Uniti nella fede, liberi in tutto il resto (intervista a Ratzinger)

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Già dal 1981 il teologo Joseph Ratzinger occupa il vertice nella Congregazione della Fede in Vaticano e, pertanto, ha preso parte in posizione decisiva a tutte le crisi e le sfide sorte nella chiesa cattolica e in tutta la cristianità nei due ultimi decenni trascorsi. È ovvio che in questo egli abbia seguito con particolare attenzione le vicende del suo Paese. Ratzingen è stato docente di dogmatica in Bonn, Münster, Tubinga, Regensburg e per quasi cinque anni arcivescovo di Monaco. “Die Tagespost” ha chiesto al cardinale un giudizio sulla situazione della Chiesa in Germania.

Nonostante la preparazione dell’incontro singolare dei cardinali, che si terrà a Roma in occasione del giubileo del Pontefice, a metà ottobre, e che Ratzinger ha il compito di preparare come decano del collegio cardinalizio, il prefetto ha dedicato lungo tempo a questa intervista. Il cardinale di Curia è tutt’altro che un “principe” della Chiesa. Il ruolo di “inquisitore” è ben lontano da lui. Nato nel 1927 a Marktl, sull’Inn, Ratzinger conduce la conversazione modestamente e con humor, ma è sempre preciso nelle sue risposte (quasi sempre pronte alla stampa). Il giornalista Guido Horst gli pone le domande.

Domanda: Fra i cattolici consapevoli delle loro tradizioni rientra spesso nelle buone maniere parlare di una crisi di fede nella Chiesa. Ma non è stato già sempre così, che, cioè, il cristiano medio nutrisse qualche dubbio, che non comprendesse bene molte cose di fede, che portasse con se anche qualcosa di superstizioso? Se dunque oggi esiste una crisi di fede: qual è il carattere particolare di questa crisi?

Ratzinger: Vorrei in primo luogo darle ragione. La fede del singolo credente aveva sempre avuto le sue difficoltà e i suoi problemi, i suoi limiti e le sue dimensioni. Su questo non possiamo giudicare. Ma nella, per così dire, situazione spirituale di base è avvenuto qualcosa di diverso. Fino all’Illuminismo, e anche oltre, era certo tutto questo: il mondo verso Dio era trasparente, era in qualche modo evidente che dietro a questo mondo sta un’intelligenza superiore, che il mondo stesso con tutto ciò che contiene – il creato con la sua ricchezza, ragionevolezza e bellezza – rispecchi uno Spirito creatore. E da tutti questi spiragli scaturiva l’evidenza di fondo che Dio stesso parla a noi nella Bibbia, che in essa Egli ci ha rivelato il suo volto, che Dio ci viene incontro in Cristo.

Mentre allora vi era, per così dire, un presupposto comune per aderire in qualche modo alla fede – con tutti i limiti e debolezze umane – e occorreva realmente una consapevole ribellione per dichiararsi contrario, dopo l’Illuminismo è da allora tutto cambiato: oggi l’immagine del mondo è esattamente capovolto. Tutto, così sembra, viene spiegato materialmente; l’ipotesi di Dio, come disse già Laplace, non è più necessaria; tutto viene spiegato tramite fattori materiali. L’Evoluzione è diventata, diciamo, la nuova divinità. Non vi è alcuna transizione in cui si debba ricorrere a un essere creatore – al contrario: l’introduzione di questo si rivela ostile a ogni certezza scientifica ed è pertanto qualcosa di insostenibile. Parimenti ci è stata strappata di mano la Bibbia come un prodotto, la cui origine può essere spiegata con metodi storici, che in ogni passo riflette situazioni storiche e che non ci dice proprio ciò che noi si credeva di poter trarre da essa, ma che dev’essere stato tutt’altra cosa. In una tale situazione generale, dove la nuova autorità – che viene ritenuta “scienza” – interviene e dice l’ultima parola e dove poi persino la cosiddetta divulgazione scientifica si dichiara da se stessa “scienza”, è molto più difficile conservare il concetto di Dio e soprattutto aderire al Dio biblico, al Dio in Gesù Cristo, accettare Lui e vedere nella Chiesa la viva comunità di fede.

Vorrei dire, pertanto, che vi è un altro punto, partendo dalla obiettiva situazione di consapevolezza, in cui la fede esige un impegno molto più grande e anche il coraggio di resistere alle certezze solo apparenti. La scalata fino a Dio è diventata molto più difficile.

Nei primi tempi la chiesa ha sopportato anche le espressioni più deboli di fede: come una patria spirituale, come luogo di appartenenza, come istituzione che propone regole e precetti, ma che accompagna anche attraverso la vita. Sembra che oggi non sia più così. Vi è non soltanto una crisi di fede, ma anche una crisi della Chiesa come patria spirituale?

