
La legalizzazione dell’aborto ha rimesso in questione “l’ordine generativo nella sua totalità” e aperto, nelle società occidentali, un problema di grande portata: come si definisce l’appartenenza all’umanità dei nuovi nati. È questo il tema di fondo del ponderoso e acuto saggio del sociologo Luc Boltanski (La condition fœtale. Une sociologie de l’engendrement et de l’avortement, Paris, Gallimard, 2004). Proprio con la legalizzazione dell’aborto è stata infatti implicitamente riaperta la questione del diritto di appartenenza all’umanità che, sulla base della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, dovrebbe essere assicurato a ogni essere vivente. Invece oggi si discute di nuovo sulla possibilità di escludere dei potenziali esseri umani dal diritto di vivere: la situazione attuale – scrive lo studioso – assomiglia a quella di duemila anni fa, quando è stato messo in questione il carattere inevitabile e naturale dello schiavismo, cioè dell’esistenza di esseri dallo statuto d’umanità ineguale.
Visto così, nella descrizione un po’ gelida dello scienziato sociale, il nuovo assetto concettuale con il quale si affronta oggi la questione della riproduzione e dell’aborto non è infatti la via della libertà e della realizzazione umana, come sostengono i difensori della moderna rivoluzione sessuale, ma solamente un’altra modalità di controllo e di interpretazione della sessualità e della riproduzione umana, valida e discutibile quanto quelle che l’hanno preceduta.
Questo è il merito principale del volume, e non si tratta di un merito secondario: è la prima volta, infatti, che viene ricondotto al suo ruolo storico, necessariamente modesto e contingente, il movimento di liberazione sessuale, e di revisione del modo di vivere la generazione umana, che da mezzo secolo costituisce uno dei dogmi indiscussi della modernità.
L’aborto, pratica diffusa ovunque e in ogni tempo, è stato sempre oggetto di riprovazione generale, ma in genere tollerato, a patto che fosse escluso dalla sfera della rappresentazione, cioè che si potessero chiudere gli occhi. Per il feto abortito non sono mai stati previsti riti, al contrario di quanto succede per il bambino destinato a sopravvivere, accolto con un rituale – l’imposizione del nome – che ne sanziona la singolarità. Un essere umano, quindi, è “fatto” dalla carne e dalla parola: in molte società primitive, finché il nuovo nato è senza nome può essere eliminato senza che questo costituisca un omicidio; ma non è più possibile farlo se il nuovo nato è stato confermato, con un gesto simbolico, nella sua umanità.
Per mettere in atto questa operazione concettuale è necessario però – scrive Boltanski – che sia ben segnata la differenza fra gli esseri generati dalla carne e gli esseri generati dalla parola, cioè fra i prodotti della relazione sessuale e gli esseri che verranno a prendere posto fra gli umani. Differenza che comporta la separazione completa fra sessualità e generazione. Così, liberata dalla riproduzione, la sessualità può diventare una pratica essenzialmente ludica, senza norme limitative, presenti invece in tutte le società conosciute. L’aborto può essere ammesso solo se esiste questa opposizione fra umanità definita dalla carne e umanità confermata dalla parola e se si accetta che la parola di conferma sia quella delle donne: a esse, quindi, è riconosciuta una sorta di sovranità sulla creazione di nuovi esseri umani.
Ma la conferma attraverso la parola può arrivare anche da una autorità superiore alla madre, cioè da una istituzione che ne sancisce il potere di conferma, come è sempre stato in passato, quando la “preconferma” del feto derivava dalla divinità, dalla parentela e poi dallo Stato nazione. A tutto questo oggi si è sostituito il “progetto parentale”, che può anche essere solo materno, e che legittima il nuovo nato iscrivendolo in un contesto pronto ad accoglierlo.
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La preconferma da parte di Dio, che istituisce una parentela d’origine divina fra gli esseri umani, è l’unica che accetta ogni nuovo nato, attribuendogli uguale valore: su questo concetto si fonda l’idea di “comune umanità”. In questo tipo di assetto la sessualità deve essere al servizio della generazione e viene rifiutato ogni tipo di selezione del feto. La preconferma da parte della parentela, invece, prevede l’esclusione degli illegittimi, e in questo caso l’aborto è accettato, come un aggiustamento domestico. Dalla Rivoluzione francese nasce un altro tipo di preconferma: quella dello Stato nazione, che accetta il feto quando esso può occupare un posto nella società, cioè svolgere un ruolo utile nella collettività. È una preconferma dettata da un interesse utilitaristico e riconosce alla sessualità un fine socialmente utile – in funzione della quantità e della qualità dei figli che può generare – ed è frutto dell’idea, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, che la popolazione è un affare concernente il bene pubblico. Per questo lo Stato se ne deve occupare evitando la “degenerazione”, con interventi – la sterilizzazione o il divieto di matrimonio – rivolti a impedire la nascita di “indesiderabili”. Nel caso di preconferma dello Stato, le donne vengono spossessate dal loro potere di generazione, perché la preconferma è sottoposta al vaglio dei medici.
