
Oggi è il tempo degli uomini “pratici”. La loro parola d’ordine è “concretezza”. La crisi della famiglia, ci dicono questi uomini della praticità, è soprattutto una crisi economica. Date loro più soldi, o meno tasse, e le famiglie rifioriranno a nuova vita.
Sembra di sentire le parole del drammaturgo socialista Bertolt Brecht: Erst kommt das Fressen, dann kommt die Moral («Prima viene il mangiare, poi viene la morale»). Prima di parlare, fa dire al furfantello dell’Opera da tre soldi, bisogna aver qualcosa da mettere sotto i denti: «Della gran forma di pane, una fetta anche ai reietti e ai poverelli spetta».
Brecht, certo, sbaglia quando afferma che l’uomo non ha altro pane che quello terreno. È in errore quando pensa che la terra non soltanto sia tutto il pane dell’uomo, ma anche la sua fame.
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Eppure Brecht non aveva tutti i torti. Anche per il vangelo, se è vero che l’uomo non vive di solo pane, ciò, comunque, non vuol dire che non viva anche di pane.
Ben venga perciò una politica fiscale ed economica a misura di famiglia. Il sociologo Luca Ricolfi in un libro di qualche anno fa (La Repubblica delle tasse, Rizzoli, Milano 2011) attestava l’insostenibilità della pressione fiscale. E non si parla soltanto della pressione fiscale complessiva. A comprimere ogni possibilità di crescita economica è soprattutto l’esorbitante tassazione su imprese e partite IVA, vale a dire sui centri produttori di ricchezza.
Detto questo, la crisi della famiglia non può essere ridotta a una questione puramente economica.
La famiglia è entrata in crisi quando la cultura del dono, che è la dimensione famigliare per eccellenza, è stata intaccata dalla logica della “coppia”. Essa è diventata non più una unione superiore alla somma dei singoli componenti, bensì una mera giustapposizione di individualità.
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I paradossi del sesso spuntato
La crisi della famiglia si accompagna, da almeno 40 anni, a uno scenario demografico che nel mondo occidentale registra, nella sua quasi totalità, una perdita del tasso di fecondità, posizionatosi ben al di sotto della soglia di sostituzione (2,1 figli per donna).
Lo statistico Roberto Volpi nel suo libro Il sesso spuntato (Lindau, Torino 2012) parla di una crisi della stessa funzione procreativa, entrata in una fase crepuscolare.
Secondo Volpi si è disegnato uno scenario paradossale. Primo paradosso: il pianeta terra non è mai stato intensamente popolato come adesso (sette miliardi di individui) eppure siamo di fronte a una crisi della riproduzione sessuale. Un’incongruenza, o meglio un dramma, che ricorda quanto diceva Bernanos, il quale ironizzava sulla condizione dell’Europa paragonandola a un cadavere divorato dai vermi: una cosa inanimata ma tutt’altro che inerte, il cui interno brulica di frenetiche attività tese a cagionarne la decomposizione…
I numeri sono impietosi. Parlano di un autentico inverno demografico. La caduta verticale della fecondità europea è comprovata dal tasso di fecondità medio, quasi dimezzatosi negli ultimi quarant’anni, di almeno il 25% inferiore alla soglia di sostituzione. L’Europa è passata dai 2,6 figli per donna nel quinquennio 1960-1965 agli 1,4 nel 2000-2005.
Il secondo paradosso è questo: la caduta verticale del tasso fecondità avviene, in un brevissimo arco di tempo, quando le condizioni economico-sociali sono le migliori di sempre e in regioni geografiche dove il benessere è più diffuso.
Questo fatto, da solo, dovrebbe far riflettere a lungo gli uomini “pratici”.
La grande trasformazione della vita sessuale
Per Volpi la depressione della fecondità deriva da un «deprezzamento valoriale» della procreazione. La svalutazione della procreazione è l’esito di un processo a tappe: il sesso, praticato per sé stesso, senza fine generativo, è divenuto un valore in sé. Grazie alla rivoluzione contraccettiva e all’affermazione della dimensione terapeutica del sesso, questo non è più strumentale alla generazione di nuovi esseri umani.