La crisi della Chiesa è l’aspetto più concreto di questa crisi di coscienza e di fede. La Chiesa non appare più come la comunità vivente, che deriva da Cristo stesso e si rende garante della Sua parola, che ci offre anche con ciò una dimora spirituale e la certezza della verità della nostra fede. Oggi però essa appare come una comunità fra tante altre: vi sono molte chiese, direbbe ognuno, e sarebbe umanamente sconveniente ritenere la propria come la migliore. Già una forma di umana cortesia spinge a relativizzare la propria, come si deve anche per le altre. Si tratterebbe pertanto di casuali aggregati sociali, peraltro inevitabili, ma che non ci garantiscono più: “Qui tu sei veramente a casa”. Questa disgregazione della coscienza ecclesiale, che naturalmente dipende ancora da tutte le imposizioni dell’odierna situazione spirituale e ne rappresenta la concreta applicazione, è sicuramente una delle cause principali per cui la Parola di Dio non giunge più a noi con autorità, ma tutt’al più diciamo: C’è qualcosa di bello in essa, ma devo cercarvi da solo ciò che ritengo giusto. Un indice per valutare il legame alla rispettiva comunità di fede o chiesa è stato per noi in Germania il primo Ökumenische Kirchentag a Berlino (28 maggio – 1 giugno 2003).

In questa occasione i responsabili, sia da parte cattolica che evangelica, si sono comportati in modo tale che la cosiddetta “unità” risulta ancora ben lontana e non può certo trovare espressione in una celebrazione comunitaria dell’Eucaristica o della Santa Cena. Si è avuto invece l’impressione che la gran parte dei visitatori non abbia alcuna conoscenza di questa separazione.

La chiesa cattolica si sta forse trasformando in una religione di unità cristiana?

Il pericolo è molto serio. Si deve anzitutto riconoscere che le autorità sia di parte cattolica che evangelica hanno escluso celebrazioni eucaristiche e cene in comune. Da parte protestante questo significava rispetto verso il parner ecumenico. Subito poi si disse: Di per sé la cosa andrebbe, ma noi rispettiamo il fatto che i cattolici abbiano i loro diversi ordinamenti giuridici. Al tempo stesso si diede a intendere che tali ordinamenti potevano effettivamente venir superati e, stando ai fatti, sono già superati. Ma anche fra i cattolici la coscienza ecclesiale risulta relativizzata. Essi non possono neppure lontanamente ritenere che la chiesa cattolica sia per loro la garanzia della verità. E prima di tutto si è reso sfocato da entrambe le parti la visione del sacramento. Solo appena trent’anni fa (Leuenburger Konkordie, 1973) i protestanti hanno raggiunto con fatica un’unità di comunione, laddove i luterani, nella seconda parte dell’incontro, dovettero abbandonare la loro fede nella presenza reale eucaristica. Questo è già un fatto significativamente grave che si ritiri nella soggettività quanto si riteneva prima fondante, e con ciò venga relativizzata sia la propria fede nel sacramento che la sua forma esteriore. Si rende qui necessario, sia da parte cattolica che protestante, una considerazione di fondo su ciò che è il sacramento, come venga giustamente celebrato, quali siano le condizioni e come l’unità debba essere una vera unità e non una “riduzione”, che finisce col degradare lo stesso sacramento. Sull’altro versante si vanno organizzando i cattolici che, come essi stessi dicono, “sono fedeli al Papa e al Magistero” e mantengono viva la loro fede cattolica. La divisione che ne deriva penetra profondamente nella comunità ed è anche causa sovente che dei fedeli cambino parrocchia o abbandonano del tutto la chiesa.

Vede Lei un’uscita da questo distacco oppure una nuova possibile ripresa, che possa ricondurre insieme i vari “Lager”, o accampamenti, nell’ambito della Chiesa nei paesi di lingua tedesca?

Vorrei dire che tale distacco interno nella Chiesa è uno dei più urgenti problemi del nostro tempo e che non siamo giunti ancora ad averlo seriamente sotto controllo. Noi ci occupiamo di ecumenismo e intanto dimentichiamo che la Chiesa nel suo interno si è spaccata e che tale spaccatura penetra fin dentro le famiglie e le comunità. Vorrei anzitutto raccontare un piccolo episodio. Il cardinale Joseph Bernardin, l’arcivescovo di Chicago, poco prima della sua morte – già segnato dalla malattia – sperimentò fortemente la medesima situazione in America e allora stese un progetto common ground. Ossia, con incontri e dialoghi il più estesi possibile, volle tentare di scoprire come si potesse in tali spaccature ritrovare una base comune. Egli poi morì, ma aveva già incaricato un vescovo di condurre avanti le trattative. Ben presto però tutto s’insabbiò poiché si rese evidente che: C’è il common ground. Il common ground è la professione di fede della Chiesa. Ciò che noi vi aggiungiamo è fatto da noi stessi e conseguentemente non può legarci insieme. Ciò che va al di là della comune professione ecclesiale appartiene allo spazio della libertà, che poi dobbiamo imparare a prendere in modo differenziato. L’autentico fondamento comune, l’unico che può veramente reggere, poiché non è stato inventato da noi stessi, né da un comitato, né da nessun altro, ma proviene dalla sorgente, è la fede stessa della Chiesa. Prima di tutto noi dobbiamo imparare di nuovo questo: esiste una fede della Chiesa che non è una fissazione autoritaria, bensì l’eredità lasciata da Gesù Cristo alla sua Chiesa. Se occasionalmente vien detto – come ad esempio nell’ultima enciclica sull’Eucaristia – che la fede non dovrebbe essere resa uniforme in modo autoritario, è naturale che ciò appaia come eccellente. Ma io mi domando: Qual è poi l’alternativa? Ognuno può decidere le cose da se stesso? Allora non vi è più alcuna comunità di fede. La comunità consiste nel fatto che noi abbiamo una fede comune e solo la fede può fondare una comunità. Io credo che dobbiamo di nuovo metterci a imparare che vi è un common ground e che questo ci dà al tempo stesso la libertà e la garanzia della pluralità.

