Un momento intenso, mi sono emozionato e alla fine ho chiesto se si poteva fare un’altra volta per quanto forte era il benessere che avevo provato. Sentivo una profonda felicità, la felicità che Gesù mi accettava come suo figlio. Ora dopo il battesimo, anche partecipare alla Messa è completamente diverso: mi sento parte di qualcosa. Ora ho una famiglia vera». Oggi Cristiano vorrebbe diventare catechista, per coinvolgere nella sua esperienza di fede altri giovani. «Sono troppi quelli che dicono di essere cristiani, ma poi le chiese sono piene solo di anziani». Con i colleghi di lavoro spesso parla di Dio. «Cerco di raccontare Gesù anche agli altri immigrati, ma con gli afghani è più difficile, non mi sento sicuro nel farlo. Ce ne sono alcuni, quelli più estremisti, che potrebbero anche uccidermi. Quelli cresciuti in Pakistan sono dei veri e propri talebani, del tutto contrari a qualsiasi idea di conversione».
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«Porto la croce, non mi nascondo»
Al momento la sua “nuova identità” è un tabù per molti, ma il ragazzo non si scoraggia, né ha paura. «Cerco di farmi chiamare Cristiano, con il mio nuovo nome, ma molti musulmani mi prendono in giro, si rivolgono a me dicendo: “Guarda è arrivato, Marco, Matteo, Luca…”. Porto la croce al collo e non mi interessa se è rischioso, non voglio più nascondermi, perché ora tutto è cambiato, ora esiste futuro, esiste speranza».
Ahmad amava «le notti buie e senza stelle», perché gli ricordavano la sua vita, il suo martoriato paese, le sue amicizie violentate. «Tutta la mia vita era stata buia, e pensavo che non sarei mai riuscito a vedere la notte in un altro modo, con un altro colore, ad amare la notte con le stelle e la luna. Mi chiedevo sempre se valesse la pena di vivere così». Cristiano ora guarda al cielo d’estate e cerca le stelle, le più luminose possibili.
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di Marta Allevato