
Dolore tanto. Ma un malato che lucidamente gli chiedesse di morire don Massimo Angelelli non l’ha mai incontrato. Eppure il direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei è stato per otto anni cappellano ospedaliero al Policlinico universitario di Tor Vergata di Roma. Cinquecento posti letto, migliaia di malati ogni anno, un esercito di famiglie alle prese con i problemi quotidiani di un caregiver.
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A parole molti dicono che a un certo punto “è meglio farla finita”. Ma quanti malati gliel’hanno chiesto veramente?
Io
nessuno, eppure di malati terminali ne ho incontrati molti, purtroppo.
Così come il cappellano dell’Hospice Villa Speranza di Roma che ha
accompagnato 6mila malati terminali in dieci anni e mi racconta di aver
vissuto la stessa esperienza. Insomma, non sono così tanti coloro che
chiedono il suicidio assistito. Fortunatamente.
Questo cosa significa?
Prima
di tutto che le scene di queste ore sono macabre. È macabro veder
festeggiare il desiderio di morire. Va in contrasto con l’esperienza
ospedaliera: intorno a un letto non si festeggia, si accompagna, si è
presenti, si ascolta, si fa tutto il possibile per scacciare la
solitudine.
Questa sentenza modifica il quadro definito dalla legge 219 sulle Dat?
Più
che modificarlo, lo esplicita. C’erano già i presupposti perché si
arrivasse a questo punto. La sentenza – anche se in realtà commentiamo
un comunicato sulla medesima e io vorrei leggere il testo completo –
amplia e specifica il bacino dei potenziali fruitori; dove non si
parlava esplicitamente di porre termine alla vita della persona ora il
giudice costituzionale sembra chiarirlo. Ma aspettiamo di leggere e
capire.
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Si è fatto un gran discutere sul refuso e/o, relativo alla sofferenza psicologica intollerabile. Perché è così importante?
Perché
tutte le persone che si trovano in stato di sofferenza vivono una
condizione psicologica di grande fragilità e questa condizione smonta il
presupposto della sentenza, che è la libertà di scelta del paziente.
Come possiamo dire che sono liberi di scegliere? Chi vive la sofferenza
non è libero, bensì esposto più di tutti alla convinzione di essere un
peso e che terminare la vita sia una soluzione.
La sentenza afferma la proprietà privata della vita, senza limiti. Ma siamo padroni della vita?
Credo
che non si punti alla proprietà, ma all’autodeterminazione. Tuttavia,
per una scelta libera che è il presupposto dell’autodeterminazione si
debbono avere delle opzioni: se mi mancano le cure, l’assistenza
domiciliare, un sostegno familiare e i caregiver
devono rinunciare al lavoro per assistermi, la mia libertà di scelta è
compromessa. Esiste un sistema che limita la mia capacità di scelta e
una legge che mi impone la morte come soluzione.
Perché non si fa nulla per alleviare il dolore «intollerabile»?
Per
come è strutturata la ricerca e la clinica medica c’è grande
concentrazione sul dolore fisico che può essere ridotto con interventi
farmacologici. Quello che riceve meno attenzioni è il dolore psicologico
e spirituale, che infatti è al centro dell’attenzione e del lavoro
degli hospice. La carenza di risposta a questo problema è decisiva,
perché la decisione di scegliere di morire difficilmente matura in un
ambito di dolore fisico, ma deriva da una sofferenza morale e
psicologica.
La vita, la morte, il dolore diventano merce politica: dove abbiamo sbagliato?
Abbiamo
sbagliato nel momento in cui abbiamo inserito un criterio economico nei
sistemi di cura delle persone. Innescando una progressione di scelte e
valutazioni, che porta all’idea di fondo che una persona che soffre di
grave disabilità rappresenta un costo eccessivo. Ricordo che la legge 38
del 2010 sulle cure palliative è inapplicata proprio in virtù di questa
interpretazione prevalente, di taglio economicistico.
Unica alternativa: l’obiezione di coscienza?
Fortunatamente gli ordini dei medici e degli infermieri hanno detto il loro “no” a quest’impostazione: se c’è libertà di scelta del paziente, dev’esserci anche per l’operatore sanitario.
Avvenire