Lei ha accennato alla comprensione del Sacramento.Ora però, una delle principali preoccupazioni si riferisce alla liturgia dei cattolici legati in modo particolare a Roma. Spesso allora si parla della Sua espressione “riforma delle riforme”, ossia la “riforma” della riforma liturgica dopo il Concilio. Che cosa possiamo aspettarci o sperare nei prossimi anni? Verranno rimossi gli altari rivolti al popolo?

In nessun caso bisognerebbe ricominciare a introdurre cambiamenti esteriori non ancora preparati interiormente. La liturgia si è creata dei problemi perché si sono cambiate troppo presto delle esteriorità, senza prepararle ed elaborarle dall’interno. Allora sorse l’idea che la liturgia sia propriamente la manifestazione della comunità. Ciò fu sottolineato fortemente: La comunità come soggetto della liturgia. Ciò significava, pertanto, che la comunità decide come debba celebrare se stessa. Si formarono quindi settori che misero in pratica tutto ciò. Altri non vi parteciparono e questo non piacque ai primi. Noi ci troveremo d’accordo sulla liturgia solo quando smetteremo di considerare questa come l’elemento formante della comunità e di pensare di dover soprattutto “impegnare” noi stessi e di rappresentarci in essa. Dobbiamo di nuovo imparare a vedere che essa ci introduce nel corpo della Chiesa di tutti i tempi, nella quale il Signore offre a noi se stesso. Una liturgia senza fede non esiste. Quando si cerca di renderla interessante – Dio sa con quali idee – ma non si presuppone in ciò la fede, e quando viene ristretta soltanto alla comunità e non viene vista, invece, come incontro col Signore nella grande comunità della Chiesa universale, la liturgia cade in rovina.

Pertanto non si capisce perché si debba procedere in questo. Sono necessarie, invece, delle correzioni interiori, prima di porre mano a cose esteriori. Se ora si ricomincia a inventare nell’esteriore, io non mi riprometto nulla di buono. Dobbiamo arrivare ad una nuova educazione liturgica, in cui si divenga consapevoli che la liturgia appartiene a tutta la Chiesa, che in essa la comunità si unisce con la Chiesa universale, con Cielo e Terra, e che ciò inoltre rappresenta la garanzia che il Signore viene e succede qualcosa, quale certamente in nessun luogo, in nessun intrattenimento e spettacolo può succedere. Solo quando noi tendiamo di nuovo lo sguardo su queste cose più grandi allora può sorgere una vera unità interiore e ci si può anche interrogare sulle migliori forme dei riti esteriori. Ma prima deve crescere una comprensione interiore della liturgia, che ci unisce gli uni con gli altri. Nella liturgia non dobbiamo di volta in volta rappresentare le nostre invenzioni; non introdurvi ciò che abbiamo inventato, bensì ciò che ci viene rivelato.

Un’altra preoccupazione di molti fedeli cattolici si esprime in un latente disagio nei confronti dei responsabili nella Chiesa: molti vescovi sarebbero da troppo tempo inerti spettatori di abusi, di errati comportamenti disciplinari oppure dell’estendersi di pericolose dottrine teologiche. Il cosiddetto “caso Hasenhüttl” ha messo abbastanza in chiaro il fatto che per molti anni un teologo e sacerdote abbia agito indisturbato, sostenendo teorie apertamente molto preoccupanti. Nei piani alti della Chiesa tedesca da gran tempo forse si era troppo indulgenti?

