A diciassette anni, Magdolna Rorh fu deportata, insieme a diverse decine di migliaia di Ungheresi, nel Gulag, i campi di lavoro forzato. La ragazza quindi al posto delle scuole ungheresi fece “la scuola” del Gulag.
Foto scattata nel 1945 che ritrae Magdolna Rorh e Borbála Marczin, allora diciottenniIn un certo periodo [negli anni 1940 e 1950] circa dodici milioni di persone vissero prigioniere nei pressoché 40.000 lager sovietici, sparsi per il vasto territorio compreso fra la Penisola di Kola e il Caucaso. Diversi milioni di loro morirono prima di poter rivedere la propria patria a causa dei maltrattamenti, del clima gelido e della carestia. Gli altri, ovvero coloro che ebbero la fortuna di sopravvivere e tornare, come Magdolna Rorh e Károly Pintér (suo marito, a sua volta deportato per aver aderito al movimento dei “levente”, la stragrande maggioranza non sono mai riusciti a rinserirsi nella società: emarginati, furono controllati dalle autorità del regime ancora per lunghi decenni. Magdolna Rorh è da poco andata in pensione come capodipartimento di contabilità di una compagnia alberghiera; oggi è uno dei membri più attivi della Fondazione dei Prigionieri del Gulag e opera per la difesa dei diritti di più di 400 Ungheresi ex deportati.
Aveva appena diciassette anni quando, il 23 settembre 1945, fu arrestata da due militari dell’esercito sovietico.
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«Si presentarono a casa nostra a Budapest. In quel momento io, ovviamente, non sapevo il perché. I miei non c’erano. Soltanto mia nonna era in casa. Li rividi tutti soltanto otto anni più tardi. I due Russi mi tolsero tutti i gioielli per non restituirmeli mai più. Bisogna sapere, come premessa, che alcuni mesi prima, con la mia amica B. Marczin, facemmo conoscenza con due giovanotti, I. Herczeg e K. Tiefenbeck. Durante l’estate del 1945 uno di essi, I. Herczeg tentò di emigrare dall’Ungheria, ma fu catturato. Ho saputo soltanto più tardi che egli segnò sulla sua agenda i nomi e i recapiti di noi tre. Così i militari sovietici poterono “ricostruire” il quadro della “congiura dei quattro membri”, in base al quale poi vennero costruite tutte le accuse di spionaggio, di alto tradimento e di propaganda antisovietica».
La picchiarono con la pistola
«Immagino che lei non si occupasse di politica in quel periodo…»
«Certamente no. E non avevo mai tenuto un’arma in mano, anche se secondo le accuse avrei partecipato alla resistenza armata contro i Sovitetici». (…)
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«Quali progetti professionali aveva?».
«Studiavo all’Istituto Tecnico Commerciale, ma, a causa della guerra, avevo frequentato solo il primo anno. Non so come avrei proseguito gli studi. In ogni caso, al posto di una scuola superiore, ho finito “una scuola” dell’Unione Sovietica, nel Gulag».
«Venne interrogata dopo l’arresto?».
«Mi interrogavano sempre di notte. A parte questo, continuavano a spostarmi senza tregua da un carcere all’altro. Prima ero detenuta in una caserma a Budapest, poi mi trasferirono a Szombathely [confine Ovest] nel cosiddetto “Castello della Civetta”. Pochi giorni dopo mi sottoposero ad una inchiesta ad Eisenstadt, in Austria. L’interprete non conosceva bene l’ungherese, soltanto fino al punto di potermi comandare di firmare un lungo documento scritto con alfabeto cirillico».
«E lei lo firmò?»
«Firmai tutto perché non capivo una parola di russo e l’unica cosa che mi ripetevano era che dopo aver firmato tutto avrebbero concluso il processo e mi avrebbero lasciata tornare a casa.»
«La picchiavano?»
«Soltanto nel primo periodo. Dopo l’arresto, durante le prime inchieste, un ufficiale mi picchiava la testa con la sua pistola. Secondo la traduzione dell’interprete diceva: “Parla, perché io posso anche spararti, tanto nessuno saprà dove sei finita!”».
«Lei, ancora ragazzina, riuscì a capire ciò che succedeva? Aveva tanta paura?»
«Avevo già avuto un’esperienza orribile: nei giorni dell’occupazione di Budapest ero stata violentata dai soldati russi. Avevo una paura terribile. Forse fu anche questo un motivo in più per firmare tutto.»
