Post comunisti senza peccato

Ci interessa soffermarci dei post comunisti sul contino richiamo ai bei tempi in cui c’era «lui», ovvero Enrico Berlinguer, segretario dal 1972 al 1984 dell’allora Partito Comunista Italiano (che ha formalmente cessato di esistere nel 1991 per rinascere prima come Pds – con la fuoriuscita di Rifondazione Comunista – e poi come Ds). Fu infatti proprio Berlinguer che, dopo aver preso le distanze da Mosca e aver promosso con scarso successo la linea del «compromesso storico» con la Dc, puntò appunto, per dare un contenuto alla sua azione politica, sulla «diversità morale» dei comunisti dagli altri partiti. Abbandonando così di fatto l’obiettivo di una rivoluzione sociale rivelatasi ormai di difficile attuazione.

Una sorta di linea maestra, di mito politico-ideologico, la presunta «diversità morale della sinistra», che finora ha resistito nell’immaginario collettivo. «La lezione di Berlinguer vive in noi ogni giorno», ha evocato Fassino, «non per una ragione genetica, ma per i comportamenti che ci ispirano, per l’idea della politica che abbiamo e per come la pratichiamo, per come migliaia di nostri amministratori assolvono alle loro funzioni istituzionali, per come serviamo con passione e generosità il nostro Paese, mettendocela tutta, credendo nelle cose che facciamo, con l’intelligenza e l’energia di cui siamo capaci»
Insomma, dei santi.
Ma questa caratterizzazione quasi antropologica, metafisica, che vedeva, e ancora vede, in una sorta di delirio di innocenza, il partito di Gramsci, Togliatti, Berlinguer (e dei suoi eredi) fuori dagli intrighi e dal malaffare, custodi di una questione morale permanente, quasi fossero, essi soli, immacolati ed esenti dal peccato originale, non corrisponde alla realtà. E’ una favola a cui credono in pochi, a cominciare dallo stesso elettorato di sinistra. Perché la storia e le indagini giudiziarie hanno provato che Berlinguer ricevette per anni finanziamenti dall’Unione Sovietica, e ciò costituisce una responsabilità politica e morale ben maggiore del possibile coinvolgimento di D’Alema e Fassino nello scandalo Unipol-Bnl di oggi. In altri termini, paradossalmente,la colpa dei Ds non è quella di aver dimenticato la lezione di Berlinguer, ma anzi di insistere nello stesso errore: considerare l’interesse del partito al di sopra della morale e, forse, delle leggi.

Giusto per rinfrescare la memoria, è provato e documentato che i comunisti italiani ricevettero dai «fratelli» sovietici, solo nell’arco di tempo che va dal 1950 ai primi anni Novanta, qualcosa come mille miliardi delle vecchie lire. Attinti dal «Fondo di assistenza internazionale ai partiti e alle organizzazioni operaie e di sinistra». In forma ufficiale, cioè. Esistono le ricevute. La somma lievita se consideriamo i canali normali, il finanziamento a enti e istituzioni legate al Pci, i guadagni delle cooperative rosse per il loro ruolo di intermediazione nel commercio fra Italia e URSS.

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«Il fiume della politica per noi non può che scorrere nel letto dell’etica», annuncia oggi Fassino. Ma che dire dei fiumi di rubli, anzi di dollari (sic!) che si sono riversati sui «compagni» per decenni? «I Ds non hanno conti in Svizzera», tuona ancora il segretario del Botteghino. Ma fino a pochi anni fa c’erano conti aperti da cui si poteva attingere a piacere, presso la Banca di Stato e la Banca per il commercio estero di Mosca. Il denaro veniva recapitato da corrieri del KGB.

Berlinguer, oggi punto di riferimento per Fassino e soci, guidava un partito che sopravviveva grazie ai fondi di un impero totalitario e schiavista. Così che possiamo tranquillamente affermare, al di là di polemiche contingenti e con uno sguardo più ampio, che più grave che scalare una banca (o magari prendere una tangente) è farsi finanziare, come ha sempre fatto il Pci, da una delle più crudeli dittature del mondo e della storia. Quattrini a palate serviti per «occupare» in modo sistematico sindacati, magistratura, scuole, università, giornali, case editrici. Le banche sarebbero arrivate per ultime. È l’attuazione della lucida strategia elaborata – l’abbiamo scordato? – da Gramsci.

Un fiume di denaro, quindi, da Mosca a Via delle Botteghe Oscure. Talmente «diversi», i comunisti nostrani, da accettare senza batter ciglio fondi non solo sottratti al bisogno del popolo russo, ma provenienti da quel sistema di potere – anche questo ormai è provato e documentato, grazie al lavoro della commissione Mitrokhin – che aveva tentato di uccidere Giovanni Paolo II: sarebbe stato infatti Breznev ad armare la mano di Ali Agca il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro. Il Papa polacco era considerato dall’impero comunista la più grave minaccia alla sua sopravvivenza.Con l’attentato a Wojtyla il vecchio Pci, additato ancora oggi dai suoi eredi come modello di onestà e «superiorità morale», non c’entrava direttamente, lo sappiamo. Ma i rapporti, soprattutto finanziari, con chi quell’attentato lo decise e lo organizzò, erano chiarissimi.

Bibliografia

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Reinhold Niebuhr, Uomo morale e società immortale, Jaca Book, 1968.
Gianni Cervetti, L’oro di Mosca, Baldini & Castolid, 1993.
Valerio Riva, Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al Pci dalla Rivoluzione d’ottobre al crollo dell’Urss, Mondadori, 1999.
Sergio Bortolotto – Francesco Bigazzi, Pci, la storia dimenticata, Mondadori, 2001.
di Vincenzo Sansonetti  [Da «Il Timone» n. 50, Febbraio 2006]

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