Non si aspetterà che io ora emetta un giudizio sui vescovi tedeschi del passato né su quelli attuali. Per cinque anni sono stato anch’io uno di loro. Pertanto vorrei rimandare questo giudizio ai prossimi tempi, che potranno giudicare in modo più calmo e obiettivo. Forse è meglio considerare piuttosto in generale: che cosa c’è di falso, che cosa c’è di insufficiente. Credo che una grande preoccupazione dei vescovi – e io lo posso confermare per esperienza personale – sia stata quella di mantenere uniti i fedeli nella gran confusione dei tempi, non creare quindi insicurezze, che in pubbliche discussioni mettono in contrasto i fedeli e turbano la pace nella Chiesa. Bisognava pertanto chiedersi sempre in senso relativo: l’abuso, il comportamento scorretto, l’insegnamento deviante è così grave che io debba espormi al chiasso della pubblica opinione come anche a tutte le insicurezze che ne potrebbero insorgere, oppure debbo tentare di risolvere il caso il più possibile con calma o anche tollerare ciò che in sé è inaccettabile, onde evitare più gravi lacerazioni? La decisione da prendere era comunque sempre difficile. Vorrei però dire che la nostra tendenza – anch’io pensavo così – era orientata a dare valore prioritario al rimanere uniti, all’evitare le pubbliche conflittualità e le ferite laceranti che ne derivano. In relazione a questo si è sottovalutato l’effetto di altre cose. Si è presto detto: Quel libro lo leggono forse duemila persone – che significa questo di fronte a tutta la comunità dei fedeli, la maggior parte dei quali non ne capisce niente, e ora, solo accentuandone l’attenzione verrebbero inflitte delle ferite che colpirebbero tutti. Allora si è taciuto. Così però si è sottovalutato il fatto che ogni velenosità tollerata lascia del veleno dietro di sé, continua la sua azione nefasta e, alla fine, porta con sé un grave pericolo per la fede della Chiesa, perché subentra la convinzione: nella Chiesa si può dire questo e quello, tutto trova posto in essa. Allora la fede perde la sua concretezza e la sua evidenza.

Certo è stato sottovalutato nella sua gravità l’impegno di mantenere limpida la fede e, come tale, di presentarla quale il massimo dei beni; questo non soltanto in Germania, ma dovunque abbia avuto luogo questo dibattito sul corretto comportamento dei pastori. Si tratta dell’effetto a lungo termine di tali iniezioni di veleno. Ne è derivata l’impressione che la fede non fosse così importante, per quanto poco se ne sapesse di preciso. Non voglio incolpare nessuno dei singoli, ma, in una specie di esame di coscienza, dovremmo intenderci nuovamente sulla priorità della fede e renderci consapevoli degli effetti a lungo termine di tali errori. Dobbiamo imparare a vedere più chiaramente che la quiete pura e semplice non è il primo dovere cristiano e che la fede può diventare debole e falsa, se non ha più alcun contenuto.

Sicuramente vi è della responsabilità nell’episcopato di una chiesa locale, anche di quella tedesca. Qui però c’è anche il Vaticano, che nomina i vescovi, e precisamente propone tre candidati, uno dei quali viene scelto dal capitolo locale. Può essere che a Roma, negli ultimi due, tre decenni, abbiano preferito nominare dei vescovi concilianti e capaci di dialogo, che potessero entrare come mediatori e moderatori? Laddove invece sono stati meno i candidati scelti per la loro adesione alla fede senza compromessi, per il loro coraggio di testimonianza e le loro convinzioni chiaramente espresse?

La nomina di Roma non cade direttamente dal cielo, ma risulta da un sondaggio condotto nel popolo di Dio, fra i vescovi e sacerdoti, per vedere quali figure emergano nella comunità di fede, alle quali si possa dare fiducia e che siano in grado di svolgere una funzione di guida. Pertanto, la partecipazione della chiesa locale alla scelta dei vescovi è molto più forte di quanto generalmente si immagini. Roma poi non ha nessun interesse a imporre quasi d’autorità chicchessia al popolo di Dio, ma dev’essere qualcuno che dopo venga accettato dallo stesso popolo e lo riconosca come pastore e guida.

Posso ammettere che nel problema dell’accettazione, che è già un importante problema, si sia scelto come criterio anzitutto la capacità di consenso e, di conseguenza, non si sia sufficientemente calcolata la capacità di dirigere e di discutere, il coraggio di affrontare resistenze e contestazioni. Direi che ogni generazione ha il suo tipo di vescovo. Immediatamente dopo il Concilio, furono cercati proprio i vescovi che volevano e potevano introdurre i cambiamenti ora conclusi. Ciò in parte – come ora possiamo dire – è avvenuto anche troppo in fretta, ma chi può incolpare quelli di allora. Poi, a causa di questi rapidi cambiamenti, si giunse in molte comunità a quella rottura, di cui abbiamo appunto parlato. Così si dovette, alla fine, cercare dei riconciliatori. E non a caso venne allora con insistenza in primo piano l’espressione “il vescovo è pontifex” – il vescovo è uno che costruisce ponti, che riunisce insieme. Per quanto riguarda i problemi che ne sono derivati, oggi dobbiamo ancor più fortemente ricordare che il pontifex non deve costruire ponti solo per riunire i singoli fedeli, ma per condurre a Dio e alla grande comunità della Chiesa. Dovremmo anche nuovamente ricordare che il termine pontifex è derivato dal mondo pagano – poi fu certamente adattato al mondo cristiano – ma che la Bibbia ci propone più intensamente la figura del pastore. Secondo la tradizione biblica il pastore precede il gregge. Egli indica la via da seguire, stabilisce anche dei criteri ed è pronto a opporsi a forze contrarie. Direi pertanto che il coraggio di sostenere contestazioni, il coraggio di intervenire contro la political correctness polirispetto alla fede deve essere oggi un criterio decisivo per il vescovo. Ma rimane sempre ovvio però che egli deve anche aiutare il suo gregge a riconoscersi nell’unità e ad accordarsi comunitariamente con lui.

