
1. «Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome della propria autorità: sia la scuoletta elementare di Pachino o di Tradate, sia l’Università di Padova o di Bologna, il titolo vale la scuola. Se la tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione, o anche nell’ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato; se, invece, è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti». Questo scriveva don Luigi Sturzo sull’«Illustrazione italiana» il 15 febbraio del 1950. E la tesi di Sturzo è la stessa di quella proposta in molti suoi scritti da Luigi Einaudi, il quale nello Scrittoio del presidente tornava ad insistere, nel 1956, sul fatto che «nulla è più urgente per la salvezza dell’Università italiana che l’abolizione di ogni valore giuridico ai pezzi di carta».
Molti e pressanti sono, fuor d’ogni dubbio, i problemi che il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca si trova a fronteggiare (a cominciare da quello della messa in sicurezza degli edifici scolastici), ma, proprio in una situazione del genere, al professor Giuseppe Conte – presidente del Consiglio dei Ministri di un Governo di “discontinuità” – e al ministro Lorenzo Fioramonti, viene da chiedere se l’abolizione del valore legale del titolo di studio – con la cascata di conseguenze “virtuose” che ne deriverebbero – non costituisca un significativo tratto di “discontinuità” nella politica dell’Università, e cioè se non sia essa la giusta, la più efficace e la più urgente terapia per i mali della nostra Università.
2. Dall’Università al nostro più ampio sistema formativo. Ancora Luigi Einaudi [da Scuola e libertà, in Prediche inutili]: «Il danno recato dal monopolio statale dell’istruzione non è dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio». E va da sé che, se Einaudi è nel giusto, non si potrà negare che il nostro sistema formativo – intossicato di statalismo – vada sottoposto a misure di forte “discontinuità”.
Chi difende la scuola libera non è contrario alla scuola di Stato: è semplicemente contrario al monopolio statale nella gestione della scuola. Scriveva Gaetano Salvemini su «L’Unità» del 17 ottobre 1913: «Dalla concorrenza delle scuole private libere, le scuole pubbliche – purché stiano sempre in guardia e siano spinte dalla concorrenza a migliorarsi, e non pretendano neghittosamente eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa – hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere». Sempre su «L’Unità» (17 maggio 1919), Salvemini insisterà ancora sul fatto che «il metodo migliore per risolvere il problema […] è sempre quello escogitato dai liberali del nostro Risorgimento: non vietare l’insegnamento privato, ma mantenere in concorrenza con esso un sistema di scuole pubbliche». La verità è che la concorrenza è la migliore e più efficace forma di collaborazione; è, come dice F.A. von Hayek, una macchina per la scoperta del nuovo da cui scegliere il meglio – e questo vale nella ricerca scientifica, nella vita di una società democratica e nella libera economia. Nel sistema formativo strutturato su linee di competizione, la scuola privata – è di nuovo Salvemini a parlare – «può essere un utile campo di esperimenti pedagogici, rappresenterà sempre un pungiglione ai fianchi della scuola pubblica, e obbligarla a perfezionarsi senza tregua, se non vuole essere vinta e sopraffatta». Di conseguenza: «se nella città, in cui abito, le scuole pubbliche funzionassero male, e vi fossero scuole private che funzionassero meglio, io vorrei essere pienamente libero di mandare i miei figli a studiare dove meglio mi aggrada. Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole, anche se in esse i miei figli saranno educati male». E non è da oggi che contro le disastrose conseguenze del monopolio statale dell’istruzione si sono schierati, in contesti differenti, pensatori come Alexis de Tocqueville, Antonio Rosmini e John Stuart Mill e, dopo di loro e tra altri ancora, Bertrand Russell, Antonio Gramsci, Luigi Einaudi, Karl Popper, don Luigi Sturzo, Milton Friedman, Friedrich von Hayek e don Lorenzo Milani.