«Ma nonostante questo, non venne dimessa.»
«No. Dall’Austria ci riportarono in Ungheria, insieme ai miei compagni arrestati, a Balatonfüred, dove il 31 gennaio 1946 il tribunale militare del 7° Esercito di Guardia Sovietico ci condannò a 10 anni di prigione da passare in campi di lavoro forzato rieducativo. Non essendoci un interprete, ci fecero capire il contenuto della condanna mostrandoci “dieci” con le dita. Quali accuse abbia presentato il giudice contro di noi – non lo sappiamo precisamente nemmeno oggi. Dopo ci portarono giù nello scantinato, dove avevamo molto freddo. Capimmo soltanto lì, in quei momenti, con la mia amica, che si trattava di una cosa seria.»
«Cosa è successo dopo?»
«Ci portarono a Sopronkőhida [di nuovo al confine Ovest], dove eravamo in quindici in una cella: non si respirava nemmeno. Pochi giorni dopo, nel freddo allucinante di febbraio, ci misero, con diverse migliaia di altri Ungheresi, in vagoni ferroviari e ci portarono nell’Unione Sovietica.»
«Quanto tempo durò il viaggio?»
«Dopo tre settimane e mezzo raggiungemmo la prima tappa, Lemberg.»
«Come vi pulivate durante il viaggio?»
«Non ci si puliva. Il vagone era diviso in tre fascie, separate con filo spinato, in mezzo, nella fascia corrispondente alla porta del vagone, stava seduto il custode, nelle altre due i prigionieri. Sul fondo del vagone erano praticati due grandi buchi e noi dovevamo fare i nostri bisogni lì, davanti agli occhi di tutti gli altri e del custode. Non era possibile lavarsi: eravamo tutti coperti di pidocchi. Non lasciavano perdere nemmeno una sola occasione per umiliarci. Arrivati a Lemberg, ci portarono ai bagni: dovemmo spogliarci completamente, dopodiché venimmo rasati su tutto il corpo – noi donne da uomini, mentre i maschi da prigioniere donne. Tutto ciò accompagnato dai commenti e dalle risate dei soldati russi che ci custodivano.
Due settimane dopo ci portarono al primo lager, a Donbass, situato ancora in Ucraina, nel bacino carbonifero del Don.»
«Che cosa mangiavate?»
«Con me, ragazzina, i Russi facevano praticamente quello che volevano. Ci davano da mangiare patate o verze in grandi vasche, ma poiché gli adulti si prendevano tutto quello che potevano, a me spesso non rimaneva niente. Mi avevano rubato anche i vestiti e le scarpe, quindi dovevo andare a piedi nudi a lavorare nei campi. Avevo i piedi coperti di ferite e piangevo di continuo; finalmente qualcuno ebbe pietà di me e mi restituirono i vestiti e le scarpe. Anche così, con le piogge che c’erano, a volte ci si affondava nel suolo fino alle ginocchia.»
«Per quanto tempo rimaneste lì?»
«Soltanto qualche settimana; dopodiché ci misero di nuovo nei vagoni e ci portarono in Siberia. Non sapevamo chiaramente dove si andava. Di nuovo: il vagone con il custode seduto in mezzo, i prigionieri ammassati ai due lati, i buchi aperti sul fondo, il viaggio sembrava non finire mai. Il viaggio sarà durato un mese e mezzo e si fecero diecimila chilometri. Man mano che ci si avvicinava alla Siberia, faceva sempre più freddo. Io, in più, ero proprio vicina al cosiddetto buco latrina, quindi il vento gelido che entrava mi colpiva direttamente. Eravamo di nuovo cosparsi di pidocchi. Mi ammalai. Infatti, non mi ricordo nemmeno, come io sia scesa dal treno. Mi svegliai in Siberia, nel lager di Tajshet, tutta rasata, con qualcuno che mi dava colpettini sulle guance. Mi curava un medico georgiano, che aveva già speso i suoi anni di lager.» (…)
«Era già il Gulag?»
«Sì. GULAG è una parola mosaico che significa Autorità Statale dei Lager, ma in realtà tutta l’Unione Sovietica era un Gulag, perché era tutta un susseguirsi di campi di concentramento. Quello di Tajshet era un lager di divisione: si dividevano lì i detenuti politici da quelli comuni. Io ero considerata una detenuta politica.