Sicuramente anche la teologia è importante per una chiesa locale. Come vorrebbe caratterizzare il rapporto fra la teologia cattolica insegnata nelle “Hochschulen” in Germania e il magistero cattolico odierno, dopo quasi quindici anni dalla cosiddetta “Kölner Erklärung” del 6 gennaio 1989, ossia la dichiarazione dei docenti cattolici di teologia contro il magistero romano? È migliorato, è rimasto uguale oppure si è diventati ancora più sordi gli uni verso gli altri?

È molto difficile giudicare. Vi sono molti insegnanti di teologia eccellenti, altrimenti gli episcopati non potrebbero certo rigenerarsi tramite le università. Non c’è dubbio. D’altra parte vi sono anche considerevoli problemi. È il caso speciale della teologia tedesca, che si trova ancora insediata nelle università statali. Ciò porta dei vantaggi significativi, perché così la teologia risulta un fatto pubblico, perché essa viene energicamente sottoposta al criterio della scientificità e della razionalità e, pertanto, può e deve sostenere forti provocazioni. Io direi però subito che la “statalità” della teologia non dovrebbe identificarsi col suo essere un fatto pubblico. Essa può appena vivere ghettizzata in una università statale o essere di gran dominio pubblico in una istituzione ecclesiale. Certo, non dovremmo trascurare con leggerezza i vantaggi che ci offre tale situazione, ma neanche ignorarne i pericoli. Io vedo in essa un doppio pericolo: il primo è una “accademizzazione” unilaterale della teologia, nel senso che essa, a motivo del suo trovarsi fra le altre facoltà, voglia essere semplicemente una scienza come le altre, si ritiri completamente nell’azione accademica, puramente intellettuale, ed elevi a supremo criterio la sua coerenza intrinseca e il suo accordo scientifico con le altre discipline. Se avviene questo, allora la teologia corre il pericolo di perdere le sue radici interiori, ossia la vita spirituale, il dialogo con Dio, la fede che essa porta e che soprattutto le apre gli occhi sulla realtà, e di diventare una disciplina accademica senza frutti spirituali. Per prima cosa, dunque, tutte le attenzioni per garantire la scientificità della teologia – che io ritengo importanti – non devono condurla a perdere il suo particolare status, la sua base spirituale. L’altro pericolo poi è che forse si voglia con troppa insistenza mettersi sotto la protezione dello stato, si voglia, per così dire, essere più statali che ecclesiali e, al tempo stesso, si guardi alla statalità come a una garanzia di libertà. Così però il confronto con lo stato e con le sue limitazioni non viene più visto in maniera corretta. Anche qui bisogna che ci sia un ben equilibrato rapporto: non si consideri la teologia soltanto come una istituzione statale, ma soprattutto come un organo vivente della Chiesa, in cui è essenziale il riflettere sulle ragioni della fede – ma che rimane appunto vivente solo se trova spazio in questo organismo della fede.

Lei diceva poc’anzi: la teologia è “ancora” insediata nelle università statali. Se la Chiesa continua a ridursi nella nostra società secolarizzata, Lei crede che da qualche parte si arrivi a istituire in proprio delle scuole superiori di teologia? Oppure vorrebbe dire che in Germania andremo avanti così con le facoltà teologiche nelle “Hoch-schulen” statali?

Non voglio essere profeta, ma noi stiamo vedendo come procede la scristianizzazione della nostra società, come la percentuale dei non-battezzati diventi sempre più grande, e si pone perciò la domanda se la complessiva situazione sociale, come anche il concetto-base di scientificità, ancora basta a garantire un ragionevole spazio di respiro nell’uni-versità statale. Direi che non abbiamo bisogno di anticipare i tempi, ma escludere questa possibilità sarebbe anche una forma di cecità mentale.

