
Diciassette ragazze nigeriane hanno deciso di denunciare i propri aguzzini, ottenendo dal tribunale i beni che i loro sfruttatori avevano accumulato negli anni
Conosco Isoke da un po’ di anni. Ha una bellezza rara. Con raro intendo non di quelle bellezze misurabili in forme, centimetri, quantità, foto. Bellezza come insieme di complessità, tracce, armonie. Isoke è una ragazza africana di trentatré anni. Nigeriana. E’ arrivata in Italia nel 2000 sognando un lavoro, invece le mafie nigeriana e italiana l’hanno obbligata a prostituirsi. Dopo tre anni è riuscita a liberarsi e ha deciso di non tacere. Isoke ha raccontato cosa vuol dire per lei la parola “strada” a “Quello che (non) ho”. Ora è un viso noto: scrive libri, va in tv, riesce a raccontare la sua storia e facendolo cerca di attirare l’attenzione di tutte le ragazze che vogliono lasciare la strada. Testimonia che esiste un’alternativa e con il suo esempio le invita a prendere coraggio.
ISOKE MI HA INSEGNATO a comprendere l’inferno della tratta. A distinguere, da una voce al telefono, una escort d’alto bordo da una ragazza sfruttata. A capire messaggi in codice e meccanismi delle organizzazioni nigeriane. Mi ha insegnato a non temere la caduta, perché ci si può rialzare. Ma mi ha insegnato anche che per rialzarsi serve una mano. Mi ha insegnato a tenderla quella mano e a non temere una realtà che sembra remota. Oggi, secondo l’Onu, il traffico di essere umani coinvolge 2 milioni e 700 mila persone con un giro d’affari pari a 32 miliardi di dollari. Secondo il ministero dell’Interno la tratta è la terza fonte di reddito delle mafie dopo le armi e la droga.
Qualche giorno fa Isoke mi ha scritto una mail importante. Diciassette donne nigeriane, costrette a prostituirsi in Abruzzo, hanno denunciato chi le costringeva alla strada. Sfruttatori e non protettori, come talvolta, sbagliando, diciamo. Così come dovremmo abituarci a considerare la prostituzione non come una questione di sicurezza o di “decoro urbano”, ma di riduzione in schiavitù: la negazione dei diritti fondamentali. Invece queste diciassette donne nigeriane, donne coraggiose, hanno visto riconosciuti i propri diritti dalla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila. I giudici non solo hanno risarcito ogni vittima con 50 mila euro di provvisionale immediata – che quindi verrà pagata subito, senza attendere la Cassazione – ma hanno preso una decisione rivoluzionaria. Hanno revocato la confisca dei beni sequestrati agli imputati – proventi dello sfruttamento – e li hanno resi disponibili per risarcire le donne. In pratica, i soldi tolti ai trafficanti non andranno allo Stato ma alle vittime.
Roberto Saviano (L’Espresso)
L’EFFETTO VIRTUOSO di una tale scelta è quello di accorciare la distanza, che oggi pare siderale, tra il cittadino e le istituzioni. La legge, il tribunale e di conseguenza lo Stato, smette di essere quel moloch lontanissimo dal quale sembra difficile avere giustizia. E’ la rivoluzione del buon senso: la forma che diventa sostanza, la legge che si schiera al servizio dei cittadini. Con un altro effetto, altrettanto virtuoso e altrettanto rivoluzionario: rendere la legalità conveniente. La certezza del risarcimento, alimentato con i beni dei criminali, diventa stimolo alla denuncia. Utilizzando la stessa procedura adottata dai giudici dell’Aquila, si può incentivare la rottura dell’omertà per convincere le vittime a farsi avanti. Si può anche favorire l’attività delle associazioni che contrastano la criminalità e che si sentono abbandonate: associazioni che fanno un lavoro duro, lontano dai riflettori e sotto la minaccia dei clan.
Quando ho letto il messaggio di Isoke ho capito che mi stava comunicando qualcosa di fondamentale: i giudici hanno riconosciuto che quelle 17 donne sono state ridotte in schiavitù in un Paese democratico. In più, la sentenza è stata emessa a favore di cittadini non italiani, dimostrando che in Italia la legge può essere uguale per tutti. Ma se questa giustizia è stata possibile lo dobbiamo alle associazioni che da anni denunciano la tratta e che hanno assunto la tutela legale delle vittime. Due di queste, che vanno sostenute, sono On The Road e di BeFree. Perché la libertà di quelle donne è indissolubilmente il destino della nostra libertà.
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