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3. «I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli». È questo il principio stabilito nell’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) – principio che l’Unione Europea ha fatto proprio, con tutta chiarezza, nel 1984 con la Risoluzione sulla libertà di insegnamento, dove al comma 9 dell’articolo 1 si precisa che: «Il diritto alla libertà di insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adempimento dei loro obblighi in condizioni uguali a quelli di cui beneficiano gli istituti corrispondenti, senza discriminazione nei confronti dei gestori, dei genitori, degli alunni e del personale». Ebbene, in Europa solo l’Italia e la Grecia si sono tenute ben lontane dal pur più piccolo sforzo nell’applicazione di simili fondamentali princìpi. E ciò, nonostante la coraggiosa e lungimirante presa di posizione assunta, a suo tempo, dal Ministro Luigi Berlinguer. «È tempo – egli disse – di chiudere questo conflitto del Novecento: scuole statali contro private. Non esiste, non è più tra noi, ci ha fatto perdere tempo e risorse». E ancora: «Basta guardarsi in giro e si scopre che l’insegnamento è pubblico, fortemente pubblico, ma può essere somministrato da scuole pubbliche, private, religiose, aconfessionali in una sana gara a chi insegna meglio». Così, dunque, Luigi Berlinguer, al quale è legata la Legge 62/2000, in cui si definisce il passaggio dalla “Scuola di Stato” a “Sistema Nazionale di Istruzione” costituito dalla “Scuola Pubblica Statale” e dalla “Scuola Pubblica Paritaria”. Solo che dichiarare giuridicamente uguali Scuola Statale e Scuola Paritaria finanziando solo la prima e lasciando morire di inedia la seconda è un ulteriore inganno perpetrato da una politica cieca e irresponsabile. In Italia, la scuola libera è solo libera di morire. E nel sostanziale silenzio di una agghiacciante resa ai fatti, non ci si rende conto che, con ogni scuola libera che chiude i propri battenti, muore nel nostro Paese un pezzo di libertà. È David Hume ad ammonire che «la libertà non si perde tutta in una volta».
4. Qui va detto che tra le diverse proposte – tese a sradicare in ambito formativo il diffuso, insensato e deleterio pregiudizio stando al quale è buono solo ciò che è pubblico ed è pubblico solo ciò che è statale – la migliore è sicuramente quella del “buono-scuola”. Con il “buono-scuola” i fondi statali, sotto forma di “buoni” non negoziabili (vouchers), andrebbero non alla scuola, ma ai genitori o comunque agli studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere la scuola presso cui spendere il loro “buono”. Ed è così, che pressata dall’eventualità di vedere diminuire le iscrizioni alla propria scuola o vedere allievi già iscritti scappare da essa, ogni scuola sarà spinta a migliorarsi, e sotto tutti gli aspetti. In poche parole: quella del “buono-scuola” è una misura in grado di coniugare libertà di scelta, giustizia sociale ed efficienza del sistema formativo – una proposta che, tra l’altro, è una vera e propria carta di liberazione per le famiglie meno abbienti. E ora una domanda al Primo Ministro Conte e al Ministro Fioramonti e, insieme a loro, ai politici sia “ideologici” che “post-ideologici”: uno Stato nel quale un cittadino deve pagare per conquistarsi un pezzo di libertà è ancora uno Stato di diritto?
5. Da sempre, in manifestazioni sindacali, assemblee scolastiche, occupazioni di scuole o anche in tanti convegni sulla scuola non è raro sentire slogan talvolta intrecciati ad insulti contro una scuola paritaria “ladra di risorse” a scapito della scuola statale. Siamo qui davanti ad una ostinata negazione del fatto che le rette pagate dalle famiglie – non sempre ricche – che iscrivono i loro figli alla scuola paritaria fanno risparmiare allo Stato circa sei miliardi di euro l’anno. E, allora, è la scuola paritaria a danneggiare economicamente la scuola di Stato oppure è quel miscuglio avvelenato di statalismo e laicismo a fare del male sia alla scuola statale che a quella paritaria? E non è forse vero che il laicismo, per dirla con Julien Green, ha i suoi bigotti proprio come l’ortodossia? È bene insistervi: il “buono-scuola”, in ultima analisi, è o non è la più efficace tra quelle “migliori pratiche” cui ha fatto riferimento il Presidente Conte in un suo recente intervento al Senato?Da non dimenticare: la libertà dall’ignoranza è alla base di tutte le altre libertà.
Dario Antiseri
Dario Antiseri (Foligno, 1940) è uno dei più importanti filosofi italiani. Già professore ordinario di Metodologia delle scienze sociali, è fra i massimi specialisti del moderno pensiero liberale angloamericano e austriaco, da Popper a von Hayek, e autore di numerosi volumi e articoli. “La sua grande Storia della filosofia” (con G. Reale) è stata più volte riedita e tradotta.