Non fa meraviglia che oggi nella teologia di lingua tedesca manchino dei “grandi nomi”? Si è appiattivo il livello della ricerca e dell’insegnamento teologico, oppure questa disciplina non viene più percepita dal pubblico come un tempo?
Io conosco un gran numero di giovani teologi che portano avanti dei lavori veramente positivi e godono di un buon prestigio. Ci vuole però del tempo perché un’opera diventi così nota che anche la figura dell’autore risulti al pubblico nella sua giusta dimensione. Siamo vissuto troppo a lungo all’ombra dei grandi nomi, tanto che gli altri non sono riusciti a imprimersi nella nostra mente. Balthasar, Guardini, Rahner sono naturalmente figure eccezionali, quali pochi è dato d’incontrare in un secolo. Però sono contento che nella nuova generazione vi sia un bel numero di studiosi, dai quali possiamo aspettarci del buono.

Ancora sulle condizioni della fede: La moderna esegesi biblica ha sicuramente contribuito molto a rassicurare i fedeli nei paesi germanofoni. Molti commentatori interpretano la fede delle prime comunità ma non riguardano più il Gesù storico e le sue azioni. È frutto questo di una solida conoscenza scientifica della Bibbia? Ad esempio, i Vangeli del Nuovo Testamento li abbiamo intesi per secoli alla lettera? Oppure risulta che dobbiamo ricadere sul Gesù storico?

In ogni caso. Il problema dell’esegesi storico-critica è naturalmente gigantesca. Già da più di cento anni scuote la Chiesa, e non solo quella cattolica. Anche per la chiesa protestante è un grosso problema. È già molto significativo che nel protestantesimo si siano formate le comunità fondamentaliste, che contrastano tali tendenze al dissolvimento e abbiano voluto recuperare integralmente la fede attraverso il rifiuto del metodo storico-critico. Il fatto che crescano le comunità fondamentaliste, che abbiano successo mondiale, mentre le mainstream-churches versino in crisi di sopravvivenza, tutto questo ci mostra le dimensioni del problema. Sotto molti aspetti noi cattolici stiamo meglio. Per i protestanti, che non vollero accettare la corrente esegetica, è rimasto effettivamente solo il ritirarsi sulla la canonizzazione della testualità biblica e dichiararla intoccabile. La chiesa cattolica ha, per così dire, uno spazio più ampio, nel senso che è la stessa Chiesa vivente lo spazio di fede, spazio che pone dei limiti, che però, d’altra parte, permette un’ampia possibilità di variazioni. Una semplice condanna globale dell’esegesi storico-critica sarebbe un errore. Da essa abbiamo imparato incredibilmente molte cose. La Bibbia risulta più viva, se si tien conto dell’esegesi con tutti i suoi risultati: la formazione della Bibbia, il suo procedere, la sua interna unità nello sviluppo, eccetera. Dunque: Da una parte la moderna esegesi ci ha dato molto, ma essa diventa distruttiva se ci si sottomette semplicemente a tutte le sue ipotesi e si eleva ad unico criterio la sua presunta scientificità. Si è rivelata poi particolarmente devastante quando, senza adeguata assimilazione, si è voluto accogliere nella catechesi la corrente ipotesi dominante come l’ultima voce della scienza biblica. È stato il grave errore di questi ultimi quindici anni l’aver identificato ogni volta come “scienza” l’ultima esegesi presentata con grande pubblicità e l’aver guardato a tale scienza come a un’autorità assoluta, che sola poteva valere, mentre alla Chiesa non veniva attribuita più alcuna autorità. Di conseguenza la catechesi e la predicazione del Vangelo sono andate frammentandosi. O si son portate avanti ancora le forme tradizionali ma con scarsa convinzione, sicché ognuno poteva infine ritenere che si nutrissero dei dubbi in proposito, oppure si sono subito spacciati degli apparenti risultati come sicuri dati scientifici. In realtà invece la storia dell’esegesi è al tempo stesso un cimitero di ipotesi, che rappresentano più il corrispondente spirito del tempo che la vera voce della Bibbia. Chi vi costruisce troppo in fretta, avventatamente, e ritiene questo pura scienza, finisce in grande naufragio, in cui trova forse qualche tavola di salvataggio – ma può anche andare presto a fondo. Dobbiamo arrivare a un quadro ben preciso – questo è un combattimento ora di nuovo in pieno corso: l’esegesi storico-critica è il sostegno dell’interpretazione biblica, che ci permette conoscenze essenziali e, come tale, va rispettata, ma anche deve essere criticata. Poiché proprio i giovani esegeti odierni mostrano quanta incredibile filosofia si nasconda nella loro esegesi. Ciò che sembra rispecchiare fatti concreti e passa per voce della scienza è in realtà espressione di un determinato concetto del mondo, secondo il quale, ad esempio, non può esserci resurrezione dalla morte oppure Gesù non può avere parlato in tale e tale modo, oppure altre cose. Oggigiorno, proprio fra i giovani esegeti vi è la tendenza a relativizzare l’esegesi storica, la quale mantiene il suo significato ma, da parte sua reca in sé dei presupposti filosofici che devono venire criticati. Perciò questo modo di interpretare il senso della Bibbia deve essere integrato mediante altre forme, anzitutto attraverso la continuità dei grandi credenti, che per una via completamente diversa sono giunti fino al vero nucleo interiore della Bibbia, mentre la scienza apparentemente illuminatrice, che ricerca solo fatti concreti, è rimasta molto in superficie e non si è spinta fino alla base interna, sulla quale l’intera Bibbia si muove e si raccoglie. Noi dobbiamo di nuovo riconoscere che la fede dei credenti è un modo autentico di vedere e di conoscere e giunge così a una maggiore concordanza. Due cose sono importanti: rimanere scettici nei confronti di tutto cio che si propone come “scienza” e soprattutto prestare fiducia alla fede della Chiesa, che rimane l’effettiva costante, e che ci mostra l’autentico Gesù. Il Gesù che ci offrono i Vangeli è sempre il vero Gesù. Tutte le altre sono costruzioni frammentarie, in cui si rispecchia più lo spirito del tempo che non le origini. Tutto ciò è stato analizzato anche da studi esegetici: Quanto spesso le diverse figure di Gesù non sono un dato di scienza, ma piuttosto ciò che un certo individuo o un certo tempo ha ritenuto come risultato scientifico.

