
Forse esiste qualcuno che non attende assolutamente nulla, però io non riesco a immaginare un uomo che non attenda. Anche il buio, la desolazione, il non voler attendere che troviamo in molti nostri contemporanei mi paiono, in realtà, attese.
Di che cosa? Forse della fine di una sofferenza, della noia, del non senso: l’assurdo opprime e angoscia, si attende il nulla per metterlo a tacere. Tutti aspettiamo, ma che cosa, o chi? E come aspettiamo?
C’è almeno l’attesa della morte, che diventa sempre più consapevole e non si può eludere. Forse la si vuole descrivere come un incontro con il nulla per sfuggire all’ansia di chiedersi che cosa veramente essa ci riserbi; per negarsi una paura che umilierebbe, o una speranza che rischierebbe ancora una volta di restare delusa. È meglio pensare a una totale dissoluzione che interrogarsi ancora sul senso del vivere e del morire. Interrogarsi ancora potrebbe condurre ad ammettere che ci si è affidati a miti diventati insignificanti e vuoti, che si è vissuto inseguendo il proprio io, cioè una pista che si rivela troppo precaria, ora che si sviluppa e si spegne nella malattia e nella vecchiaia.
Tutti aspettiamo, ma che cosa, o chi? E come aspettiamo?
Ci può essere un’attesa passiva, anche paurosa, di chi guarda oltre l’immediato, sa che «qualcosa accadrà», ma non avendo possibilità d’intervenire sul futuro si limita a temerlo o a desiderarlo. Dopo l’11 settembre 2001, con gli attacchi alle Torri gemelle di New York, tutti abbiamo sperimentato un senso angoscioso d’attesa di qualcosa che poteva accadere senza che si potesse prevedere quando come e dove. E c’è un’attesa che, invece, convive con il desiderio, o addirittura nasce da esso, e quindi si accompagna con una tensione interiore che in qualche modo cerca di prepararsi, aprirsi, e che – quando possibile – diventa anche attività, anticipazione.
Mi piace pensare a Gesù, il Figlio dell’Uomo, come a una persona che desiderava intensamente e che attendeva con ansia. «Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse gia acceso! C’è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato finche non sia compiuto!» (Lc 12, 49-50). Desidera intensamente fare la volontà del Padre, come un affamato desidera il cibo (cfr Gv 4, 34), anche se è consapevole che ciò comporta un passaggio doloroso. «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22, 15), dice ai suoi amici proprio mentre si addensano su di lui le nubi oscure della passione.
Non è un uomo senza ansie e impazienze. Non vive una spiritualità del distacco intesa come assenza di passioni, equilibrio interiore frutto di un lungo lavoro per estinguerle. Non predica e non promette la fuga dalla sofferenza e da ciò che la genera, quasi azzerando la propria interiorità o parte di essa. Al contrario, sembra vivere un’interiorità che vuole affrontare la sofferenza, sfidarla e lottare contro di essa fino a prenderla su di sé anche a nome di altri. Vive e promette una pace e una gioia che sono oltre questa lotta, o addirittura dentro; sono frutto del dono di sé e generano energie e nuovi desideri.
Gesù, nel Vangelo, ritorna spesso sul tema della vigilanza. Chi vigila è attento, non s’addormenta perché sa che deve succedere qualcosa. Qualcosa che forse è bello, forse temibile, forse entrambe le cose assieme, ma comunque non deve trovarci distratti, addormentati. È vigile chi attende lo sposo che ritorna dalle nozze a notte fonda, perciò deve essere disposto a una lunga veglia per non restare escluso dalla festa (cfr Mt 25, 1-13).
La veglia è desiderio che non deve assopirsi, anzi diventa più acuto con il passare del tempo: «L’anima mia attende l’aurora più che le sentinelle il mattino» (Salmo 130, 6). La notte è lunga, la stanchezza e la tensione si fanno sentire perché ogni momento può essere quello in cui il nemico esce dal buio per colpire, la sentinella scruta il cielo per cogliere i primissimi segni della luce. Così è il profeta, al quale per due volte viene chiesto «Quanto resta della notte?» (Is 21, 11).
Una parte rilevante del ministero di Gesu consiste nel risvegliare desideri sopiti o ignorati, correggere quelli meschini, stimolare ad attendere qualcosa oltre il proprio quotidiano pesante, gretto, privo di orizzonti. Il desiderio infatti apre il cuore, mette in movimento, dispone ad accogliere. Gesù risveglia nella Samaritana il senso dell’attesa, il desiderio di un’acqua che non è capace di trovare da sola e che forse può venirle da quell’uomo strano che l’ha interpellata, chiedendole proprio un po’ d’acqua da bere (cfr Gv 4, 1-42). Molte sue domande, che possono apparire artificio letterario, rivelano un’attenzione pedagogica, meglio ancora un’impostazione spirituale che vuole aprire all’attesa, al cambiamento, al diverso, a qualcosa di sorprendente.
