Quando tutto è confuso, dai fantasmi della mente ci salva la realtà

Foto di Joe da Pixabay

Caro padre Aldo, è da un po’ che mi scoppia dentro questa domanda, e te la voglio consegnare tutta. A te che ogni giorno lotti come un eroe e vivi come un santo. Quello di cui sono certo è che la mia vita, a rileggerla adesso, è stata da subito e da sempre investita da un bisogno di affezione grandissimo, una necessità vitale di essere voluto bene. Il mio bisogno affettivo è una spinta ad agire potentissima, che se non trova un legame totale a cui darsi diventa scomposto e irrequieto, fuori controllo. A rileggere adesso tutta la mia vita, ti dicevo, è proprio “a causa” di questa urgenza viscerale che ho fatto tante cavolate, come l’uso della droga o il portare avanti una vita scapestrata. Questo bisogno è la cosa che forse più mi caratterizza e mi appartiene.
Da qualche anno mi sono scoppiate delle grandi crisi d’ansia, con ossessioni, idee fisse e pensieri che si rincorrono veloci e che mi fanno creare una realtà parallela rispetto a quella che vivo. Questa dinamica, unita a un senso di angoscia terribile da farmi piangere, è diventata così pressante che ho avuto bisogno di andare dallo psichiatra. Ho scoperto di non essere come credevo, che posso passare giorni interi a piangere per l’angoscia… proprio io che credevo di essere un duro.
Tempo fa un’amica mi disse che il più grande rimedio per l’ansia è restare attaccati alla realtà. È vero, me ne sono accorto, ma la questione è esattamente questa: spessissimo io non riesco a vedere la realtà, è come se la mia testa fosse dentro una campana di vetro che mi isola dal resto del mondo. Il tutto con un arrovellarsi di emozioni contrastanti e scomposte. È tremendo perché arrivo a perdere ogni capacità di giudizio, non colgo i segni di cosa Dio vuole da me e cosa dovrò fare nella vita. Tutto mi si perde fra le mani, faccio un casino dopo l’altro e chi mi è vicino ne soffre. Io sono la prima vittima di me stesso e della mia testa. Ti faccio un esempio. Sto con una ragazza da un anno e mezzo circa. Fin dall’inizio era evidente chi me l’aveva fatta incontrare, mi era evidente che seguivo l’ipotesi di un Altro e non la mia. Ho pensato, «ecco, su quest’Altro posso costruire qualcosa». Dopo poco tempo mi è tornata in mente una ragazza con cui mi ero lasciato da poco. Nel tempo questi pensieri sono cresciuti, e ora mi trovo a non sapere più distinguere qual è la realtà dalla finzione, cosa c’è di vero nei pensieri che mi vengono e cosa di creato dalla mia testa. È come se la mia ansia si prendesse gioco di me: appena inizio un’ipotesi di strada la mia mente e le mie emozioni mi strattonano via dalla realtà, così che tutta la mia vita è stata una serie di aborti. Vedo i miei amici sposarsi o seguire una strada che riconoscono, e ogni volta per me è come un pugno in faccia. Non ti nascondo che a volte vorrei farla finita, perché mi chiedo: ma che futuro posso avere se non riesco a distinguere la realtà dalle emozioni e dai pensieri? Cosa posso fare io, così come sono, per vivere e seguire i segni del Mistero? Che valore ha una vita come la mia che non può costruire nulla di stabile e duraturo perché dominata da emozioni e pensieri?
Lettera firmata

Ringrazia la tua amica per averti provocato a prendere sul serio la realtà. In questo modo ti ha offerto la possibilità di un cammino per non farti vincere dalle fantasie, dalle ossessioni, dalle idee fisse che ti tormentano. E questo cammino è lento, richiede tanta pazienza e qualcuno che si ponga al tuo fianco per indicarti la realtà e ciò di cui è segno. Leggendo la tua lettera mi risulta sempre più chiara la provocazione di una cara amica. Provocazione che da 23 anni mi accompagna e che si è resa talmente concreta da darmi tre regole fondamentali per vivere la realtà. Tutta la battaglia che vivo giornalmente consiste nel non lasciarmi vincere dalle fantasie, dalle ossessioni che in certi momenti mi sembrano spaventose. La prima regola: “calli alle ginocchia”, ossia lo stare nella realtà in ginocchio per poter stare in piedi; la seconda: “calli nel cervello”, vale a dire guardare in faccia la realtà chiamando le cose, le circostanze con il loro nome, vivendo la realtà che sono chiamato a vivere. La terza: “calli nelle mani”, vuol dire il lavoro fisico che è per me il mezzo più potente per creare un vincolo concreto con la realtà. Vivendo in questa maniera, accompagnato da un amico “forte” e appassionato alla realtà, in questi 23 anni ho potuto sperimentare la grazia di questa malattia perché mi ha permesso di imparare cosa vuol dire mendicare la grande presenza del Mistero. Una presenza che ogni giorno si fa visibile in ogni dettaglio della vita. Certamente tutto questo, senza la mia libertà chiamata a decidere in ogni istante, non sarebbe possibile.

