
«No ad alimentazione e idratazione come interventi terapeutici. Perché insieme all’igiene personale costituiscono atti dovuti eticamente e deontologicamente in quanto indispensabili per garantire condizioni fisiologiche di base per la sopravvivenza». Ad affermarlo è Nunzio Matera, responsabile clinico dell’Ospedale Santa Viola di Bologna. Si tratta di un piccolo nosocomio di 60 posti, privato, a pochi passi dal grande Ospedale Maggiore. Con una particolarità: ha al suo interno un nucleo di 25 posti letto per gli stati vegetativi. Per pazienti cioè in condizioni simili a quelle di Eluana.
Dottor Matera, lei vede ogni giorno persone che si
trovano in situazioni simili a quelle della giovane di Lecco.
Cosa le chiedono i familiari?
«In sei anni mai nessuno tra parenti o amministratori
di sostegno mi ha mai chiesto il distacco del sondino. Nelle
riunioni mensili che teniamo con i congiunti dei nostri pazienti
cerchiamo di creare situazioni di coinvolgimento oltre che di
supporto psicologico. Naturalmente facciamo in modo di far
emergere i problemi etici, ma tutti sono molto lontani da
posizioni radicali come quella dell’interruzione di trattamenti
vitali. Non emerge nemmeno una volontà di accanimento
terapeutico, anche perché proprio con questi incontri cerchiamo
di accrescere la consapevolezza dei familiari sulla condizione
in cui si trovano i propri cari».
Cosa si deve intendere per idratazione e alimentazione,
secondo la sua esperienza clinica?
«Sono pratiche normali, supporti vitali che non si
possono ridurre ad atti terapeutici solo per il fatto che in
pazienti come quelli in stato vegetativo vengono effettuate
attraverso una peg o un sondino. Sono uno dei modi fondamentali
in cui mantenere queste persone in buone condizioni di vita. La
sopravvivenza delle persone che entrano in stato vegetativo non
è molto alta: dopo il primo anno l’indice di mortalità è del
54%. Chi supera questo passaggio è in grado di sopravvivere in
buone condizioni di stabilità».
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E a quel punto togliere un sondino cosa può significare?
«In una persona stabile, che non è avviata alla fine
della vita, interrompere alimentazione e idratazione vuol dire
eseguire un atto deliberato di cui chi lo compie deve assumersi
la responsabilità».
Lei lo farebbe?
«No, mai».
E se chiedessero di farlo nel suo ospedale?
«La nostra struttura è fatta per mantenere condizioni
di vita, non di morte. L’ultimo paziente è arrivato ieri
pomeriggio. E sa con che aspettative lo ha portato qui la sua
famiglia? Quelle di essere trattato per quello che una persona
merita. In che modo reagirebbero i suoi se sapesse che possiamo
accettare anche qualcuno per farlo morire?»
Quali sono le cure che offrite ai vostri pazienti in
stato vegetativo?
«Nel paziente in stato vegetativo cronico è quasi
impensabile ottenere una “guarigione”. Ritengo però necessario
prendersi cura di questi pazienti, ricercando le cose giuste da
fare, evitando un inutile accanimento o un crudele abbandono
terapeutico. Ad esempio, nella nostra struttura pratichiamo
comunemente terapie antibiotiche, ove necesarie, e supporto
respiratorio o centri termoregolatori per ottenere la
stabilizzazione clinica. Nello stesso tempo nei pazienti che per
le loro condizioni di gravità raggiungono la fase terminale
garantiamo cure di sollievo che possano accompagnarli degnamente
verso la fine».
Nonostante le divergenze presenti in ambito medico e nel dibattito bioetico su che cosa siano l’alimentazione e l’idratazione, non si possa negare un diritto soggettivo della persona come tale. Mangiare e bere sono un’esigenza chiara. Chi si trova in uno stato vegetativo cronico, ovvero un paziente stabile e non un malato terminale, deve poter sopravvivere il più a lungo possibile».
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Francesca Lozito – Avvenire