Sull’attesa escatologica in quanto tale mi limito ad alcune considerazioni: Gesù è partecipe di questa attesa, la sollecita, e la collega con il suo ritorno. Tuttavia, a parte questo aspetto importante, la esprime con immagini del suo tempo e della sua cultura, precisando molto chiaramente che essa non deve avere forma più definita, né indicazioni di tempi. Inoltre i segni sono tali che possono e debbono essere visti, ma non hanno una differenza sostanziale da ciò che in ogni epoca e in ogni luogo è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.
L’attesa non è passiva: dev’essere densa di desiderio e – allo stesso tempo – di impegno, senza che l’uno spenga l’altro. Attendere è operare, fino al punto che l’opera da sola può esprimere un’attesa inconsapevole. Nella parabola del giudizio finale, infatti, sono persone inconsapevoli che vengono premiate o castigate non in base a ciò che conoscevano di Cristo e attendevano, ma in base a come hanno operato nei confronti dei suoi «fratelli piu piccoli»: affamati, assetati, forestieri, nudi, ammalati, carcerati (cfr Mt 25, 31-46). Attendere non basta: «Non chiunque mi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli».
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Questo passo suggerisce un’altra domanda: Gesù parla del Regno dei cieli, inteso come Regno futuro, che verrà e che perciò attendiamo, o dell’oggi, del Regno che è già adesso in mezzo a noi, inaugurato ed espresso proprio dalla sua presenza? Anche questa pare un’oscillazione che non lo preoccupa. C’è un domani da attendere, che giungerà quando e come non sappiamo e che sarà definitivo, e certamente questo domani inizia oggi; è oggi che dobbiamo compiere le scelte decisive. L’attesa deve avere una ricaduta sull’oggi e cambiarlo; il Regno dev’essere riconosciuto e accolto oggi, e allora ci accoglierà domani.
Ciò che i discepoli devono fare è percorrere la terra con la forza dello Spirito Santo fino agli estremi confini, come testimoni del Risorto. Gesù sale al cielo e i suoi rimangono lì, perplessi, a guardare in aria. L’attesa non deve essere tale da lasciarci incantati e inattivi; tuttavia nel nostro tempo e nella nostra cultura, a parte casi limitati di gruppi che si mettono in agitazione per presunti segni di un’imminente «fine del mondo», sembra che ci sia piuttosto il pericolo opposto, cioè il rischio di non attendere nulla, o di avere attese soltanto mondane, di eventi che non sono altro che sviluppi del presente, frutto del nostro impegno, o dei nostri sbagli, o del caso. L’orizzonte si chiude. È vero che di queste verità di fede noi cristiani abbiamo parlato a volte in modo improprio generando paure, esagerazioni, distorsioni. Per questo motivo, forse, non si fanno più prediche sull’inferno, il purgatorio e il paradiso, o non ci si chiede più come e quando il mondo finisca. Le interpretazioni caricaturali o riduttive non devono però indurre a squalificare o dimenticare tutto. Se dimentichiamo ciò che queste parole, pur abusate, significavano veramente, il nostro vivere si intristisce su dimensioni meschine. La nostra consapevolezza di avere responsabilità decisive nella vita si riduce; tutto sembra andar bene e, se si è credenti, tutto va bene anche a Dio che non deve castigare e neppure arrabbiarsi perché è misericordioso e sempre pronto a perdonare. Dio diventa un bene indistinto e vago, un benevolo nonno che scusa tutto fino a farci dubitare se il male sia da contrastare o semplicemente da evitare per quanto possibile, solo per non soffrirne.
Come trovare, dunque, il senso di un’attesa che sia respiro di speranza e stimolo di un impegno responsabile, fonte di gioia e di forza, e anche criterio di scelte? Per impostare una risposta provo a raccogliere alcuni aspetti della vita e dell’insegnamento di Gesù: non guarisce tutti i malati, non dà la vista a tutti i ciechi, non perdona indistintamente tutti i peccatori né rimette in piedi tutti i paralitici o gli storpi. Il suo è un ministero fatto di segni, e il Vangelo di Giovanni è il più elaborato nel presentarceli: acqua viva che disseta, luce che permette di camminare e poi di credere, vita che risorge, ottimo vino che proviene da fredde giare di pietra piene soltanto d’acqua… Questi segni dicono che con Gesù la realtà cambia, e i discepoli dovranno compiere le stesse opere; ma il contesto della realtà, della storia, non muta, tant’è vero che rimangono sofferenza e ingiustizie, e che Gesù preannuncia ai suoi persecuzioni e croce.
I primi cristiani, e noi con loro, sono smarriti di fronte a questo mancato «compimento» del Regno e imparano a fatica che bisogna ancora attendere, che il Signore c’è, è con noi, ma deve ancora tornare.
Quale dunque il valore dei segni? Spesso li ho interpretati in modo riduttivo, solo come punto di partenza per credere e, perciò, impegnarsi a cambiare il presente e il futuro. Gesù dà il via a un rinnovamento che opera lui stesso e di cui noi siamo strumenti; di conseguenza la missione è annuncio e allo stesso tempo diffusione della carità, moltiplicazione delle opere: «Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni.
Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date», dice ai Dodici quando li invia (Mt 10, 8). In altre parole, noi dobbiamo continuare a fare ciò che Gesù ha fatto, completare nella storia ciò che ha iniziato.
Ma basta «fare» quelle opere, se non ci ricordiamo che sono «segni»? E segni di che cosa o di chi? Se il Vangelo accolto ci fa gustare un vino nuovo e buono, ci immerge in una luce nuova, ci dà un’acqua che trasforma noi stessi in sorgenti d’acqua, ci fa rinascere dal nostro peccato e dalla paralisi che ci attanaglia, tutto ciò rinvia a una pienezza ben maggiore e a un futuro. I segni che Gesù compie ci rivelano il Padre, cioè la nostra origine e il nostro punto di arrivo. Sono squarci, anticipazioni. Se mi trovo in una stanza buia e vedo una luce, può essere una lampadina che si è accesa, o può essere il sole che filtra da una fessura delle imposte: non è la stessa cosa! Gesù porta un raggio dall’esterno (dall’alto, dice san Giovanni) e ci rivela che oltre le imposte chiuse non c’è soltanto il raggio, ma il sole stesso. Essere mandati dal Signore a porre questi segni significa due cose allo stesso tempo: impegnarci oggi a porli, con tutta serietà, e porli nella loro pienezza, cioè come riferimento alla loro origine e come anticipazione del futuro. Altrimenti non sono più segni, sono soltanto opera che inizia e finisce con noi .
La nostra attesa dev’essere immersa nell’oggi e guardarsi bene da fughe e disimpegni. Dev’essere «terrena», perché se si dispensa dall’accogliere e porre i segni che il Signore pone nella storia, si costruisce un mondo fantastico; dirà «Signore, Signore» senza fare la volontà di Dio e meriterà la condanna. Dev’essere vigile, convinta e quindi spinta a non seppellire il talento, a non approfittare degli altri servi, a non addormentarsi.
Nemmeno dev’essere solo un vago desiderio che le cose vadano bene, oppure solo persuasione che con il nostro impegno le cose cambieranno in meglio. È attesa che i segni dall’alto si rivelino, è colma anche di «Altro», di speranza che dà tenacia. Dobbiamo vivere credendo che «qualcosa accade» nella nostra vita, qualcosa che non abbiamo calcolato e previsto. Obbedendo al Signore dobbiamo compiere dei segni riconoscendoli come tali e non come opera soltanto nostra; e dobbiamo anche riconoscere i segni che ci vengono incontro in maniera del tutto imprevista, senza che ci sia nulla di nostro.
Spesso siamo tanto chiusi nel presente, o preoccupati del futuro, da non saper più guardare allo svolgersi degli eventi, collegarli fra loro, vederne la logica interna che spesso si scopre solo dopo e a partire da ciò che sembrava meno logico, meno ovvio ed evidente. Io ho passato i sessant’anni, ma aspetto di crescere nella mia fede e so che tale crescita avverrà su strade che sono sì dovute alle mie scelte e alla loro intelligente saggezza, eppure avverrà anche su strade che ora non prevedo, fatti e aperture che sono come la lama di luce che entra dalle imposte e mi rivela il sole che mi attende fuori.
Ciò vale anche, e prima di tutto, per il popolo di Dio. Si fanno analisi e indagini, si elaborano piani pastorali: tutto bene. Purché non si dimentichi che se ci si riduce alle nostre analisi e ai nostri piani, si nega praticamente quell’attesa escatologica che si vorrebbe far tornare nella predicazione. Infatti, se non si dà spazio oggi all’attesa e all’imprevisto, si vive nella dimensione delle proprie forze soltanto, e un annuncio della venuta finale del Signore diventa remoto, privo di riscontri.
Nessuno aveva programmato Francesco d’Assisi e tutto ciò che di nuovo il suo movimento ha portato nella Chiesa del Medioevo. Una Chiesa che s’impegna seriamente in ciò che oggi vede necessario per essere fedele al Vangelo è il servo fedele che non si lascia prendere dalla stanchezza e rimane sveglio nel governare la casa, ma governa per qualcuno che viene, senza sapere quando e come. Il suo servizio, dunque, vale come segno dell’attesa, fiducia che il padrone viene davvero. Occorre insomma, come Chiesa e come singoli, vivere operanti nell’attesa oggi e anche domani, pensando oggi e domani non in termini ideologici, con la pretesa di definire esattamente che cosa e quando aspettiamo. Se noi viviamo i passaggi della nostra Chiesa nella fiducia operosa, scopriremo – per grazia di Dio – che le attuali difficoltà sfociano in purificazioni, rinascite e novità.
Tutti aspettiamo, ma che cosa, chi e come aspettiamo? Non riesco a immaginare un uomo che non attenda nulla
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Franco Cagnasso