Nella seconda metà del Novecento lo Stato ha dovuto abbandonare, almeno in Occidente, il dominio della riproduzione, ma non del tutto: l’aborto infatti è legalizzato a condizione che sia inquadrato da regolamenti statali e realizzato sotto il controllo dello Stato. Ma oggi è l’autorità delle donne a selezionare chi può venire al mondo, e si è affermata l’idea che non si può concepire un figlio al di fuori della logica di un progetto. La dissociazione fra sessualità e riproduzione è totale, e viene considerato un diritto di tutti l’accesso a una sessualità senza costrizioni, che deve avere come risultato solo la nascita di esseri suscettibili di essere confermati dalla parola. Ma non è semplice operare concettualmente una definizione del feto che metta più distanza possibile fra le due categorie dei confermati e dei non confermati. Si diversifica così il “feto autentico”, iscritto nel progetto parentale, chiamandolo bébé fin dai primi tempi, osservandolo amorosamente nell’ecografia, proiettandolo subito nel futuro. Al contrario, quello non riconosciuto è equiparato a una malattia, a un “tumore”, e riportato verso il niente da cui proviene.
Di questo secondo feto si cerca di evitare ogni tipo di rappresentazione, di definizione umana, iscrivendo l’operazione di aborto nel registro della terapia, come prova la sigla perifrastica IVG – interruzione volontaria di gravidanza – usata al posto del termine originario. Bisogna infatti che si stabilisca il massimo scarto tra il feto senza valore e il futuro bambino figlio del desiderio, che Boltanski definisce come “il bambino che non ha prezzo”. Questo aggiustamento teorico è stato messo in questione, negli ultimi decenni, da due novità: lo sviluppo delle tecnologie riproduttive e l’entrata del feto nella società attraverso la sua immagine. Lo sviluppo delle tecnologie riproduttive ha creato un nuovo tipo di feto, che Boltanski chiama il “feto tecnologico”, comprendente gli embrioni congelati. E questi pongono un grave problema di classificazione: non si possono considerare alla stregua del “feto tumorale” perché sono frutto di un progetto, ma di questo progetto non possono più far parte. La soluzione del problema non è facile, anche perché rischia di mettere in discussione la legalità dell’aborto: per evitarlo, bisogna considerare tutti gli embrioni come sostituibili, senza valore proprio, anche se sono potenzialmente riconosciuti in un progetto. Il bambino riconosciuto dalla parola sarebbe quindi l’unica entità veramente umana, associata a diritti soggettivi, mentre gli esseri di carne si potrebbero trattare come supporti sostituibili.
Il problema è complesso anche perché “la legalizzazione dell’aborto comporta la squalifica della nozione di comune umanità, e può portare a conseguenze non condivise da tutti i suoi sostenitori, come la legalizzazione dell’eutanasia o l’estensione dei diritti agli animali superiori”. Per questo abbiamo la legalizzazione dell’aborto – considerata il male minore, scrive Boltanski – ma non la sua legittimazione. Si cercano giustificazioni, ma si trovano solo scuse che, a differenza delle giustificazioni, non pretendono legittimità, ma fanno valere delle attenuanti. L’aborto, infatti, non è legittimabile perché non può essere trattato come un bene, né giustificato in base a una esperienza legittima, ma non è neppure penalizzabile. Si può accettare solo sperando che scompaia, come facevano i promotori della pianificazione familiare della metà del Novecento, fiduciosi che con lo sviluppo della contraccezione l’aborto sarebbe stato solo un residuo. Oggi sappiamo che non è così. A meno di non considerare come scomparsa dell’aborto l’uso della pillola del giorno dopo, sempre più diffusa in Francia perché permette di sdrammatizzare l’aborto, di farlo sparire, creando un continuum fra questo e la contraccezione. L’ultima possibilità di far sparire l’aborto – scrive lo studioso – è quella di far sparire la generazione, almeno come frutto dell’accoppiamento sessuale, realizzando così la perfetta separazione fra sessualità e fertilità, la fine della divisione fra i sessi e quindi, secondo alcuni, anche quella della dominazione maschile. Nell’illusione di realizzare due utopie: quella di creare un’umanità felice, senza ferite, e quella di sbarazzarsi del problema della sessualità e del suo legame inquietante con la riproduzione. La selezione tecnica degli embrioni dipenderebbe allora dallo Stato o dalle rappresentazioni, variabili secondo le persone o i gruppi, della piena umanità. In queste condizioni “la nozione di comune umanità perderebbe ogni senso, e una inquietudine permanente rischierebbe di instaurarsi sulla questione di sapere dove passano o, piuttosto, dove devono passare le frontiere dell’umanità”. Ma è compatibile questo – si chiede alla fine Boltanski – con il funzionamento normale delle società umane?
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di Lucetta Scaraffia da “Avvenire”, 31 marzo 2005