Lei ha parlato di giovani esegeti, di teologi che offrono motivo di speranza. Ora il Papa, con la sua Lettera Apostolica dopo l’Anno Santo 2000 “Novo millennio ineunte”, ha presentato una specie di programma riguardo al risveglio della fede con l’inizio del terzo millennio. Come cristiani di lingua tedesca consapevoli del problema siamo noi spesso piuttosto ciechi di fronte a quanto di bello e positivo vi è nella Chiesa, oppure troppo critici verso quanto c’è di nuovo o di cui non si ha conoscenza. Dove vede Lei questi luoghi di ripresa nella chiesa mondiale, dove risulta già visibile questo risveglio della fede, dove possiamo guardare?

Anzitutto vi è una grande differenza fra l’emisfero nord del mondo e quello sud. Certamente non è ideale la situazione della Chiesa nel sud – Africa, Sudamerica, Asia… Vi è tutta una serie di difficoltà e anche gravi problemi, tuttavia s’incontra una primitiva gioia di credere e una vivacità della Chiesa, che va crescendo, invece di diminuire. In essa si distingue bene l’autentico difensore dell’uomo e la presenza di un’istanza dall’alto, del Signore appunto, il solo che, in qualche modo, può difendere dai poteri e dalle violenze che infuriano nella politica. A questo riguardo, dobbiamo per prima cosa tener presente l’accennata divisione del pianeta. Ma anche nella metà occidentale del mondo vi sono risvegli incoraggianti, e precisamente sia nelle chiese locali che nei movimenti spirituali. Non voglio accennare ai singoli movimenti: nelle chiese locali si riscontra in parte una grande riscoperta dell’Eucaristia, dell’adorazione eucaristica, del Sacramento, soprattutto dell’amore verso la madre chiesa, verso la lettura delle sacre scritture, verso una vita secondo il Vangelo, anche nuove vocazioni religiose, e così via. Poi ci sono i movimenti che hanno i loro problemi. Ma rappresentano sempre un risveglio spirituale, in cui la gioia di credere emerge sotto diverse colorazioni e intanto devono imparare a incontrarsi e completarsi a vicenda. Vi è molto di vivamente positivo nella fede cristiana. La consapevolezza che quanto ci hanno portato i movimenti del ’68, il postmoderno e l’Illuminismo non è sufficiente per vivere la troviamo proprio nella giovane generazione; molti, con gioia semplice e sincera, ritornano di nuovo al cuore della fede e alla Chiesa vivente.

Un parere personale: In un prevedibile futuro cattolici e luterani si troveranno insieme all’altare?

