Quando a svegliarci sono le preoccupazioni e non un’occupazione.

Caro padre Aldo, sono uno studente universitario. Tantissime volte ho letto i tuoi articoli su Tempi, altre volte ti ho sentito durante i tuoi incontri; ho letto i tuoi libri, ma sia chiaro: non sono un tuo fan invasato… ho semplicemente bisogno e ho trovato spesso aiuto in quello che racconti. Ho deciso di scriverti perché sto passando un periodo durissimo e di continuo mi viene in mente la tua storia che trovo, per alcuni aspetti, molto simile alla mia.
Circa cinque anni fa ho iniziato ad avere continui mal di pancia, poi nel corso di sei mesi ho perso 10 chilogrammi. La situazione non è cambiata ma nel tempo sto imparando a capire cosa posso mangiare; ma è una continua battaglia perché sto spesso male con fitte fortissime che mi impediscono di fare le cose più semplici. Le tantissime analisi fatte hanno più volte evidenziato che non è un problema generato da cause fisiche. Ho perciò dovuto e voluto iniziare un lavoro di psicoterapia per poter scoprire le ragioni della mia situazione.
La mia storia familiare è stata dura: i miei genitori, quando avevo sei anni, hanno annullato il loro matrimonio e poi i miei fratelli, nella loro adolescenza, mi hanno reso molto difficile la vita in famiglia. Fatti che hanno lasciato un’enorme traccia dentro di me. Crescendo ho imparato ad adeguarmi al mondo esterno, quasi annullando la mia personalità: devo dimostrare sempre agli altri e a me che sono il più simpatico, il più affascinante, devo ridere come gli altri, non posso mai deludere nessuno, devo aiutare sempre tutti…
Questa situazione mi spezza il cuore perché durante le giornate pochissime volte sono autentico, spontaneo, cioè come veramente sono fatto e provo un fastidio incredibile ogni volta che mi scopro dentro questo “modello ideale di vita” che mi costringo a perseguire. Ci sono delle volte in cui respiro e ritorno semplice come un bimbo. Quando vado a Messa, ad esempio: lì mi riaccorgo che sono voluto e che sono fatto e questo mi ridà vita. Oppure l’altro giorno sono stato al funerale di un ragazzo di 25 anni morto di tumore: il prete ha raccontato la sua storia.
Questo ragazzo ha vissuto la sua malattia in un modo davvero invidiabile, era proprio sereno e si sentiva voluto bene. Al funerale mi si sono palesati i segni di Qualcosa di più grande che può darti la pace anche quando tutto il mondo ti direbbe di urlare. Quando mi accadono questi fatti, e non sono pochi, io rinasco. Ma poco dopo ritorno a riguardarmi come mi guardavo prima e così mi si oscura il mondo.
Questo mi fa arrabbiare tantissimo perché è come se il vero che scopro non diventasse il criterio per vivere tutto e guardare me stesso. È come se perdessi la fede ogni giorno e allo stesso tempo la desiderassi ogni giorno. Don Giussani lo chiama “scetticismo”: sono più attaccato a quello che istintivamente mi viene in mente che ai fatti che accadono nella mia vita, che mi fanno scoprire che io valgo solo perché sono stato scelto. È come se avessi un giudizio rachitico, debole: la mattina istintivamente uno non si sveglierebbe, ma poi guardando quello che deve fare di importante, dà un giudizio e si sveglia.
Io istintivamente mi tratto così e non riesco ad aggrapparmi a un giudizio più vero. So solo che sto malissimo ogni volta che mi guardo così, tanto da sfiorare la depressione e la pazzia perché tutto di me si ribella. Darei tutto per guardare e non sprecare la Grazia che mi è capitata. Mi puoi aiutare?
Lettera firmata