È la “grande trasformazione” della vita sessuale: anche la sfera del sesso, come è accaduto all’economia e alla politica, si autoregolamenta emancipandosi da qualunque vincolo etico-morale. Il sesso senza propositi riproduttivi viene sgravato da ogni riprovazione morale.
Nello stesso tempo assistiamo alla delegittimazione dell’istituto del matrimonio come principale precondizione per l’esercizio della sessualità tra adulti consenzienti.
Il vincolo istituzionale del matrimonio viene sostituito con il sentimento amoroso, cioè con una condizione puramente esistenziale. Basta pensare alle coppie di fatto, che subordinano il legame-istituzione del matrimonio al legame-unione della convivenza. I rapporti sessuali ora sono praticati sulla base del vicendevole assenso.
Alla deregulation della sessualità si accompagna la crisi profonda del matrimonio succeduta all’introduzione del divorzio. Una crisi che colpisce in particolare misura l’Italia, dove il matrimonio (il “matrimonio all’italiana”) aveva avuto un enorme successo, forse più che in ogni altro paese.
Come uscire dalla crisi del dopoguerra: grazie alla vitalità famigliare
Non si deve dimenticare un fatto: l’Italia esce dalle difficoltà della seconda guerra mondiale grazie a un numero incredibile di matrimoni: quasi 854mila in due anni: 415.641 (1946) e 437.915 (1947), per un totale di 853.556 matrimoni. Una cifra che sfiora i dieci matrimoni all’anno per mille abitanti (un tasso tre volte superiore all’attuale). Gli italiani investono energie e risorse nel matrimonio per uscire dal disastro del dopoguerra. Il boom economico degli anni ’60 sarà vissuto all’insegna del matrimonio trionfante (praticamente solo nella forma religiosa: quasi il 99% si sposa in chiesa). Il matrimonio resta saldo fino a prima metà anni ’70. Il cedimento comincia nel 1974. È l’anno del referendum abrogativo sul divorzio.
In precedenza il matrimonio era il pilastro della vita sociale. Quasi tutto ruotava intorno ad esso. L’istituto matrimoniale in quegli anni è generalizzato, esteso a tutte le classi sociali. L’età media dei contraenti era molto bassa (24 anni per le donne, sei anni pieni meno di oggi), la media dei figli di conseguenza più alta: sopra i 2,5 figli per donna.
La famiglia, dice Volpi, si rivela una sorta di «moltiplicatore degli sforzi individuali». La guerra e lo sport, in maniera differente, stanno a testimoniare che lo sforzo coordinato degli uomini sovente ha la meglio sulle iniziative troppo centrate sulle singole individualità.
Sposarsi per gli italiani del tempo era un rito di passaggio, una assunzione di responsabilità che segnava il transito a una età adulta della vita. Era appannaggio di famiglie che vantavano forti vincoli di solidarietà interna e alti gradi di apertura esterna. Le famiglie italiane sono state il vero motore dello sviluppo economico, non soltanto come unità consumatrici ma come un fattore produttivo a tutto tondo.
La rivoluzione del divorzio
Il divorzio introduce un autentico cambio di paradigma, immettendo nella società domestica un principio caratteristico della società mercantile: il principio di «exit» (uscita o defezione), che definisce la possibilità e la facilità di uscire da un rapporto sociale (nella sua forma tipica un contratto).
La società domestica si regge invece su un altro principio: la lealtà («loyalty»). La possibilità di defezionare intacca così una delle caratteristiche principali della famiglia: la sua incondizionalità. Non si scelgono i propri genitori, i propri fratelli e le proprie sorelle come si scelgono gli amici. Nessuno sceglie da sé se venire al mondo o meno. Per questo la famiglia fa parte di quelle istituzioni che, tradizionalmente, procurano sicurezza a scapito della libertà. Guadagnare in libertà in questo campo ha portato alla perdita di sicurezza, e dunque di stabilità.