Ci numerarono: da quel momento non eravamo più delle persone ma dei numeri. Da Tajshet ci distribuirono negli altri lager, ai lavori di costruzione della linea ferroviaria Bajkal–Amur.»
A chi si allontanava dalla fila, veniva sparato.
«Lei riuscì a guarire?»
«Molto lentamente. Fui talmente debole che prima mi misero a lavorare in una sartoria. Lì mi trovai in condizioni piuttosto favorevoli, poiché nella baracca faceva relativamente caldo. Ma questo durò pochissimo: appena mi ripresi, mi portarono nel lager di Bratsk, per svolgere lavori di costruzione della linea ferroviaria. Lì fu costruito tutto quanto dai prigionieri: infatti i prigionieri di guerra giapponesi iniziarono a costruire le baracche, e noi continuammo il lavoro.»
«Anche le donne erano adibite ai lavori pesanti?»
«Eccome! Dai lavori stradali fino all’estrazione del pietrame, ci facevano fare di tutto! Dalle foreste paludose estraevamo alberi alti sei metri e mezzo. Il diametro dei tronchi era così grande che su un grande camion non ce ne stavano più di due o tre. Ci si alzava all’alba e si lavorava 12 ore al giorno. Lei riesce ad immaginare come sia possibile lavarsi con un bicchiere d’acqua? Ebbene, ogni giorno noi ne ricevevamo una tale quantità per lavarci. D’inverno ci si lavava con la neve. Il freddo era insopportabile! Sebbene il lager fosse circondato dai boschi, spesso non avevamo legna per il fuoco.» (…)
«Furono molti a morire?»
«Tantissimi. Già durante il viaggio, il clima siberiano provocò numerose vittime. Inoltre ci davano da mangiare due volte al giorno: la mattina ci portavano del pane, e chi riusciva a svolgere tutta la quantità di lavoro stabilito, riceveva la porzione di settecentocinquanta grammi di un pane appiccicoso e mal cotto, che comunque divoravamo velocemente, altrimenti ce lo rubavano. La sera ci davano una specie di brodo lungo, congelato e riscaldato, appena tiepido, che ci teneva in vita a mala pena. Chi non riusciva a svolgere tutto il lavoro stabilito, riceveva soltanto quattrocento grammi di pane per tutta la giornata.»
«Lei sperava ancora di poter tornare a casa?»
«Avevamo perso quasi tutte le speranze, ma non eravamo ancora completamente rassegnati; quelli che si disperavano morivano subito. Il periodo più duro venne verso la fine: nell’ultimo lager, quello di Zajarsk. Ci portarono a lavorare nella sponda opposta del fiume Angara. All’epoca non c’era ancora un ponte, ma d’inverno il fiume era coperto da una coltre di ghiaccio di 3 metri di spessore, quindi i prigionieri venivano trasportati da una sponda all’altra su una ferrovia improvvisata sopra il ghiaccio. Lavoravamo in una miniera di pietre: un orrore! Spaccavamo le rocce con l’esplosivo e estraevamo il pietrame una settimana di giorno e l’altra di notte. Ci usavano per ogni tipo di lavoro, esattamente così, come gli uomini. D’estate pulivamo le latrine, spalando, e d’inverno, con il freddo di meno 50 gradi, picconavamo. Eravamo talmente puzzolenti che non era possibile starci vicino!
Non so come fu possibile ma noi riuscimmo a sopravvivere! Non avevamo nessuna speranza di tornare a casa, perché anche coloro che avevano espletato i loro anni di punizione, non li lasciavano mica tornare in patria, ma venivano deportati in Estremo Oriente, nei dintorni di Ir-Kutsk.» (…)
«Il 3 dicembre 1953, quarantasette anni or sono, lei è tornata finalmente a casa, in Ungheria. Perché l’hanno lasciata andare?»