Umanamente parlando, direi di no. Un primo motivo è anzitutto la divisione interna delle stesse comunità evangeliche. Pensiamo solo al luteranesimo tedesco, dove s’incontrano persone con una fede profonda, di formazione ecclesiale, ma anche un’ala liberale che, in ultima analisi, considera la fede come una scelta individuale e fa quindi scomparire quasi completamente la comunità ecclesiale. Ma, anche prescindendo da queste spaccature in ambiente evangelico, sono ancora persistenti delle diversità fondamentali fra le comunità sorte dalla Riforma del sedicesimo secolo e la chiesa cattolica. Se penso anche solo al foglio ufficiale della chiesa evangelica in Germania, vi trovo due cose che indicano veramente una profonda lacerazione. In un punto vien detto che fondamentalmente ogni cristiano battezzato può presiedere l’Eucaristia. Oltre il Battesimo, pertanto non esiste nella chiesa evangelica alcun’altra struttura sacramentale. Ciò significa che nell’ufficio episcopale e sacerdotale viene rifiutata la successione derivante dagli Apostoli, che però già nel Vangelo risulta costitutiva per la formazione della Chiesa. In tale contesto viene coinvolta anche la formazione del canone neotestamentario – i “testi” del nuovo Testamento. Il canone non si è certo formato da solo. Ha dovuto essere riconosciuto. Per questo però era necessaria un’autorità legittimata a decidere. Questa autorità poté essere solo quella apostolica, che era presente nel magistero della successione. Canone, scrittura e successione apostolica, come magistero episcopale, sono inscindibili. Il secondo punto del foglio, che mi ha meravigliato, è questo: Vengono indicate le parti essenziali nella celebrazione della Santa Cena. Ma non vi è traccia dell’Eucaristia, dell’anaphora, o preghiera di consacrazione, che non fu inventata dalla Chiesa ma deriva direttamente dalla preghiera di Gesù – la grande preghiera di benedizione della tradizione giudaica – e, insieme all’offerta del pane e del vino, rappresenta la fondamentale offerta del Signore. Grazie a questa offerta noi preghiamo nella preghiera e con la preghiera di Gesù, che si compie sulla croce, il sacrificio di Cristo è reso attuale e l’Eucaristia è ben più di una semplice cena. Per questo la visione cattolica sulla Chiesa e l’Eucaristia è chiaramente molto lontana da tutto ciò che vien detto nel depliant dell’EKD (Evangelischen Kirche in Deutschland). Dietro poi vi è il problema centrale della “sola scriptura”. Jüngel, docente a Tubinga, lo riassume nella formula: Lo stesso canone è la successione apostolica. Ma da dove lo conosciamo? Chi ce lo spiega? Ognuno per conto suo? Oppure gli esperti? Allora la nostra fede poggia solo su ipotesi che non valgono né per la vita né per la morte. Se la Chiesa non ha nessuna voce, se essa non può dire nulla con autorità sulle ultime interrogazioni della fede, allora non esiste nessuna fede comunitaria. Allora si potrebbe cancellare la parola “Chiesa”, perché una chiesa che non ci garantisce una fede comune non è nessuna chiesa. Pertanto la questione di fondo sulla Chiesa e sulla Scrittura è ancora presente e non ha ricevuto risposta. Tutto ciò non esclude tuttavia che i veri credenti si possano incontrare in un profondo avvicinamento, come io stesso con compiacenza mi sento riferire.

Fra poco Roma celebrerà il 25.mo giubileo del Papa. Tutti i cardinali del mondo s’incontreranno insieme: Solo per i festeggiamenti, oppure in questa circostanza si vuole anche dare un segno per tutta la Chiesa?
Una festa è in sé qualcosa di bello e d’importante. La festa fa parte dell’esistenza umana. Pertanto questa festa si giustifica da sé ed è anche, al tempo stesso, un segno. Vi sono due momenti principali: la Messa solenne con cui il Papa celebra, il 16 Ottobre, il giorno anniversario della sua elezione, concludendo con un “Te Deum” di ringraziamento, e la beatificazione di Madre Teresa il 19 Ottobre. Essa è una delle figure luminose della fede, in cui veramente si rivela che cosa sia la Chiesa e che cosa essa può dare a noi. Nel frattempo sono programmate sei conferenze di cardinali sui temi principali del pontificato. Inoltre scambi di idee e colloqui, come anche un concerto organizzato dalla Mitteldeutsche Rundfunk, che farà eseguire la Nona Sinfonia di Beethoven. Infine, senza apparire moraleggianti e senza voler fare cose grandi, vorremmo sottolineare la gioia della festa. Ma quando gli uomini vedranno che la Chiesa ci riunisce insieme, che ci regala una festa e che il Papa, al di là di ogni confine, ci fa dono di una unità, che garantisce l’unità della Chiesa, allora questa festa ci avrà dato anche un segno.

Lei è anche decano del collegio cardinalizio. Nondimeno, ha la speranza di potersi dedicare a un lavoro personale? Se ne avesse tempo, quale stringente questione teologica vorrebbe affrontare per prima, quale titolo potrebbe avere la corrispondente pubblicazione?

Anzitutto: Devo imparare sempre di più ad affidarmi al Signore, sia che abbia tempo oppure no, perché con gli anni non si torna più indietro. Ma da qualche parte, nelle ore libere, che ci sono, anche se raramente, tento di portare avanti qualcosa, a poco a poco. Nel mese di Agosto ho cominciato a scrivere un libro su Gesù. Ne avrò sicuramente per due, tre anni, da come sembrano andare le cose. Vorrei con ciò dimostrare come dalla Bibbia ci venga incontro una figura vivente e in sé armoniosa e come il Gesù della Bibbia sia anche un Gesù sempre presente in mezzo a noi

fonte: http://www.kath.net/detail.php?id=6114 

Nella buona ma anche nella cattiva sorte

E se fosse suo figlio? (domande scomode…)