La possibilità di scegliere equivale potenzialmente a scegliere di non scegliere più quella persona. Un rapporto libero perciò non è un rapporto incondizionato.
Il divorzio moderno toglie l’aura protettiva al matrimonio, gli leva il suo marchio di garanzia, la “certezza del prodotto”. Il divorzio insinua una sorta di “riserva permanente” nei confronti del matrimonio, introduce la possibilità di scelta, un ombrello di salvataggio, fornisce un’alternativa nel caso che le cose si mettano male. Nessuno prima ignorava la possibilità che un matrimonio potesse fallire, con tutti i dolori e i guai del caso. Ma col divorzio, osserva Volpi, «non si sa più se e quanto il matrimonio potrà aiutaci affinché le cose non si mettano male. Tanto vale non sposarsi del tutto, allora. Qui è l’origine del tramonto del matrimonio che si va profilando; giacché, in effetti, non ci si sposa davvero più».
Il tramonto è provato ancora una volta dalla durezza dei numeri. Secondo l’Istat nel 2014 sono stati celebrati meno di 190mila matrimoni, 26mila in meno rispetto al 2010, 41mila in meno dal 2009. Una progressione in discesa che dura dal 1973.
In generale, osserva Volpi, la crisi del matrimonio è associata a un deciso abbassamento del tono vitale, come se col suo declino fosse stata la società intera a perdere di slancio. Un diffuso luogo comune dice che “il matrimonio è la tomba dell’amore”. Questo giudizio appare in realtà solo un ennesimo segno della sua crisi. Le cose stanno precisamente all’inverso: il combinato disposto della dissolubilità matrimoniale e della maggiore libertà sessuale non ha affatto determinato un aumento del numero di rapporti sessuali. Giusto all’opposto: si fa meno l’amore.
Fino agli anni 70 ci si sposava anche in età molto più giovani: in media a 24, oggi oltre i 30. Sei anni cruciali, nel pieno della vitalità sessuale. Sette matrimoni su dieci avevano luogo prima dei 25 anni della donna, nove su dieci prima dei 30 anni. È alquanto improbabile, se non impossibile, che le donne di oggi, che si sposano poco e a età più avanzate, abbiano mediamente un numero di rapporti sessuali pari alle loro coetanee sposate negli anni ’60 e ’70. Ennesimo paradosso: la maggior libertà sessuale non coincide con una maggior quantità di rapporti sessuali.
Una mutazione genetica: dalla “famiglia” alla “coppia”
Si è detto, all’inizio, che la crisi è scoppiata quando alla logica della “famiglia” si è voluta sostituire la logica della “coppia”. Spesso si sottovaluta il peso di una tale “mutazione genetica”. Fino a cinquant’anni fa il baricentro dei rapporti uomo-donna risiedeva nella parola “famiglia”. Oggi il baricentro sta nella parola “coppia”.
Il cambio di paradigma è evidente: la famiglia è una unità di sopravvivenza, più che sentimentale; una realtà basata più sul dovere (principio di realtà) che sul piacere.
Alla famiglia ben si addicono i versi della meravigliosa Helplessly hoping del trio Crosby, Stills & Nash:
They are one person
They are two alone
They are three together
They are for each other
(Loro sono una persona / Loro sono due da soli / Loro valgono tre insieme / Loro sono l’uno per l’altra)
Nella logica della “coppia”, viceversa, non si dà una unione superiore alla somma delle parti: è una specie di narcisismo a due. La “coppia” termina con lo scemare del piacere di una delle due parti. Il sentire precede l’essere. Quando non si “sente” più nulla, tutto finisce.
Da abitatori del tempo quali sono, gli esseri umani, dice C.S. Lewis nelle Lettere di Berlicche, sono divisi tra due regni: il regno dello spirito e il regno animale. In forza della loro natura anfibia sono perciò sottomessi a una sorta di “legge dell’ondulazione”. Le loro passioni e l’immaginazione sono in continuo divenire, giacché essere nel tempo vuol dire mutare. Per questo la vita degli uomini, nella misura in cui è soggetta al gioco delle passioni, mostra una incessante alternanza tra fasi di depressione e fasi di elevazione.