Ho sperimentato la verità di quanto don Giussani ripeteva: «Le circostanze sono fattori costitutivi della propria vocazione. Non esiste una situazione privilegiata rispetto a un’altra, perché tutto ci è dato per la maturazione del nostro io». Dio si è servito di me e della condizione in cui ero per mostrare la sua infinita Misericordia a quanti soffrono. L’impatto quotidiano con la realtà è diventato lentamente il cammino sicuro che permette di guardarmi come mi guarda Dio. Il solo fatto di esistere mi permette di guardarmi con affetto. Se io sono e continuo ad essere è solo perché un Mistero mi fa in ogni momento. Allora la battaglia che la realtà mi chiede di vivere è quella di non togliere mai lo sguardo dalla Sua presenza che si rivela in ogni cosa. E non è una cosa automatica questa posizione, ma un cammino costellato di santi che mi accompagnano. Alcuni giorni fa ho celebrato il matrimonio di una giovane donna, ammalata terminale di cancro e cosciente della gravità della sua situazione. Giunto all’omelia mi sono permesso di chiederle quale fosse stato il momento più bello e importante della sua vita. E lei, sorprendendomi e commuovendo tutti, mi ha risposto: «Padre, la malattia. Mi ha permesso di avvicinarmi a Gesù che per me era un estraneo». Ma non è finito qui l’Avvenimento, perché giunti alla comunione ho preso la pisside e sono andato a dare l’Eucaristia agli ammalati. Giuseppe è eccezionale, è paralizzato e cieco. Vedendo che piangeva gli ho chiesto il perché. E lui, con tutta semplicità, mi ha detto: «Sono felice perché i miei amici lo sono, e la loro gioia è la mia». Ancora una volta ho toccato con mano che non esiste nulla che non possa essere occasione che il Mistero ci dona per riconoscerlo come la consistenza di tutto, come una risorsa donata alla libertà per dire «Tu o Cristo mio».

Carissimo padre Aldo, ne I Dieci Comandamenti scrivi: «Non sopportiamo ciò che tiene quella ferita aperta, che sia depressione o una malattia, o magari l’innamorarci di qualcuno di cui non dovremmo. Vogliamo eliminare in fretta i problemi. Magari moralisticamente vogliamo essere bravi. Don Giussani su questo era radicale: mai invitava a tirarsi indietro, ma sempre ad andare a fondo, ad affrontare ciò che ci si pone come sfida». E poi ancora: «Quando l’autocoscienza dell’io non è più il rapporto con il Mistero ma piuttosto i suoi antecedenti biologici o psichici, allora è evidente che la vita non ha alcun senso, perché l’uomo si trasforma in “una passione inutile”. Il quinto comandamento esalta, ricorda all’uomo la sua dignità, la sua grandezza. (…) dimenticarsi di questa verità è la condanna a una vita priva di senso, alla mancanza di autostima, alla noia di vivere». Come è vero! Che lotta che è per me! Mio padre soffre da quando sono nata di quello che i medici chiamano un disturbo di personalità di tipo paranoico-narcisistico. Che dolore e quanta sofferenza, ma l’abbraccio di Cristo è sempre stato forte, fino a farmi incontrare il movimento. Ora mio padre sta meglio, finalmente si cura, sono cambiate molte cose. Ma anche nelle mie giornate migliori tutta questa sofferenza non se ne va, resta lì, come un tarlo che mi fa perdere la bussola. E se si trasforma in domanda allora è una grande risorsa, quando non accade è una vera croce. A volte prego perché mi sia tolta, vorrei non essere come sono, imparare a sorridermi, a guardarmi con letizia, dare il giusto peso a questi fatti, a riconoscere che Cristo mi ama, c’è. Poi mi accorgo che tutto questo mi costringe a un dialogo serrato con Cristo che porta a momenti di letizia così profonda da farmi dire: «Se questa ferita mi tiene così legata a te, non togliermela mai». Vorrei diventare capace di dire di sì, di offrire, di percorrere la mia strada senza perdere tempo in inutili lamentele, in dubbi, scoprendo dove porta e cosa Lui vuole fare di me.
Antonia

Aldo Trento-  2013 – Tempi

Articolo tratto da www.tempi.it per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

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