Caro amico, raccontandomi la tua situazione umana, verso la fine della tua lettera affermi: «È come se avessi un giudizio rachitico, debole», e fai anche un esempio: «La mattina istintivamente uno non si sveglierebbe, ma poi guardando quello che deve fare di importante, dà un giudizio e si sveglia. Io istintivamente mi tratto così».
Perché è un «giudizio rachitico»? Perché la cosa per la quale ti svegli è un pragmatismo, sono le cose che urgono e che, tassativamente, si devono fare. È una “preoccupazione” quella che ti sveglia e non “un’occupazione” con la certezza che la tua vita è relazione col Mistero: «Io sono Tu che mi fai». Il tuo modo di iniziare la giornata, che porta in sé una bugia che ti schiaccia, è il modo con cui in tanti si svegliano.
Alcuni anni fa, in un incontro che ebbi a Bologna con giovani imprenditori, una giovane mi disse: «Padre, non sopporto più il peso che ogni giorno svegliandomi mi sento sulle spalle: la crisi economica, la gestione dell’azienda, il problema degli operai e i sindacati che sono una tortura. Come posso cambiare il mio sguardo all’inizio della giornata?».
Amico, tu stesso sei cosciente dell’unica risposta che esiste per te, per questa ragazza, per tutti, quando affermi: «Ci sono delle volte in cui respiro e ritorno semplice come un bimbo. Quando vado a Messa mi riaccorgo che sono voluto e che sono fatto e questo mi ridà vita». Questa è l’unica risposta. Don Giussani nel suo libro Il senso religioso afferma: «Solo due tipi di uomini salvano interamente la statura dell’essere umano: l’anarchico e l’autenticamente religioso. La natura dell’uomo è rapporto con l’Infinito: l’anarchico è l’affermazione di sé all’infinito e l’uomo autenticamente religioso è l’accettazione dell’Infinito come il significato di sé».
La prima posizione, quella anarchica, non regge umanamente perché l’uomo, tu, la giovane imprenditrice di Bologna, io, prima non esistevamo, mentre ora esistiamo. Significa che qualcuno ci ha fatti e continua a crearci. Pertanto, è una posizione affascinante quanto vogliamo ma è irrazionale. L’altra posizione, invece, riconosce che se esisti è perché un Altro ti ha creato. Per questa ragione la più bella definizione dell’uomo l’ha data Giussani quando ha affermato: «Io sono Tu che mi fai».
L’unica consistenza dell’essere, la sua bellezza che ci commuove, dipende soltanto da questa certezza: Io sono perché il Mistero in questo momento mi fa. Aprire gli occhi al mattino con questo grande giudizio permette l’esperienza tenera di un bambino che si sveglia tra le braccia della mamma. All’alba il giorno è già pieno di positività, di una voglia piena di allegria per il lavoro che mi aspetta. È l’esperienza che vivo da tempo, dopo moltissimi anni nei quali mi svegliavo perché il dovere mi aspettava, e questo mi lasciava sempre nell’angoscia.

«Dall’aurora io ti cerco»
Quanto affermi è la mentalità mondana che ci portiamo dentro. Tuttavia, quando nella vita, per pura grazia, accade un incontro con qualcuno nel cui volto, nel suo modo di respirare, percepiamo qualcosa che ci corrisponde e lo riconosciamo, tutto comincia a cambiare nella vita, fin dal primo momento che apriamo gli occhi. Mi hanno sempre commosso alcuni salmi che descrivono la coscienza che aveva di se stesso l’autore del salmo, come relazione col Mistero: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua» (Salmo 62).
Il profeta Osea afferma l’immenso amore che Dio ha verso il suo popolo: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio… A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro… Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo». Isaia usa la metafora più bella per descrivere la relazione del Mistero con ognuno di noi: «Sion ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai».
Amico, l’esperienza del dolore durante questi anni mi ha educato a ripetermi in ogni momento queste parole e non un flatus vocis, inoltre, mi sono sentito aiutato unicamente dalla realtà (persone, fatti quotidiani); nella pazienza del tempo il Mistero mi ha immerso in questa certezza. Al risveglio il mio primo pensiero è «Io sono Tu che mi fai», e da questa coscienza ho appreso, quando mi pettino al mattino, a guardarmi con ironia, a sorridermi, a dipendere sempre meno dai giudizi rachitici degli altri o della mia povera mente.
Anche adesso che una malattia incurabile mi accompagna, quando apro gli occhi ho la grazia di non guardare a quello che ho, bensì di riconoscere che dentro questa condizione, sono relazione col Mistero. «Non aspettatevi un miracolo, ma una strada», continua a ripetere don Carrón. Per questo ti invito a prendere sul serio questa provocazione, imparerai a non essere più determinato da un giudizio rachitico, ma da una grande libertà.
Don Aldo Trento

Articolo tratto da www.tempi.it per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

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