La passione bruciante accende il fuoco di un momento, ma sulla base instabile degli affetti non è possibile edificare alcunché di duraturo. Presa singolarmente, la passione può dare forza un progetto: può alimentarlo, ma non lanciarlo nel tempo (lo attesta la stessa etimologia: «progetto» viene da pro-jectus, l’azione di gettare in avanti). È proprio la famiglia una di quelle istituzioni che concorrono a dare quella benefica stabilità che, sola, permette alla vita di poter mettere radici e maturare. Ma avendo voluto mettere la passione là dove non dovrebbe stare, si è cominciato a minare l’intero edificio della famiglia: lo spirito individualistico ha finito per sovrastare lo spirito di comunione.
Individualismo, egocentrismo e spirito d’avariza
Precisamente in questa declinazione individualistica della vita a due va rintracciata quella flessione egoistica che San Tommaso avrebbe giudicato una tipica espressione dello spirito di avarizia.
L’avarizia, dice l’Aquinate, è lo smisurato desiderio di ogni «avere», mediante i quali averi l’uomo crede di potersi assicurare la propria grandezza e il proprio valore. Un atteggiamento avaro è l’angosciosa e convulsa caratteristica della vecchiaia, tipica degli anziani che per via della loro naturale fragilità cercano con maggiore avidità il soccorso dei beni esteriori.
Lo spirito di avarizia si accompagna, non a caso, a quella eccessiva prudenza volta alla conservazione di se stessi, porta a quel ripiegarsi egocentrico che subentra di regola quando vengono a mancare la freschezza e la baldanza giovanili. Non si rischia più nulla, non essendoci nulla di più alto del proprio “io”.
Ma fare famiglia, diceva Chesterton, richiede virtù superiori a quelle del calcolo e della mera razionalità. La famiglia è un’impresa da uomini liberi. La prudenza va bene per l’ordine delle cose materiali, si attaglia a un’etica della conservazione. È necessaria, anzi indispensabile, quando si tratta di custodire ciò che è già esistente.
Dare la propria disponibilità a generare una nuova realtà, la famiglia, e nuove vite, quelle dei figli, richiede però qualcosa di più della semplice amministrazione.
È malsano non seguire altro che uno scherma dove tutto è calcolato e quantificato: l’amore avvizzisce in assenza di slancio. L’amore umano si nutre anche di creatività, non solo di gestione e amministrazione.
Il rischio al servizio dalla prudenza
Si dimentica un’altra verità essenziale: cioè che anche la prudenza decade senza il rischio. E allo stesso modo il rischio ha significato soltanto se è messo al servizio della prudenza. Pensiamo a un fatto concreto: chiunque debba intraprendere un viaggio sa che questo comporterà naturalmente dei rischi. Dirgli di “essere prudente” può significare: guida con moderazione, scegli la strada meno pericolosa, ecc. In altre parole: corri il minor rischio possibile. Ma in nessun modo questo equivale a dire: non correre alcun rischio. Per non correre alcun rischio occorrerebbe non partire nemmeno.
Da solo, lo spirito di economia invocato dagli uomini “pratici” non potrà mai rilanciare l’amore famigliare. La lezione della storia insegna: occorre spendersi anche per salvaguardare la natura più intima, la struttura portante della famiglia: l’unione stabile e feconda di un uomo e di una donna saldati da un comune destino. Dopo aver minato la stabilità famigliare col divorzio, dopo aver sferzato la fecondità con la rivoluzione contraccettiva, con l’aborto, con la rivoluzione biotecnologica, ora anche la differenza sessuale è sotto attacco.
È la natura stessa della famiglia a essere minacciata. Viene da chiedersi a che servirà un fisco più equo per la famiglia senza più alcuna famiglia da detassare.
da: costanzamiriano.com