«Era morto Stalin. Noi stavamo lavorando alla costruzione delle linee ferroviarie. Ci stavano contando, come al solito. Bisogna sapere che venivamo sempre contati: la mattina al risveglio, quando uscivamo dal recinto, mentre lavoravamo e così via fino alla sera quando tornavamo nelle baracche. Il custode che ci affidava all’altro diceva: “Trasmetto i nemici del popolo.” E chi ci prendeva, rispondeva: “Accetto i nemici del popolo.” Chi si allontanava dalla fila, veniva sparato. Una sera, dunque, dopo averci contati, cominciarono a leggere un elenco di nomi: fu una cosa strana, perché fino ad allora non ci chiamarono mai per nome, del resto non eravamo altro che dei numeri. Ora stranamente cominciarono a leggere i nomi ungheresi e quelli tedeschi. “Ora ci porteranno in un altro lager” – ci dicevamo. Ma invece entrò un ufficiale e ci disse che saremo tornate a casa. Prima non ci credemmo, visto che ci avevano già illusi tante volte. Ma dal giorno seguente non ci portarono più a lavorare e cominciarono a darci da mangiare un po’ meglio; iniziarono a portare da noi anche altre donne da altri lager. Cominciammo a riprendere la speranza. (…) Finalmente un giorno arrivò il treno e partimmo per Lemberg.»
«Ripartiste da lì per l’Ungheria?»
«Così credetti e fui contenta di tornare entro breve tempo in Ungheria. Ma non fu così, almeno nell’immediato. Continuarono ad arrivare a Lemberg centinaia di treni con prigionieri, provenienti da tutte le parti dell’Unione Sovietica; quelli di altre nazionalità proseguirono subito verso la loro patria, ma noi Ungheresi dovemmo aspettare ancora 6 mesi, perché Mátyás Rákosi (1) non ci volle accettare. Finalmente a dicembre, per decisione ufficiale sovietica, ci riportarono a casa. Al confine ci affidarono alle autorità ungheresi: capitammo così da un male all’altro. Fummo nelle mani dell’ ”AVO” (2), e ci portarono – ventidue donne e mille cinquecento uomini – in un campo vicino a Sóstó (al confine Est). Dopo una settimana un ufficiale ci fece una comunicazione: ci ricordò che dovevamo il nostro ritorno in patria al Compagno Mátyás Rákosi, ma dovevamo ricordarci di non dire mai nemmeno una parola di ciò che avevamo vissuto, altrimenti ci saremmo ritrovati in quegli stessi posti da dove eravamo appena venuti. Dopo questo, ci lasciarono tornare a casa.» (…)
Ci trattano diversamente
«Ripensando agli otto anni passati nel Gulag, quale fu la sua esperienza più sconvolgente?»
«Non saprei dirlo: fu tutto sconvolgente. Pure oggi non riesco ancora a rendermi conto di ciò che ho vissuto. Mi chiedo sempre, perché proprio io andai a finire lì, non avendo commesso proprio niente, contro nessuno!»
«Considerando i delitti commessi contro l’umanità, lei trova che ci sia una differenza fra il nazismo e il comunismo e fra le vittime dei due tipi di dittatura totalitaria?»
«Non c’è nessuna differenza. Eppure noi veniamo trattati diversamente. Si parla molto di più delle vittime del nazismo, che di noi. Loro hanno avuto tanti riconoscimenti, noi niente. Di noi, non se ne parla nemmeno, anche se nei lager del Gulag soffrirono e morirono centinaia di migliaia di Ungheresi.»
«Ha perdonato?»
«Le singole persone: sì. Ma il comunismo e il potere sovietico, non li posso perdonare: mi hanno rovinato la vita.»
NOTE
(1) M. Rákosi – il “luogotenente” stalinista in Ungheria dal 1947 fino al 1955, capo del Partito Comunista e primo uomo della nomenclatura governativa del Paese. Il caso qui ricordato illustra bene il suo atteggiamento da “miglior allievo della classe”, adottato nei confronti dell’amministrazione sovietica.
(2) AVO, un’altra abbreviazione, questa volta ungherese, significa “Autorità di Difesa Statale”. Era il nome della temutissima polizia politica, il mezzo di controllo più importante della dittatura in Ungheria (comparabile alla Gestapo tedesca del nazismo o ai corrispondenti russo, tedesco dell’est, rumeno, ecc. dell’epoca comunista). Essa esisteva fino al 1956, ma i suoi “metodi” rimasero in uso ancora a lungo.
Sugli orrori del comunismo in Ungheria vedi il sito del museo Terror Haza («Casa del Terrore»), inaugurato il febbraio 2002 a Budapest nel
palazzo che fra il 1944 e il 1956 ospitò il carcere comunista – o meglio: casa di tortura.
Intervista di István Stefka
[Articolo comparso sul “Magyar Nemzet”, 9 gennaio 2001, p.5. Traduzione italiana e note a cura di Agnes Bencze]